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effimera

La presunta svolta della politica economica europea ai tempi del Covid 19

Verso il G20 della finanza a Venezia

di Andrea Fumagalli

VeneziaLa crisi sanitaria ed economica che stiamo vivendo ha evidenziato cali del Pil mai registrati nella storia del capitalismo, di gran lunga superiori a quelli fatti registrare durante la crisi finanziaria globale del 2007-08.

Le stime per i prossimi anni ipotizzano che quasi la metà del calo del Pil potrebbe essere recuperato quest’anno (se non ci saranno peggioramenti nella situazione sanitaria) e si potrà arrivare ai livelli pre-crisi già a partire dal 2023.

Si tratterebbe di un andamento congiunturale a V, assai diverso da ciò che è successo dopo la crisi finanziaria del 2007: dopo la prima fase recessiva, soprattutto in Europa e nei paesi del Mediterraneo, si è registrato un ulteriore calo del Pil, creando una dinamica a W. Solo molti anni dopo si sono raggiunti i livelli pre-2007.

Come mai si potrebbe verificare una dinamica diversa? La principale ragione sta probabilmente nel perseguimento di politiche economiche, a prima vista, assai differenti.

All’indomani dello scoppio della bolla dei subprime, la commissione Europea, il Fmi e la Bm (la cosiddetta “troika”), di fronte al rischio di insolvenza del sistema creditizio, iniziano a perorare la causa dell’austerità nei bilanci pubblici, soprattutto di quei paesi con il debito più alto, gentilmente chiamati PIIGS. In tal modo, si cercava di compensare il crescente debito privato con una stretta sui debiti pubblici. Gli economisti mainstream la chiamavano con un ossimoro e in modo ideologico, “austerità espansiva”.

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Il falso mito del banchiere eroe

“Basta con la retorica sul whatever it takes: Draghi alla Bce strozzò la Grecia per salvare le banche tedesche”

Enrico Mingori intervista Emiliano Brancaccio

vampiriIntervista all'economista Emiliano Brancaccio: "La verità è che con il whatever it takes Draghi smentì se stesso e le teorie liberiste di cui era ed è portatore. Il premier è un tecnocrate di destra. Sul blocco dei licenziamenti deve essersi perso tutti gli studi empirici che dimostrano come la flessibilità ostacoli l'occupazione. Sul Fisco non farà mai quella riforma in senso progressivo che ha promesso e vi spiego anche perché. Il Recovery? Scordatevi i 209 miliardi, saranno al massimo 60. E saranno usati più per incentivi che per investimenti. Intanto in Europa si stanno già preparando al ritorno dell'austerity"

L’austerity? Chi la crede morta e sepolta si sbaglia. I falchi del rigore sono stati costretti dalla pandemia a prendersi una pausa, ma sono già pronti a tornare. L’avvertimento arriva dall’economista Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica all’Università del Sannio, che in questa intervista a TPI boccia sonoramente le politiche economiche del “tecnocrate” Mario Draghi e smonta la retorica del “whatever it takes”: con quella frase, dice, “Draghi, in realtà, smentì se stesso”.

* * * *

Professore, durante un recente dibattito con il suo collega Daron Acemoglu del Mit di Boston, lei ha esibito una serie di ricerche empiriche secondo cui la flessibilità del lavoro non favorisce la crescita dell’occupazione ma al contrario la ostacola. Le chiedo: il blocco dei licenziamenti negli ultimi 15 mesi è servito a contenere l’emorragia di posti di lavoro oppure – come dicono Draghi, Confindustria e l’Ue – ha inquinato il mercato favorendo i garantiti a scapito dei precari?

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alternative

L’incerto futuro dell’Europa

di Alfonso Gianni

matrignaL’ormai celebre sofagate di Ankara non è stato solo un incidente diplomatico o uno strappo alle regole più comuni del galateo, ma ha assunto un significato ben più profondo. Ha rappresentato, con la plastica evidenza del posizionamento dei corpi - quelli di Ursula von der Leyen, che sta a capo della Commissione europea, e di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo - una domanda di per sé non nuova, ma aggravata dalla durezza dei tempi: che cosa è l’Unione europea? Semplicemente, come in effetti la intendono la maggior parte delle elite nazionali, un’organizzazione internazionale votata alla soddisfazione di obiettivi e interessi economici? O qualcosa di più, meglio di diverso, almeno in nuce, ovvero un soggetto politico e istituzionale capace di agire in modo unitario e riconoscibile a livello internazionale? E in ogni caso funziona o no il sistema di governance che lungo gli anni la Ue è andata costruendosi?

