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lordinenuovo

La collocazione dell'uscita dall'UE nella strategia per il socialismo

di Domenico Moro

italexit 1Il dibattito intorno all’Unione Europea e alla permanenza dell’Italia al suo interno ha attinto nuova linfa dalla crisi sanitaria del Covid 19 e dalle conseguenti contrattazioni tra i paesi europei per l’individuazione dei meccanismi di sostegno agli Stati. Ciò che è, però, largamente assente dalla discussione è una posizione autonoma dei comunisti che approfondisca le condizioni attuali del processo di integrazione europea, la complessità delle relazioni competitive tra paesi capitalistici e i meccanismi di controllo e oppressione messi in campo attraverso le istituzioni dell’Unione Europea.

Con il seguente articolo inauguriamo una rubrica di discussione sul tema e intendiamo lanciare un’ampia riflessione strategica sul ruolo dei comunisti nella lotta contro le istituzioni europee. Lo faremo grazie a diversi contributi che si soffermeranno sui vari aspetti che compongono la questione, attraverso una molteplicità di punti di vista provenienti, anche, dai partiti comunisti degli altri paesi membri, con il fine di contribuire a far avanzare il dibattito tra i comunisti su questa importantissima tematica.

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La questione del giudizio da dare sull’Ue e sull’euro appare oggi ancora più centrale che nel passato alla luce della recente crisi del Covid-19. Come già verificatosi nel corso della crisi precedente, quella del 2007-2008, l’Ue e l’euro presentano delle caratteristiche intrinseche che impediscono di far fronte alla crisi e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati.

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coniarerivolta

Quell’inspiegabile euforia sul Recovery fund

di coniarerivolta

bomboloLa proposta di Recovery Fund, poi Next Generation EU (NGEU), della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, dopo quattro giorni di discussione in seno al Consiglio europeo ha trovato il suo sbocco nell’accordo del 21 luglio, firmato dai rappresentanti dei Paesi dell’Unione europea.

Il piatto forte dell’accordo è un piano per la ripresa economica che potrà arrivare fino a 750 miliardi di euro. Una volta raccolte sul mercato, queste risorse saranno erogate ai Paesi dell’Unione nella somma di 390 miliardi sotto forma di contributi a fondo perduto (che, in altri termini, non dovranno quindi essere restituiti direttamente dai Paesi che li otterranno), e sotto forma di prestiti per 360 miliardi.

L’accordo, che si inserisce nel più ampio quadro finanziario pluriennale 2021-2027, è stato esaltato dai media italiani come un grande trionfo per il governo Conte, ma anche come una sorta di “rivoluzione” che segna la nascita di una nuova Unione europea, finalmente più vicina ai cittadini dei suoi Paesi. Un rinsaldamento dell’unione politica, evidenziato, in particolare, dal fatto che l’Unione si indebita ‘in prima persona’.

Come si vedrà, e come, peraltro, era ampiamente prevedibile, la realtà è ben diversa. Da un lato, infatti, i nuovi aiuti europei, soprattutto se considerati al netto dei contributi che i Paesi beneficiari devono, a loro volta, versare, sono poco più di un pannicello caldo. Ben poca roba davanti a quella che si annuncia come la più profonda crisi economica dall’ultimo dopoguerra. Dall’altro, cosa ancor più grave, vengono rafforzati e affinati quei meccanismi di controllo e di imposizione dell’austerità che hanno da sempre caratterizzato, in maniera via via più invasiva, la storia dell’integrazione europea, con un portato di disoccupazione, disagio sociale e precarietà per descrivere il quale non si può far altro che parlare di disastro.

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effimera

L’accordo europeo per il Recovery Fund

Paesi “frugali”, vantaggi per l’Italia e fake news

di Andrea Fumagalli

Europe1. Si discute in Europa di Recovery Fund come possibile strumento per fronteggiare la grave crisi economica e sociale avviata dall’emergenza Covid-19 e uno dei motivi del contendere è la riluttanza dei cosiddetti paesi “frugali” a concedere prestiti a fondo perduto ad alcuni paesi mediterranei, considerati troppo spendaccioni. L’Italia guida la classifica di questi paesi, da mettere “sotto osservazione” secondo quanto dichiarato più volte dal premier olandese Rutte e dal premier austriaco Kurz.

