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linterferenza

“TrumpExit”?

Fabrizio Marchi

trump vittoriaAvevo inizialmente pensato di lanciarmi, come al solito, in una delle mie lunghissime analisi per riflettere sulle elezioni americane e sulle ragioni che hanno portato all’affermazione di Trump.

Poi ci ho ripensato, per due motivi fondamentali. Il primo che è che mi sto esercitando ad essere quanto più possibile sintetico (anche perché sollecitato da molti in tal senso…). Il secondo perché in effetti le ragioni della sconfitta di Clinton e dei “democratici” e del trionfo di Trump sono tutto sommato molto semplici pur, paradossalmente, nella loro complessità, e la cosa più giusta da fare è soltanto quella di cercare di spiegarle nel modo più semplice e chiaro possibile.

La crescita esponenziale delle destre neopopuliste in America e in Europa è la conseguenza inevitabile di un processo storico-politico che, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, ha visto la “sinistra”, in tutte o quasi le sue declinazioni (ivi compresa la grandissima parte di quella sedicente “antagonista”), diventare del tutto organica politicamente e ideologicamente al sistema dominante, al punto di essere considerata dai “padroni del vapore” più funzionale e adatta (rispetto alla destra) a garantirne la “governance”.   Tutto ciò contestualmente alla scomparsa di una Sinistra di classe, adeguata ai tempi, quindi non statica e non dogmatica, capace di interpretare le contraddizioni vecchie (ma tuttora attualissime) e nuove (in questo caso, quando va bene, si brancola nel buio…) prodotte dal sistema capitalista. A tal proposito, per i più volenterosi (e per chi ha più tempo), ripropongo il primo editoriale che pubblicai su questo giornale e che, a mio parere, mantiene intatta la sua attualità:  http://www.linterferenza.info/editoriali/destra-e-sinistra/

In questo contesto, è del tutto ovvio e conseguente che ampi settori popolari, abbondonati a loro stessi, disarmati ideologicamente, impoveriti e precarizzati dalle politiche neoliberiste e privi di una rappresentanza politica, cerchino più o meno disperatamente una sponda, una metaforica scialuppa di salvataggio, e la trovino o credano di trovarla in chi, per lo meno a parole, gliela offre: la neo destra populista, anch’essa del tutto organica al sistema capitalista che si guarda bene dal mettere in discussione, capace però di offrire una ricetta rassicurante, una miscela di protezionismo economico, paternalismo sociale “neo corporativista” e “neo nazionalismo identitario” che, pur nella sua miseria ideale, culturale e politica, viene preferita o comunque percepita come meno pericolosa, destabilizzante e devastante rispetto al capitalismo selvaggio globalizzato, neo liberista e imperialista.

Nel momento in cui quest’ultimo – e qui arriviamo ad un altro nodo fondamentale e per nulla secondario – ha scelto da tempo di dotarsi di una nuova “falsa coscienza”, di spogliarsi cioè del vecchio sistema valoriale ideologico vetero borghese (il famoso Dio, Patria e Famiglia), giudicato ormai obsoleto, per assumere il nuovo, cioè l’ideologia cosiddetta del “politicamente corretto” in tutte le sue correnti e declinazioni (che vanno, fra le altre, da un distorto neo universalismo pseudo kantiano finalizzato ad esportare “democrazia e diritti” a suon di bombe ad un neo femminismo sessista ed interclassista), considerata più funzionale ai suoi interessi e alle sue esigenze riproduttive, la nuova destra populista non poteva che farsi a sua volta portatrice e paladina anche di un punto di vista ideologico e valoriale “alternativo”.