Sappiamo da tempo che l’idea della costruzione dell’Europa fondata su una convergenza economica, che poi avrebbe partorito strada facendo le sue strutture politiche ha avuto fin dai suoi primi passi la netta prevalenza sugli ideali di Ventotene, sia dal punto di vista teorico (si pensi alle elaborazioni e ai modelli funzionalisti di Jean Monnet o di David Mitrany) che pratico. Tuttavia il volgere del secolo ha messo in fibrillazione l’intero impianto che su quei principi era fondato.

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Il Piano di Rilancio e Resilienza: soldi pochi e selezione verso l’alto

di Alessandro Giannelli

Piano Nazionale di Ripresa e ResilienzaScritto ed integralmente concordato dal premier Draghi con l’ Unione Europea, il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, rappresentato come il piano economico più imponente dal dopo guerra ad oggi, è stato inviato il 29 aprile a Bruxelles.

Totalmente bypassato il Parlamento (che comunque lo ha approvato a scatola chiusa e praticamente all’unanimità) e con tutto il quadro politico istituzionale impegnato nel frattempo ad accapigliarsi sullo spostamento dell’orario del coprifuoco dalle 22 alle 23…

Il piano si compone di sei missioni espressamente indicate da Bruxelles (digitalizzazione, transizione verde, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute), all’interno delle quali si sviluppano 16 componenti, ed è accompagnato da 4 riforme di contesto (giustizia, PA, semplificazioni e concorrenza) a cui si aggiunge la riforma fiscale (certamente non in chiave redistributiva) della quale si comincerà a discutere a giugno.

 

Le cifre e la logica del Piano

Senza troppo soffermarci sulle cifre, ma giusto per avere la dimensione reale e non propagandistica della “potenza di fuoco” messa in campo: si tratta di circa 200 miliardi (dei quali circa 70 in sovvenzioni e circa 122 in prestiti da restituire) stanziati per il nostro paese e da spalmare in 6 anni, a cui vanno aggiunti circa 13,5 miliardi di fondi europei nell’ambito del programma React-Eu.

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coniarerivolta

Gli obiettivi occupazionali dell’Unione europea: una farsa senza fine

di coniarerivolta

discorottoIl vertice di Porto si è chiuso con l’ennesimo proclama entusiasta della Commissione europea che promette di raggiungere obiettivi fantasmagorici entro il 2030. Per fortuna, questa volta persino la stampa filoeuropeista si è accorta che si tratta di impegni ‘morali’ perché, come siamo abituati a vedere, di concreto non c’è un bel nulla. Anzi.

Nel consesso portoghese si è data grande enfasi al cosiddetto ‘Pilastro dei diritti sociali’, una delle patine zuccherine che l’Unione europea ha inserito nella sua agenda fatta di austerità e liberismo. Tre gli obiettivi da raggiungere entro il 2030, fissati dalla Commissione europea e ribaditi al summit di Porto, per dare attuazione al suddetto pilastro: un tasso di occupazione nell’insieme dei paesi UE di almeno il 78%; una partecipazione di almeno il 60% degli adulti a corsi di formazione ogni anno; la riduzione del numero di persone a rischio di esclusione sociale o povertà di almeno 15 milioni (di cui 5 milioni di bambini). Risuona così l’eco della famosa Agenda Europa 2020 che fissava come obiettivi l’anno appena trascorso super giù i medesimi traguardi: almeno il 75% della popolazione europea occupata nella stessa fascia d’età; ridurre di 20 milioni il numero delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale; ridurre il tasso di abbandono scolastico a meno del 10% e portare almeno al 40% il tasso dei giovani laureati.