Con l’accordo del 21 luglio viene definito, dopo un serrato confronto, il programma che segna la nuova politica fiscale europea, con 750 miliardi di fondi, ma con una riduzione dei sussidi a fondo perduto: saranno 390 i miliardi anziché 500, il resto in prestiti. L’accordo prevede anche una riduzione del bilancio dell’Unione per il 2021-2027 che viene rifinanziato per 1.074 miliardi: una cifra contenuta rispetto al budget 2014-2020 e alle proposte che erano in discussione prima della pandemia.

Per quanto riguarda l’Italia, grazie ai nuovi criteri di allocazione delle risorse, al nostro Paese spetterà un ammontare di fondi superiore a quello previsto a fine maggio: 209 miliardi di euro, circa 82 di sussidi a fondo perduto e 127 di prestiti (rispetto ai circa 90 inizialmente previsti). Il piano di spesa prevede l’impegno del 70% delle risorse nel biennio 2021-2022 e il restante 30% entro la fine del 2023. I prestiti dovranno essere rimborsati un anno prima rispetto alla bozza della Commissione, tra il 2027 e il 2058.

Il rapporto sussidi / prestiti si riduce allo 1,1[1]. Per l’Italia, il rapporto sovvenzioni/prestiti si riduce notevolmente rispetto alla media europea arrivando a 0,64, a riprova di come il nostro paese, considerato meno affidabile, si trovi già in una situazione penalizzata.

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lavoroesalute

Recovery Fund, ma quale svolta storica?

Alba Vastano intervista Vladimiro Giacchè

“I molti inni che sentiamo in favore dell’accordo sul Recovery Fund sono in fondo sospiri di sollievo perché a questo giro quella crisi è stata evitata. Ma le caratteristiche stesse di questo accordo, e l’insensata decisione di non abolire bensì unicamente a sospendere i trattati prociclici ed economicamente depressivi posti in essere durante la crisi precedente (a cominciare dal fiscal compact), sono la migliore garanzia che presto o tardi si tornerà a ballare”

LP 11425807Raggiunto, dopo quattro giorni di lavori in Consiglio europeo, l’accordo sul Recovery Fund. Di cosa si tratta e, in realtà, cosa si è raggiunto e a cosa si allude quando si parla di successo e volta storica? Ѐ davvero la panacea per risolvere i problemi legati alla più grave crisi economica dal dopoguerra, come fosse un novello piano Marshall? A mal pensare in tal caso non si fa peccato, perché le tenaglie di nuovi tagli per le riforme che si dovranno mettere in atto con il Recovery Plan sono una realtà legata alle condizionalità per ottenere i fondi. Inoltre è già appurato che la maggior parte dei fondi saranno a debito e che il futuro dell’economia e dei rapporti con l’Ue, non sostenuti dal principio di solidarietà fra gli Stati membri, non saranno un pranzo di gala. Su queste tematiche risponde, nell’intervista a seguire, il professor Vladimiro Giacchè, illustre economista, saggista e filosofo. Presidente del Centro Europa ricerche a Roma. Autore di molti saggi illuminanti sugli intricati snodi irrisolvibili e irriformabili dell’Ue e sulla gabbia, in cui siamo reclusi, dei Trattati che hanno smantellato le Costituzioni e si sostanziano a favore delle politiche neoliberiste in atto.

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D: Recovery Fund : si tratta di sovvenzioni a fondo perduto ma soprattutto di debito, quindi quali le differenze con il Mes che potrebbe anche essere implementato a seguire?

R: La differenza principale consiste nel fatto che non tutti i fondi del Recovery Fund sono nuovo debito. Il principale tratto in comune è la presenza di condizionalità attivabili. E, più in particolare, quella, pericolosissima, che lega – almeno potenzialmente – l’utilizzo di questi fondi all’ossequio alle manovre di “rientro dal debito” e simili “raccomandate” dalla Commissione europea. Chiunque critichi questo aspetto ha perfettamente ragione.

