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mondocane

Trump, la globalizzazione del vaffa

Dalla Brexit alla Amerexit?

di Fulvio Grimaldi

Apicella trump 1In nessun paese i politici formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del Nord. Quivi ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare, che specula sui seggi tanto delle assemblee legislative dell'Unione quanto dei singoli Stati. /.../ Ci sono due grandi bande di speculatori politici che entrano in possesso del potere, alternativamente, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e ai più corrotti fini; e la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli che si presumono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano". (Friedrich Engels)

Premetto che la vignetta del grande Apicella su Trump-Lenin che spazza via la marmaglia capitalista è un’ottima intuizione grafica, ma anche un’ aspettativa appesa a fili di ottimismo che per ora non si sa se siano cordame da barca, o tela di ragno. E tutti coloro che danno per sicure e assicurate sia le prospettive nefaste, che quelle fauste, a seconda dei punti di vista, avranno probabilmente modo di aggiustare il tiro e, in qualche caso, svuotare il caminetto e gettarsi la cenere sul capo. I saggi latini dicevano “nemo propheta in patria”. Dovremmo aggiornarci alla civiltà del Bar Sport: “omnes prophetae in patria”.

Mi è stato dato di sfuggire ai primi scomposti ululati dell’italiota stampa delle larghe intese, con i soliti acuti strazianti del “manifesto”, ma ho ampiamente recuperato nei giorni successivi. Ero in volo quando la vittoria impossibile di Donald Trump, il candidato anatemizzato dall’universo mondo (che poi è solo quello nord-occidentale e nemmeno un settimo dell’umanità ) manco fosse Dart Fener, da ipotesi onirica si materializza in fatto, solido quanto le Montagne Rocciose che hanno contribuito a produrlo. La bomba Trump, hybris distopica per lo stato di cose esistente, mi è esplosa dagli schermi di un albergo a Berlino dove mi trovavo per l’invito a un talkshow televisivo. Prima della autoproclamata “comunità Internazionale” (in sostanza la NATO) a riprendersi, una Angela Merkel improvvisamente ritrovatasi senza tutor e, dunque, malferma, assicura al neo-eletto collaborazione, ma gli pone anche una non lieve condizione-auspicio: “purchè ci uniscano i nostri valori”. Che elenca: libertà, democrazia, solidarietà, diritti umani, pace. E che dalla metalingua dei palazzi vanno tradotti in controllo sociale tramite minaccia terroristica, manipolazione dei cervelli tramite monopoli della comunicazione, trasferimento della ricchezza dalla base alla vetta della piramide, autodeterminazione per l’élite, un po’ per i LGBTQ e per nessun altro. Apocalisse per chi non ci sta o, comunità o individuo, è semplicemente di troppo.

 

Talkshow alla tedesca

Il talk-show nel pomeriggio, era ben assortito. Un pubblico di 100, in maggioranza giovani, candidatisi da tutta la Germania e poi sorteggiati, volontari neppure rimborsati, con opinioni precise che esprimevano con applausi spontanei e ragionati, senza necessità che si sbracciassero direttori di studio, come succede da Floris, per un’equa distribuzione del clap-clap a tutto e al contrario di tutto.

Il tema era composizione, distribuzione, strutturazione del Potere nell’attuale società postmoderna del capitalismo finanziarizzato. Eravamo in 5, incluso il conduttore, con una bilancia dove il piatto pendeva visibilmente, anche per consenso di pubblico e punto di vista dell’emittente (“KENFM”.web-tv anti-UE, su posizioni simili al M5S), dalla parte dei negazionisti dell’eccellenza del sistema economico, sociale, politico in cui si era svolta l’appena conclusa contesa elettorale. Dal punto di vista mediatico main stream, fatta eccezione per il sottoscritto, i pezzi erano grossi. Un popolare conduttore del più seguito canale tv di Stato, ZDF, un celeberrimo editorialista per molti anni dello “Spiegel” (equivalente del nostro “Espresso”, o dello statunitense “Time”), uno studioso, con saggi di grande diffusione, della pubblicistica giornalistica ai tempi, come lui eccellentemente definiva, dell’ Inganno Sistemico e della “Fine del Giornalismo in quanto tale”, il conduttore, abilissimo a cucire argomenti opposti purché ne uscisse convincente quello eterodosso (il contrario di quanto fa, per esempio Lilli-Bilderberg-Gruber), e il sottoscritto.