Questa “alternativa” ideologica – è fondamentale chiarirlo – ha poco se non nulla a che vedere con il vecchio “Dio, Patria e Famiglia” (ci riflettano bene tutti quei vetero o neo conservatori che oggi esultano per la vittoria del “neo destro” e “neo populista” Trump) di cui sopra, perchè si tratta di una ideologia che affonda le sue radici in una concezione fortemente identitaria, esclusivista, “etnicista” e “comunitarista” (ma in senso appunto esclusivista, cioè che esclude chi non ne è parte organica) che sconfina di fatto nel razzismo, anche se non proprio apertamente dichiarato (il “politically correct” è ancora potente…). Si tratta quindi di una ideologia molto aggressiva, nonostante il proclamato “isolazionismo” e il “non interventismo” (quest’ultimo sono proprio curioso di verificarlo qualora ad esempio in un paese centro o latinoamericano, cioè quello che gli USA da sempre considerano il loro giardino di casa, si insediasse un governo a loro palesemente ostile che cacciasse a calci nel sedere le multinazionali nord-americane dal proprio territorio…), che però, a differenza dell’imperialismo a sfondo “universalista democratico, progressista, politicamente corretto ed esportatore di diritti” a cui ci hanno abituati dalla distruzione della ex Jugoslavia ad oggi, fa leva su di un nazionalismo esasperato che non può non diventare anch’esso necessariamente imperialista, come è peraltro sempre avvenuto nella storia. La Germania, solo per fare un esempio, grande potenza dell’Europa centrale fin dal XIX secolo e con un’altra storia, cultura e tradizione rispetto alla Gran Bretagna, non è stata meno imperialista di quest’ultima (posizione geografica a parte che gli impediva oggettivamente di poter competere con gli inglesi per mare e che si estrinsecava nella espansione dei suoi confini e nella ricerca di “spazio vitale” che non poteva che avvenire prevalentemente, ma non solo, in Europa), anche se il suo imperialismo è stato ideologicamente caratterizzato in modo diverso (appunto con una forte o comunque maggiore impronta nazionalistica, legata alla presunta necessità di allargare i propri confini e di espandersi territorialmente) rispetto a quello britannico. Non è un caso – aggiungo – che i primi ad esultare per la vittoria di Trump siano stati proprio gli estremisti di destra ultranazionalisti israeliani del Likud, i quali sanno perfettamente che la nuova amministrazione USA lascerà loro mano libera in Palestina, cioè in quella che considerano a pieno diritto la loro terra e, a mio parere, anche nel resto o in gran parte del Vicino Oriente, che da sempre Israele considera come suo spazio vitale e area di sua stretta pertinenza.

Ciò detto, sia il politicamente corretto che il neo populismo, oltre ad essere accomunati dallo stesso tasso di fanatismo ideologico sono, secondo il mio punto di vista, speculari l’uno all’altro, perchè l’uno produce e alimenta l’altro. L’esplosione del neo populismo è il risultato di quarant’anni di bombardamento mediatico politicamente corretto finalizzato a depistare le masse, a coprire ideologicamente l’offensiva neoliberista, la sistematica distruzione dei diritti sociali e del mondo del lavoro e la guerra imperialista permanente. Ma anche questa potente macchina ideologica e mediatica ha dimostrato di cedere di fronte alle contraddizioni reali, economiche e sociali, prodotte dallo “sviluppo” capitalistico. A poco è valso, nel caso americano, ed anzi si è rivelata controproducente, la retorica della candidatura di una “donna in quanto donna”, peraltro politicamente bollita e impresentabile come Hillary Clinton, una delle principali responsabili politiche e morali delle aggressioni alla Libia e alla Siria, del caos totale in cui versa l’intera area mediorientale, e naturalmente sostenuta dalle grandi lobby finanziarie e da tutto l’apparato mediatico. Anche la maggioranza delle donne americane ha beffardamente votato per Trump, il che la dice lunga, anche se bisogna pur sempre considerare che il sistema elettorale americano è perverso e a causa del meccanismo dei cosiddetti “grandi elettori” fa sì che anche il candidato meno votato possa essere eletto, come è successo in questo caso (meraviglie dell’ingegneria elettorale e del sistema maggioritario di cui tanti tessono le lodi in virtù di una presunta maggiore “governabilità”…).