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micromega

Come il Mes. Anche il Recovery fund ha le condizionalità

di Alessandro Somma

01 BACHECA Altan lEspresso 5luglio2020Fake news

A prescindere da come si valuti la reazione dell’Europa all’emergenza sanitaria e alla relativa crisi economica, la conferma della sua irrimediabile inadeguatezza o il segno di un nuovo inizio, occorre riconoscere che le iniziative intraprese sono circondate da una vera e propria coltre di notizie false.

Non corrispondono al vero i numeri che descrivono l’entità dell’assistenza finanziaria, perché si presentano come direttamente stanziate dall’Europa cifre che saranno eventualmente mobilitate dai fondi messi a disposizione. Esemplare quanto detto dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che ha parlato di uno sforzo complessivo di 2400 miliardi per contrastare la crisi: una dichiarazione cui ha reagito duramente il Parlamento europeo, che ha messo “in guardia la Commissione contro il ricorso a sortilegi finanziari e a dubbi moltiplicatori per pubblicizzare cifre ambiziose”[1].

E che dire del dibattito surreale sul cosiddetto Mes sanitario, che si ritiene possa essere attivato a condizionalità leggere: il solo “impegno a utilizzare questa linea di credito per sostenere il finanziamento nazionale dei costi diretti e indiretti per la sanità, le cure e la prevenzione”[2]. Certo, questa possibilità è stata confermata in una lettera del Vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e dal Commissario per l’economia Paolo Gentiloni[3]. E tuttavia questa lettera indica un impegno politico, e in nessun caso può prevalere su quello che dicono le regole giuridiche a proposito di Mes. I Trattati europei stabiliscono che esso fornisce assistenza finanziaria solo se “soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136 Tfue), e lo stesso precisa il Trattato istitutivo del Mes, aggiungendo che le condizionalità “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite” (art. 12).

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patriottismocostit

Il ‘vincolo esterno’ e l’adesione dell’Italia all’Unione Economica e Monetaria

di Sandro Arcais

vincoloesternoIn questi giorni di offensiva per ottenere la richiesta del MES da parte dell’Italia e di trattative in cui le nazioni della disUnione europea si confrontano su come affrontare la crisi economica conseguente al covid-19 potenziato da più di 10 anni di austerità, è bene tenere a mente la posizione strutturalmente debole dell’Italia. Tale debolezza nasce dalla scelta di parte della classe politica e praticamente della totalità del capitalismo italiano di non prendersi la responsabilità diretta di governare questo paese, ma di governarlo attraverso il ‘vincolo esterno’. Più loro diventano minoritari nel paese, più forte deve essere tale vincolo. Per loro è una questione di sopravvivenza. Ecco perché sono così pericolosi per il Paese.

L’articolo che segue presenta, commenta e integra uno studio sulla teorizzazione del ‘vincolo esterno’ e sul suo uso da parte di una ristretta tecnocrazia italiana per legare l’Italia all’Unione economica e monetaria europea, disfarsi del ceto politico della Prima Repubblica e sottomettere il ceto politico della seconda alle regole dell’Ue e dei mercati (il ‘pilota automatico’).

Se non indicato altrimenti, tutte le citazioni sono tratte dallo studio stesso.

Buona lettura

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Kenneth Dyson e Kevin Featherstone sono due studiosi inglesi. Il primo lavora presso l’Università di Cardiff. I suoi interessi si situano «nel punto di intersezione tra integrazione europea, economia politica comparata e storica e studi tedeschi». Il secondo opera attualmente presso la London School of Economics and Social Science. Il suo campo di ricerca ruota attorno «la politica comparata, la politica pubblica e l’economia politica.

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scenarieconomici

Recovery Fund: un sommario di tutti i veri dati

di Guido Da Landriano

pacco vuotoVi presentiamo una serie di immagini e tabelle nelle quali sono spiegati tutti i veri dati, quelli basati sui documenti ufficiali e su stime super partes, non sulle voci messe in giro da Casalino o su numeri di provenienza, diciamo così, spuria.