Non vi starò a tediare con il racconto delle tre ore di scambio vivace. Con lo ZDF che, messo in corner dalla vittoria dell’orco razzista, xenofobo, sessista, eccetera,.tentava la ripartenza inneggiando alla democrazia Usa che, diversamente da noi, è perfetta nei turnover (ma si arenava a centrocampo quando gli si ricordavano i turnover a scandali, o a pallottole o il turnover dinastico dei Kennedy, Bush, Clinton). Quando gli sottomisi che l’euro poteva essere stato inventato per mimetizzare la dittatura del marco e che a fare un’Europa che la facesse finita con le costituzioni nazionali antifasciste erano stati gli Usa, si produsse in una Santanchè e minacciò di andarsene “davanti a simili scemenze”. Quello dello “Spiegel” , alle contestazioni che i giornalisti, fuori da internet, oggi si configurano come embedded e presstitute, giurava e spergiurava che, a dispetto di editori e oligarchi a capo del sistema, un giornalista basta che sia coraggioso e ce la fa a uscire con storie fuori dal coro. Dove? Ma sul Corriere della Sera, ha risposto, sul Washington Post, o sulla Sueddeutsche Zeitung (un misciotto giallo-rosa di regime, tra Repubblica e manifesto). Nientemeno. Giornalisti che condividono con i loro padroni la percezione della realtà. Ma questo pubblico, sorteggiato e non selezionato, batteva le mani a chi faceva intendere UE merda, Hillary merda, media merda, 1% merda. Come ho verificato neille successive, assai più stimolanti, chiacchiere con quei ragazzi. Da noi forse qualcuno arriva a Paragone. Non più in là.

 

Lo zero virgola, e l’1% che piace al “manifesto”

Intanto fuori dal coro nel nostro emisfero siamo rimasti in quattro gatti, lo zero virgola, esiliati su internet, a raccontarci che peggio di Trump c’era solo Hillary, la quale, per la proprietà transitiva, viene issata nell’empireo dei famosi “valori” di Angela Merkel dallo tsunami di improperi rivolti all’avversario. E per la stessa proprietà transitiva diventano paladini della democrazia, anzi del bello, giusto, sacro e sublime, della salvezza dei valori merkeliani, coloro che in queste ore, si sono scatenati in piazza sincronicamente in 25 città, a pochi istanti dalla vittoria di Trump, tutti con gli stessi cartelli e slogan bell’è stampati, convocati da George Soros tramite le Ong dei diritti umani (limitatamente agli umani dell’élite), MoveOn e Avaaz. E se si danno a feroci pestaggi dei subumani che stanno con Trump (vedi i numerosi video in rete), feriscono poliziotti, spaccano vetrine, danno fuoco alle macchine, sparacchiano in giro, non è altro, per tutti quelli che simili pratiche sogliono definirle teppismo, se non terrorismo, che una disobbedienza civile nei confronti di chi si è malamente avvalso del suffragio universale.

E sulla foto di un’incapucciata in prima pagina il “manifesto” titola cubitale:”Fa la cosa giusta”. Non pubblica, invece, la notiziola che a Seattle imprese di Washington invitano a manifestare contro “The Trump Agenda” in cambio di “benefits” come cure mediche, dentali, oculistiche, ferie pagate, malattia pagata ( Fight the Trump Agenda! We’re hiring Full-Time Organizers 15/hr! – reads a Craigslist ad from Washington CAN in Seattle. Activists are promised Medical, Dental, Vision, 401(k), Paid Vacation, Paid Sick Days, Holidays, and Leave of Absence). Tutto molto spontaneo, vero “manifesto”?