Le elezioni americane e l’affermazione a sorpresa di Trump hanno quindi oggettivamente aperto una fase nuova anche dal punto di vista ideologico. Il mainstream, come si suol dire, politicamente corretto dominante, ideologia ufficiale dell’attuale forma del dominio capitalistico (solo la “sinistra” radicale non se ne è ancora accorta o fa finta di non accorgersene), si trova ora ad avere a che fare con una nuova e aggressiva “weltanschauung”. Ma anche le evoluzioni ideologiche del sistema capitalista non sono separabili dalle (sue) trasformazioni economiche e sociali complessive e dai rapporti di forza interni. Se l’ideologia politicamente corretta, che il capitale ha mutuato dalla “sinistra liberal e radical” è stata ed è tuttora il collante ideologico di un blocco sociale che va dall’alta finanza e dal capitale trans e multinazionale ai ceti medioborghesi cosiddetti “emergenti” e al terziario più o meno “avanzato”, il neo populismo (americano o europeo) è riuscito a costruire un’alleanza interclassista fra “borghesie nazionali” che aspirano a riconquistare quell’egemonia politica che gli è stata scippata dal grande capitale multinazionale e globalizzato, e ceti popolari e proletari disgregati, frammentati, completamente sprovvisti di un barlume di coscienza di classe, impauriti (e ne hanno ben donde) e alla disperata ricerca di un soggetto politico che, se non li rappresenti, quanto meno tenga in minimo conto le loro esigenze di sicurezza sociale. Il collante, o meglio il compromesso che tiene in piedi questo blocco sociale, sia in America che in Europa, è rappresentato dalle politiche protezionistiche e “antimmigrazioniste” che nella speranza dei ceti popolari e piccolo borghesi potrebbero impedire la delocalizzazione (e la conseguente deindustrializzazione di intere aree) e quindi salvaguardare i posti di lavoro, anche a costo di rinunciare alla sanità pubblica (come ha già annunciato Trump) e allo stato sociale. Del resto la destra trumpista (così come il capitalismo “liberal” e altrettanto liberista) è nemica per definizione dello stato sociale, il cui smantellamento sarebbe compensato (così dicono…) dalla ripresa dell’economia dovuta alla diminuzione della tassazione sulle imprese (che non delocalizzano) e che innescherebbe un circuito virtuoso, rimettendo in movimento l’economia (e quindi i consumi). Non sono di certo un esperto di economia ma mi sembrano ricette economiche molto vecchie e anche ampiamente sperimentate, che non mi pare abbiano sortito particolari effetti rigeneranti laddove sono state applicate.

Quanto e se, peraltro, queste politiche protezionistiche e isolazioniste saranno veramente applicate dalla nuova amministrazione americana non è dato al momento saperlo. Personalmente sono scettico perché credo che il “sistema USA”, che è qualcosa di più grande e complesso del personaggio Trump e del suo staff, non possa venire meno alla sua vocazione imperialista. L’America è in fondo prigioniera delle sue contraddizioni, perché da una parte il processo di globalizzazione capitalista ha portato il suo apparato produttivo a delocalizzare e quindi a impoverire la popolazione autoctona (milioni e milioni di posti di lavoro perduti, crollo dei consumi, insicurezza sociale) ma dall’altra anche Trump (come tutti) sa perfettamente che se vuole mantenere o riportare un livello di benessere considerato accettabile dalla maggioranza dei cittadini americani, per lo meno della piccola media borghesia, di una parte della classe operaia “storica” del Midwest e della cosiddetta “Rust Belt” e degli abitanti delle zone rurali (cioè l’ex elettorato democratico più il suo elettorato di riferimento), non può rinunciare allo sfruttamento delle risorse del pianeta. Ergo, gli USA non possono rinunciare ad essere una potenza imperialista. Una contraddizione insanabile, per lo meno all’interno dell’attuale paradigma. E’ probabile che questa sarà una fase di in cui gli Stati Uniti tireranno relativamente i remi in barca, come è altre volte avvenuto nella loro storia, e questo gli consentirà di tirare il fiato e di risparmiare le forze per un certo periodo, in previsione di un ritorno in grande stile da qui ad alcuni anni, magari con un’altra amministrazione.  Però è ovvio che nessuno ha la sfera magica e quindi per ora possiamo solo fare delle ipotesi sulla base di quelle che sono le nostre conoscenze e la nostra esperienza.

In tutto ciò, registriamo per l’ennesima volta la penosa e drammatica assenza di una Sinistra di classe autentica, non dogmatica, in grado di entrare in una relazione dialettica con la realtà, di interpretarla nella complessità delle sue contraddizioni vecchie e nuove e di offrire una risposta alla domanda, sia pur disordinata e confusa, di rappresentanza politica che proviene dai ceti popolari e subalterni. Questa assenza è la vera tragedia del nostro secolo e di questa fase storica ed è in direzione di tale obiettivo che bisognerebbe concentrare le nostre energie e i nostri sforzi. Optare per l’uno o per l’altro degli attuali schieramenti comunque interni al sistema, come fanno alcuni anche in buona fede, per una sorta di “realpolitik della necessità”, perché “comunque bisogna prendere posizione”, è un atteggiamento errato e depistante, sotto ogni punto di vista.

E’ ben altro il compito (immane) che abbiamo di fronte, ma non siamo certo i primi che si sono trovati nella storia in queste condizioni. Al contrario, tanti altri si sono ritrovati in situazioni ben più difficili. Per cui mettiamo da parte i piagnistei, armiamoci di tanta pazienza e lavoriamo nella direzione giusta.

P.S. mi sono fatto prendere la mano ancora una volta e non ho mantenuto la promessa di essere sintetico. Sarà per la prossima volta. Abbiate pazienza…

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