Se volete potete salvarvi questi dati o salvare la URL della pagina, e divertirvi a confrontarli con le gentili e soavi amenità che sentite in TV.

Buona Lettura.

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lafionda

Recovery Fund, un MES all’ennesima potenza

di Thomas Fazi

vertice 1200 690x362 1Su una cosa praticamente tutti – giornalisti, commentatori, esponenti del governo (e persino alcuni dell’opposizione!), comuni cittadini – sembrano essere d’accordo: l’accordo raggiunto in sede europea sul cosiddetto Recovery Fund rappresenta una «grande vittoria» per l’Italia e un «evento storico» per l’Europa.

Per capire se è veramente così, vediamo di cosa si tratta. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il “Next Generation EU” (NGEU), ovvero i famigerati 750 miliardi che la Commissione potrà prendere a prestito sui mercati e il quadro finanziario pluriennale (QFP), ovvero il bilancio europeo classico, che andrà dal 2021 al 2027. Per quanto riguarda il NGEU, il totale (750 miliardi) rimane invariato rispetto alla proposta originale della Commissione, ma cambia di molto la sua ripartizione. Sono stati ridotti i “trasferimenti a fondo perduto” – da 500 a 390 miliardi – e sono stati aumentati i “prestiti bilaterali”, da 250 a 360 miliardi. Per quanto riguarda il bilancio europeo, invece, esso avrà in dotazione poco più di mille miliardi di euro, un po’ meno rispetto a quanto proposto inizialmente dalla Commissione.

Per far quadrare i conti, sono stati ridotte alcune voci di spesa del bilancio comunitario. Sono state introdotte anche delle importanti modifiche ai cosiddetti “rebates”, ovvero gli sconti che vengono storicamente fatti ad alcuni Stati che sono contribuenti netti al bilancio comunitario: Danimarca, Olanda, Germania, Austria, Svezia. L’Olanda, per esempio, riceverà ogni anno circa 500 milioni in più rispetto a quanto era inizialmente previsto.

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lordinenuovo

Recovery Fund, riduzione delle sovvenzioni e aumento delle condizionalità

di Domenico Moro

Michel Von Der Leyen 768x512La riunione del Consiglio europeo sul piano finanziario Next Generation Europe, altrimenti conosciuto come Recovery fund, doveva durare due giorni. In realtà, si è protratta per ben cinque giorni, a testimonianza della profondità delle divergenze che si sono manifestate all’interno del Consiglio tra, da una parte, i Paesi cosiddetti frugali, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e, dall’altra parte, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia. L’oggetto del contendere ha riguardato sia le modalità di suddivisione in sussidi e prestiti del Recovery fund sia le condizionalità imposte agli Stati per usufruirne.

Ma vediamo cosa dice il documento ufficiale stilato alla conclusione dell’incontro. Il documento riconosce, a causa della crisi, la necessità di un piano di ricostruzione europeo che permetta massicci investimenti pubblici e privati. A questo scopo la Commissione viene autorizzata a prendere a prestito, a nome della Ue, le somme necessarie sul mercato dei capitali.

Il documento enfatizza l’aspetto dell’eccezionalità del Recovery fund. Infatti, specifica che il provvedimento è dovuto alla natura eccezionale della crisi, e che, di conseguenza, i poteri della Commissione di prendere a prestito fondi sono limitati nella misura, nella durata e nello scopo.

La Commissione viene autorizzata a prendere a prestito fino al 2026 la cifra di 750 miliardi di euro. I 750 miliardi sono composti da 672 miliardi della Recovery and Resilience Facility e da 78 miliardi previsti per altri 6 programmi di minore entità (sviluppo rurale, Horizon Europe sulla ricerca scientifica, ecc.). La Recovery and Resilience Facility, a sua volta, è composta da 360 miliardi in prestiti e da 321,5 miliardi in sovvenzioni.