In un giornale che, per quanto da anni fedele alla linea internazionalista sorosiana di Radio Liberty/Radio Free Europe (frequentata anche da Politovskaja e G. Chiesa) e autentica talpa dello scavo cripto-imperialista, a tanti utili idioti ancora pareva la voce degli offesi, oppressi e sfruttati, il napalm scagliato su Trump e, ancora per la proprietà transitiva, su tutta una classe di operai senza fabbrica, di contadini senza terra, di emarginati e rasi al suolo dal capitale, è equivalso a un autentico e definitivo autodafé. Mosca cocchiera, la lobby talmudista tirava fuori un po’ di folklore KKK e neonazista filo-Trump al fine di oscurare il ruolo di Hillary quale candidata di quanto nel mondo aveva elevato all’ennesima potenza, tecnologizzato e universalizzato nel tempo e nello spazio, il progetto ultra-fascista di dominio totalitario mondiale, perseguito attraverso l’affettamento del genere umano, l’obliterazione di ogni diritto, pace, libertà. Vale a dire l’intero establishment del potere: neocon,servizi di intelligence, complesso militar-securitario, Wall Street, corporations,massonerie e mafie, tutto lo Stato Profondo che manovra lo scibile e l’esistente.

 

Nazista a chi?

Nello specifico ai talmudisti e loro corifei andrebbe ricordato che se a Kiev c’è stato un colpo di Stato che ha portato e consolidato al potere dichiarati nazisti, ora spediti ad ammazzare russi, anche comunisti, nel Donbass, lo si deve ai germogli spuntati nel dipartimento di Stato di Hillary, come Victoria Nuland, da lei addestrata e guidata nell’operazione Maidan. Per la Clinton si sono mossi in concerto l’Atlantic Council, think tank della Nato e covo di bellicisti ultrà e il CEEC, Consiglio dell’Europa Centrale e Orientale, affiliato alla Nato e che riunisce il revanscismo nazista delle destre baltiche, ucraine e polacche.

Hanno sotterrato una carriera criminale del clan Clinton degna dei prodotti più splatter della filmografia horror; hanno interpretato come sostegno alla candidata di “sinistra” i milioni arrivatile da coloro che con lei hanno fondato il terrorismo jihadista e che continuano a pagarlo perché abitui il mondo a massacri e atrocità (come insegnano i videogiochi esaltati dal “manifesto”); hanno messo in archivio fino alla prossima buona occasione i propositi di guerra a russi e a chiunque si metta di mezzo, fino all’armageddon nucleare, propositi magari riattivabili grazie a una bella “primavera americana” che Soros e soci pensano di duplicare da quelle allestite per altri regime change, o con qualche fucilata tipo Dallas.

 

“Quotidiano comunista” in odio alla classe operaia

Il fenomeno, surreale se si dimentica quanto la Chiesa da 2000 anni ci insegna in termini di ipocrisia e opportunismo, di chi alla lotta per la mitica classe operaia sostituisce quella condotta contro la classe operaia, perché rozza, ignorante, dotata di intestini e priva di neuroni (già successo con Brexit). E la conduce utilizzando le Forze Speciali addestrate da quelli che la guerra di classe dall’alto la conducono da sempre con relative vivandiere: LGBTQ, dirittoumanisti, nonviolenti a senso unico, chierici, femministe/i, accoglitori di migranti dai loro amici cacciati, anche se a milioni, quelli che perorano l’autodeterminazione delle balene e della foresta pluviale, ma trovano riprovevole e bombardabile quella di libici, iracheni e siriani. Anche dei russi, se preferiscono Putin.

E qui l’inventiva degli amici del giaguaro del “manifesto” supera quella del migliore Fregoli. Per Guido Viale, sodale di Adriano Sofri, il voto di quella metà degli elettori statunitensi che l’1% schierato con Hillary ha raso al suolo, privato di presente e futuro, reso abitanti-fantasma di un paese in cui Obama, spendendo per sette guerre e molti più salvataggi bancari, ha fatto a pezzi infrastrutture, sanità, sicurezza, casa, istruzione, privacy, giustizia, lavoro, tutto salvo i profitti dei banchieri e delle multinazionali più o meno delocalizzate tra schiavi morti di fame, per Guido Viale, dicevo, tutto questo è “la rivalsa della supremazia maschilista”. “Rivalsa di una popolazione maschile sulle donne che già era stata determinata dall’inadeguatezza di un socialismo sui generis, del nazionalismo arabo e dell’immigrazione in Europa”.

 

Ma quale capitalismo, ma quale imperialismo! E’ maschilismo!