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sollevazione2

Ecco a voi il Super-MES

di Leonardo Mazzei

garrota fund 768x501Il super-Mes

Bruxelles, ore 5:32 del 21 luglio, per l’Italia il disastro è compiuto. Non si chiama Mes, anche se ci sarà spazio pure per questo, ma Recovery Fund, il super-Mes pensato dall’asse carolingio, ripreso dalla Commissione, ed infine modificato (in peggio, ovviamente) dal Consiglio europeo con la firma di stamattina.

Lo abbiamo sostenuto per mesi. Non è mai esistito un Mes cattivo, opposto ad un Recovery Fund buono. Esiste invece il sistema dell’euro, che di questi meccanismi abbisogna come il pane. E’ da quel sistema che bisogna liberarsi. Il resto è solo chiacchiera per l’interminabile teatrino della politica. Quel teatrino tenuto in piedi affinché ogni ragionamento serio sia bandito dal discorso pubblico.

Oggi gli euroinomani festeggiano. Lo fanno per l’accordo raggiunto, per la novità di un pacchetto economico a loro dire eccezionale, perfino per l’idea che si sia aperta la strada alla condivisione del debito, aprendo così pure quella della mitica Europa federale. Hanno torto su tutto, ed i fatti lo dimostreranno.

L’accordo è stato uno dei più pasticciati dell’intera storia dell’Unione, che in quanto a pasticci proprio non ha rivali. Non il frutto di un’intesa di fondo, ma di un’estenuante mediazione sul più piccolo dettaglio degli interessi di ognuno.

Lo dimostra il consistente aumento degli sconti dei contributi al bilancio comunitario, ottenuto dai 4 “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca, Austria) più la Germania, per il periodo 2021-2027. Molti segnalano come i quattro portino a casa 26 miliardi, “dimenticandosi” però di dire che altri 25,6 verranno incamerati dalla Germania.

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contropiano2

Da oggi in poi ci governa Berlino

di Dante Barontini

governa berlinoCome sarebbe andata a finire lo si poteva capire già nella notte di domenica, quando Giusppe Conte, rivolgendosi all’olandese Mark Rutte, ha detto: “Il mio Paese ha una sua dignità. C’è un limite che non va superato”, aggiungendo il dubbio che “si voglia piegare il braccio a un Paese perché non possa usare i fondi”.

In quel momento è stato inevitabile ripensare ad Alexis Tsipras, in un’altra notte di luglio, quella del 2015, che nella stessa sede (solo qualche faccia diversa) si era alzato togliendosi la giacca per porgerla alla Merkel sbottando: «A questo punto, prendetevi anche questa…»

Poi, com’è noto, la Troika si precipitò rapace su Atene, assumendone il pieno controllo e dando il via al saccheggio di tutto quel che di pubblico poteva essere svenduto (porti, aeroporti, centrali, ecc), tagliato (salari, sanità e pensioni), impegnato.

All’Italia di Conte è andata leggerissimamente meglio, in apparenza, visto il diverso peso economico in Europa – terza economia dell’Unione – che renderebbe il tracollo senza freni di questo Paese un detonatore devastante per tutti, più della pandemia.

Ma per separare con chiarezza la realtà di quanto “concordato” dalla “narrazione” che ne viene fatta già a botta calda, sarà bene vedere i singoli punto del compromesso finale, firmato alle 5.32 del mattino, al quinto giorno di un vertice che doveva durarne due.

Il “successo” della UE sta solo nel fatto che ne sia stato firmato uno, cosa che ad un certo punto sembrava persino improbabile. Ma nessuno dei 27 leaderini spaventati e feroci poteva tornare a casa senza questo risultato. Avrebbe significato la fine di un sistema di trattati e istituzioni, sanzionato pesantemente dai “mercati” e quindi un moltiplicatore degli effetti negativi della pandemia che avrebbe alla fine travolto anche chi si sente meno esposto.

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ilparagone

Usciamo dall’euro per tornare a essere un paese normale

di Thomas Fazi

Unknown 10 1024x592Ormai, di fronte al fallimento sempre più conclamato dell’UE e della moneta unica e all’insofferenza sempre più diffusa nei confronti di quella che viene (giustamente) percepita come una camicia di forza che da troppo tempo sta soffocando l’economia italiana, l’unica argomentazione rimasta ai difensori dello status quo sembrerebbe essere quella per cui «le cose vanno male, è vero» – ormai neanche loro hanno più il coraggio di negarlo – «ma fidatevi, senza l’euro andrebbero anche peggio».