Qui tralascio ironia e sarcasmo, pur meritato, per definire propriamente canagliesca la manovra del Viale di attribuire la retrocessione delle donne a colpe delle nazioni progressiste arabe che, in pochi fenomenali anni, le avevano tratte a un’emancipazione che da noi aveva impiegato secoli (per poi degenerare). Obliterando in perfetta malafede gli effetti sulla condizione delle donne provocati da quanto l’Occidente ha fatto uscire dalla cornucopia sversata sul Medioriente: l’assalto alle donne, in prima linea, dei Fratelli Musulmani dell’egiziano Morsi con la sua Sharìa (di cui Hillary è documentata vindice), l’oscurantismo wahabita degli alleati saudita e qatariota, il jihadismo mercenario, stupratore e tagliagole, rastrellato in giro per il mondo. E non solo imposizione di norme e vincoli privatori di cittadinanza e dignità, promotori di mercificazione e schiavismo. Una catastrofe sociale determinata da privazioni, sradicamento e spopolamento che, distruggendo la comunità e il suo ordine, torna a caricare la donna di incombenze e responsabilità primarie, legate alla sopravvivenza: cibo, vestiario, cura dei figli. E a renderle inarrivabile il resto.

 

La grande incognita, meno peggio della grande cognita.

E’ opportuno precisare che di Donald Trump non si conosce nulla, salvo il suo linguaggio indirizzato a una popolazione deprivata non solo di mezzi di sussistenza, ma anche di cultura e che, comunque, parla come la maggioranza, specie quella sottoposta a deculturizzazione, parla in privato quando dal politically correct scivola nel dialogo da spogliatoio, come lo chiama The Donald. Quanto ha detto di concreto aspetta la prova dei fatti e, prima di allora, ogni speculazione, illazione, allusione, anticipazione, promettente o preoccupante, lascia il tempo che trova. Del muro col Messico sappiamo già che era trovata strumentale di fronte a gente che ha visto il suo lavoro scippato dalle corporations e affidato a sottopagate donne messicane e centroamericane, a perenne rischio di femminicidio. E che sa bene, facendo di tutta l’erba un fascio, come da Messico, Centroamerica e Colombia, insieme a profughi dal neoliberismo del caudillo, fantoccio Usa, arriva anche la droga che ammazza per le strade e rimpingua le banche che gli hanno fottuto la casa. Del resto il muro, di tremila chilometri, esiste già. L’hanno fatto Bush e Obama e io l’ho filmato (spot: “Messico, angeli e demoni nel laboratorio dell’Impero”).

Curioso come tutti i flagellanti nostalgici della più corrotta e sanguinaria personalità politica emersa dal capitalismo nella sua fase imperialista avvoltolino la loro indignazione nella cartaccia degli spropositi trumpiani, ma ignorino quelli che potrebbero anche diventare sabbia gettata negli ingranaggi della guerra globale. Tipo il rifiuto di scazzottarsi con Putin col rischio di innescare un day after globale, il riconoscimento della sacrosanta russità della Crimea, il raffreddamento di una Nato oggi al calor bianco e di cui ha detto di non vedere l’utilità, la preferenza per un Bashar el Assad al potere piuttosto che l’Isis, la necessità di concentrarsi con la Russia sulla’eliminazione della metastasi jihadista (che potrebbe anche sottintendere il disvelamento delle complicità dello schieramento hillariano con quella metastasi), la sacrosanta condivisione degli scampati all’UE con la rivoluzionaria BREXIT. E, di rilievo assoluto, la dichiarata intenzione di cancellare i trattati di ineguale scambio, TTP, TTIP e Nafta, magari a difesa dei posti di lavoro negli Usa, ma di incommensurabile beneficio per noi.

 

Barlumi e nuvole

E’ vero che a questi barlumi di luce all’orizzonte si affiancano i nuvoloni neri della progettata cancellazione dell’accordo con l’Iran, la negazione del problema climatico, oleodotti devastanti, i salamelecchi ai nazisionisti (cui non sembrano peraltro credere i talmudisti di casa nostra, infoiati appresso a Hillary e contro Trump e affidabili rivelatori delle reali posizioni del sinedrio). Insomma, inutile fasciarsi la festa o accendere ceri prima che l’uomo dalla polentina in testa e che, comunque, ha tirato fuori la classe operaia e contadina americana dall’oblio nella disperazione in cui la gente dell’antagonista l’aveva relegata, stia seduto nella sala ovale, se la veda col Congresso e con il resto del mondo. Se ce lo fanno arrivare.

Intanto è in corsa una sommossa, innescata dall’oligarchia mondialista che gli operai li ha disintegratii, e pompata da quell’unanimismo mediatico che dell’oligarchia è il pifferaio e la prostituta. E’ la sommossa di coloro che, fino a ieri, rischiavano la sommossa di un’altra classe, quella il cui lavoro era finito a schiavi in India, Cina e Messico, i cui salari erano andati trasformandosi in bonus di manager e dividendi di azionisti e le cui case erano finite nei caveau delle banche. E’ la sommossa comandata da chi entro la fine di agosto aveva già speso per le sue guerre 5mila miliardi di dollari, i cui interessi sul debito per finanziare le 7 guerre di Obama, da moltiplicare sotto Clinton, sono di 453 miliardi e arriveranno a mille nel 2023, e che fa guadagnare alla sua industria della sicurezza (leggi: di Stato di polizia) 548 miliardi di dollari l’anno con la scusa del terrorismo (autogenerato). Non meraviglia che, provato da difficoltà mai aspettate, chi ha dato solare evidenza del suo distacco galattico da popolo e realtà, punti al pogrom, forse alla guerra civile, per almeno delegittimare uno che con il resto del mondo non vuole litigare. Uno delegittimato è più facile da assassinare.

 

Rivoluzioni incompiute.

A Reagan spararono perché aveva posto fine alla guerra fredda. Kennedy lo ammazzarono perché meditava di ritirare le truppe dall’Indocina e aveva rifiutato di firmare il piano Northwoods sottopostogli dai capi di Stato Maggiore, una gigantesca False Flag (vedi in rete), con migliaia di vittime Usa, per dare il colpo di grazie a Fidel Castro.

Robespierre intuiva e Marx e Lenin avevano imparato dalla storia che nessun cambiamento si avvera fin quando la classe dirigente è lasciata integra dalla rivoluzione. Ce ne stiamo accorgendo in tutta l’America Latina, dove rivoluzioni che non hanno tolto di mezzo la classe dirigente nei suoi poteri e mezzi (a partire da media, Ong e quattrini), si stanno aprendo alla controrivoluzione di Washington. S’è visto in Brasile e Argentina e il Venezuela è sotto tiro. E’ un classico errore quello di fare affidamento sulla buona disposizione al compromesso della classe dirigente spodestata (ci rifletta anche Putin). Hugo Chavez, all’apice della forza e del consenso popolare, perdonò e rimise in circolo i golpisti del 2002. E al sabotaggio della distribuzione di viveri operata dalle grandi catene in Venezuela, Maduro non ha voluto rispondere con la nazionalizzazione dell’intera rete.

Trump è uno che fa affari, che negozia e media. L’oligarchia può concedergli l’apparenza del successo in cambio della rinuncia al successo reale. Trump potrebbe anche essere l’altro elemento della coppia di marionette che il puparo in cima alla piramide mette in campo per la truffa della dialettica e della democrazia. Così è accaduto molte volte negli Usa e nei regni della borghesia capitalista. Ma Trump potrebbe anche essere la rara variabile impazzita. Lo farebbe pensare il fatto che abbia contro proprio tutti, da Goldman Sachs a Rothschild, da Rockefeller alle femministe tipo Albright, Rice, Powers, dall’evasore del Lussemburgo e sbronzone UE Juncker al Battaglione Azov, e, si parva licet componere magnis, dal New York Times a Giovanna Botteri, a Norma Rangeri, a Fabio Fazio, a Roberto Saviano, a li mortacci dell’animaccia loro. La combinazione tra una politica che punta al verticismo totalitario, un’economia minata da globalizzazione e migrazione, una geopolitica di guerra e fame, è l’incubo della fase. Se Trump capisce questo, come sembrava da alcune uscite, va sostenuto. E va sostenuto se sono vere le cose che dice su Putin, la Russia, la Siria, Isis, e trattati di libero scambio. Sono dirimenti. Accontentiamoci. Primum vivere.

Lets wait and see.

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