Un esempio da manuale di questa strategia sempre più disperata è un articoletto uscito l’altro giorno sul Sole 24 Ore a firma di Innocenzo Cipolletta, economista e dirigente d’azienda italiano, ex presidente delle Ferrovie dello Stato (2006-2010). Già dal titolo si intuisce che l’obiettivo dell’autore è uno solo, inculcare il terrore in chi legge: “COVID+lira = molta inflazione (e zero crescita)”. L’argomentazione di Cipolletta è semplice quanto prevedibile: se avessimo dovuto affrontare questa pandemia fuori dall’euro, cioè con la vecchia/nuova lira, «avremmo dovuto aumentare il nostro disavanzo pubblico per sostenere l’economia, come tutti gli altri paesi». A tal fine, continua Cipolletta, «la Banca d’Italia sarebbe stata indotta a comprare il debito italiano, ciò che avrebbe probabilmente tenuto bassi i tassi di interesse per un po’ di tempo, ma la lira si sarebbe immediatamente svalutata come sempre è avvenuto in passato». A quel punto «l’aumento dell’inflazione interna sarebbe stato automatico, visto che la svalutazione aumenta i costi di rimpiazzo delle nostre importazioni […]. Gli italiani avrebbero così perso, assieme al lavoro falcidiato dalla pandemia, anche potere d’acquisto e sarebbero stati più poveri». Insomma, conclude Cipolletta, «molto (ma molto) meglio abbiamo fatto noi ad aderire all’euro» e ad evitare così questo scenario da incubo.

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contropiano2

Mes o Recovery, comunque al guinzaglio

di Claudio Conti

Con un articolo in calce di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza

mes recovery guinzaglioLa settimana che si apre dovrebbe essere quella decisiva per quanto riguarda la strategia europea per il post-pandemia (ammesso e non concesso che ci si trovi in un “post” anziché in una pausa stagionale). Gli iniziali atteggiamenti ritardatari dei “paesi frugali” (“l’importante è fare bene”) sono stati improvvisamente accantonati su indicazione della cancelliera Angela Merkel, per sei mesi presidente di turno di tutta l’Unione Europea, che intende sfruttare anche questa occasione – e la crisi ne sta offrendo a decine – per imporre l’imprinting sull’Unione 2.0.

Cuore della discussione continentale è il Recovery Fund, ossia il fondo straordinario “per la ricostruzione” da aggiungere al normale bilancio europeo. 500 miliardi, come nella proposta iniziale di Merkel e Macron, e non 750 come poi proposto dalla Commissione guidata da Von der Leyen. Tanto per far capire chi è che comanda (nonostante anche la presidente della Commissione sia tedesca, ma con una composizione ovviamente più “pluralista”).

500 miliardi di “trasferimenti a fondo perduto”, vincolati a investimenti per effettuare precise “riforme strutturali” che l’Unione Europea pretende da ogni Paese non le abbia ancora compiute o completate. I dettagli non sono ancora stati resi noti, ci si è limitati ad evocare “svolte green”, rivoluzioni digitali, ecc. Ma sono pià che intuibili…

Per esempio, l’incontro tra Giuseppe Conte e il suo omologo olandese Mark Rutte ha provveduto a sgomberare il campo da ogni equivoco, visto che il boero ha consigliato all’”avvocato del popolo” di eliminare “quota 100”. Una battuta informale, certo – “quota 100” vale pochissimo, in termini di bilancio, e comunque doveva scadere nel 2021 – ma che indica con nettezza la direzione da prendere: i Paesi con alto debito pubblico, quelli euromediterranei, insomma, devono tagliare ancora di più la spesa sociale, a cominciare da quella pensionistica.

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sollevazione2

Il gioco tedesco

di Leonardo Mazzei

il giocoCi siamo già occupati della virulenta campagna politico-mediatica a favore del Mes che imperversa ormai da settimane nel nostro Paese. Abbiamo spiegato come la volontà di attivare questo meccanismo niente abbia a che fare con le enormi necessità economiche dell’Italia. Cosa c’è allora dietro a tanta foga, a tante falsità diffuse a piene mani dalle forze sistemiche? Ecco una domanda che può portarci lontano.

Ricapitoliamo anzitutto i termini della questione. Qualora attivato il Mes può fornire all’Italia un prestito pari al 2% del Pil, in soldoni 36 miliardi di euro. La propaganda vorrebbe farci credere che, a differenza di quello “vecchio”, il “nuovo” Mes sia privo di stringenti condizioni, ma – come abbiamo spiegato qui – ciò è falso. Al “nuovo” Mes si accede sì incondizionatamente, ma le regole statutarie di questa trappola ammazza-Stati scatteranno per statuto subito dopo.

Il Mes non è però figlio unico. Esso fa invece parte di un’allegra famigliola di tre pargoli generati dall’oligarchia eurista. Gli altri due fratelli si chiamano Sure e Recovery fund (adesso rinominato dalla fantasiosa anagrafe brussellese come Next generation EU). Secondo la narrazione prevalente delle èlite italiote, i tre fratelli (Mes compreso) sarebbero ormai pura espressione del bene, manifestazione quasi ultra-terrena di una solidarietà europea mai vista né conosciuta finora. Ed anche per i più prudenti, la generosa natura dell’ultimo nato, il Recovery fund, basterebbe comunque a bilanciare il proverbiale cattivo carattere del primogenito. Peccato che sia la solita menzogna, visto che il Recovery fund altro non è che un Mes più grande, dove al posto delle “condizionalità” ci sono le “riforme”. Il che, in linguaggio eurista, se non è zuppa è pan bagnato.

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e l

Il braccino corto dell’Unione

di Antonio Lettieri

Le risorse messe in campo per contrastare gli effetti della crisi più grave del dopoguerra sono incomparabilmente minori di quelle varate da Stati Uniti o Giappone. Si continuano a seguire regole fallimentari: quando verrà chiesto all’Italia di tornare all’austerità, dovrà essere il nostro governo a prendersi la responsabilità di rifiutare

Conte Gentiloni300Ciò che maggiormente ci colpisce della pandemia del coronavirus è che conosciamo le conseguenze della malattia in molti, troppi casi irreparabili, ma non ne conosciamo il rimedio. La scienza medica ha bisogno di tempo. Il coronavirus c’impone in altri termini una fase più o meno lunga d’incertezza.

Non possiamo dire altrettanto delle sue conseguenze economiche. Conseguenze devastanti dal punto di vista sociale. Vi è un consenso sul fatto che si tratti della più grave crisi economica del dopo guerra. Il crollo dell’economia, la disoccupazione, il disagio sociale non si sono mai manifestati con altrettanta rapidità e ampiezza.

 

1. La pandemia ha investito l’intero pianeta e non ha risparmiato i paesi abituati a una condizione di benessere. La reazione dei governi è stata tuttavia diversa. Sono indicativi i casi degli Stati Uniti e del Giappone.

Negli Stati Uniti, Trump aveva inizialmente deliberato per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia un intervento di mille miliardi di dollari, un intervento manifestamente inadeguato. Il partito democratico ha imposto un investimento di risorse prossimo a 3000 miliardi di dollari. In sostanza, una mobilitazione di risorse pari a poco meno del 15 per cento del reddito nazionale. Per avere un termine di confronto, nel corso della crisi del 2008-2009, Paulson, ministro del tesoro di Bush, e poi Barack Obama, eletto alla presidenza, misero in campo 1500 miliardi per il salvataggio del sistema bancario e la ripresa dell’economia.

Ancora più significativo e stupefacente è l’intervento del governo giapponese che, avendo stanziato inizialmente risorse equivalenti a mille miliardi di dollari, nelle settimane successive le ha aumentate fino a un ammontare equivalente a 1700 miliardi – una dimensione equivalente a circa il 30 per cento del reddito nazionale giapponese.