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machina

L'Italia ai tempi del Recovery Plan (II)

Dialogo con gli economisti

Risponde Vladimiro Giacché

0e99dc 1cfec126d46d472483989631ddf0f62cmv2Con questa approfondita intervista prosegue la riflessione, inaugurata dal colloquio con Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (www.machina-deriveapprodi.com/post/l-italia-ai-tempi-del-recovery-plan), sulla politica economica di risposta alla crisi drammatizzata dalla pandemia Covid. Ritorno delle istituzioni regolative, Recovery Plan, strategia europea di rilancio dell’accumulazione, contraddizioni del green new deal, sono alcuni degli argomenti proposti a Vladimiro Giacché, filosofo di formazione, autore di saggi filosofici e di economia politica, ma anche di ricerche più strettamente di carattere finanziario, in qualità di professionista del settore bancario e del ruolo di presidente del centro di studi economici Centro Europa Ricerche (Cer, 2013-2020). Tra i suoi libri si citano: Titanic Europa (2012), Costituzione italiana contro trattati europei (2015), La fabbrica del falso (terza ed. 2016), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (nuova ed. 2019), Hegel. La dialettica (2020). Ha curato inoltre edizioni degli scritti economici di K. Marx (Il capitalismo e la crisi, 2009) e Lenin (Economia della rivoluzione, 2017).

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Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, la diffusione della pandemia ha determinato un prepotente ritorno dello Stato nei processi regolativi, nella gestione economica, nel sostegno ai redditi. Pensate che questo possa essere un lascito duraturo della pandemia? Se nel dopoguerra prese la forma di Stato sociale e modernizzatore dell’economia e, con l’avvento del paradigma neoliberista, il suo ruolo viene via via ridimensionato a «salvatore d’ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà (almeno in Europa e negli States), in che modalità esso si ripresenta oggi?

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kriticaeconomica

Il Recovery Plan, il Sud e le promesse mancate

di Francesco Zezza

mezzogiorno 1024x538Tra il 15 ed il 25 Aprile 2021, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha presentato alle Camere il Documento di Economia e Finanza per il 2021 (DEF) e la versione (aggiornata) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – parte del programma Next Generation EU (NGEU), il pacchetto di sostegno all’economia da 750 miliardi di euro proposto dalla Commissione Europea per rispondere alla crisi pandemica.

La Legge di Bilancio per il 2021 introduce un nuovo scostamento del deficit pubblico, pari a 30 miliardi di euro per il 2021, 6.5 per il 2022 e 4.5 per il 2023.

Il PNRR fornirà ulteriori investimenti pubblici per 191,5 miliardi – che saranno finanziati attraverso il Recovery and Resilience Facility (RRF), lo strumento chiave dell’NGEU – e un consistente pacchetto di riforme, che interesseranno principalmente i settori della pubblica amministrazione, della giustizia, della semplificazione normativa e della concorrenza.

Nelle parole del Governo, il Piano “[è un] intervento epocale, che intende riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. Il Piano ha come principali beneficiari le donne, i giovani e il Mezzogiorno e contribuisce in modo sostanziale a favorire l’inclusione sociale e a ridurre i divari territoriali.”

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coniarerivolta

Austerità e riforme: il Piano di Draghi è servito

di coniarerivolta

pnrrDopo una lunga attesa, la nuova versione del Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) firmata dal premier Draghi è finalmente tra noi. Si tratta del programma di investimenti che il Governo deve presentare alla Commissione europea entro la fine di aprile per poter spendere la quota italiana del Next Generation EU, lo strumento che l’Europa ha messo in campo per rispondere alla crisi da Covid-19.

Mentre la stampa ci racconta di una straordinaria capacità programmatica dei competenti, materializzatasi in un documento chiave per accedere ai fantastiliardi in arrivo dall’UE nei prossimi anni, ad un’attenta lettura le cifre di cui stiamo parlando si rivelano purtroppo per quei due spicci che sono. Non solo, il contenuto del Piano si presenta come l’ennesimo addentellato di un percorso di pericolose riforme e di austerità lacrime e sangue.

 

I soldi, per prima cosa, vanno contati

Già, perché quando parliamo di ‘risorse europee per risollevarci dalla crisi‘ stiamo parlando, conti alla mano, di circa 200 miliardi di euro spalmati su sei anni. Si tratta, in larga parte, di prestiti, e di risorse che finanzieranno progetti già in programma e in bilancio.

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La “nuova Europa” passa anche per gli arresti di Parigi

di Dante Barontini

nuova europa arrestiDavvero qualcuno crede che pretendere l’estradizione e la morte in carcere per dei settantenni (in media), che hanno combattuto contro lo Stato tra i 50 e i 40 anni fa, sia qualcosa di diverso dalla pura vendetta?

L’assurdo è tale che non è possibile considerarlo un assurdo. Non possiamo “immaginarci” il Potere – la classe dirigente di questo disgraziato paese – come un gruppo di ottusi semplicemente ossessionato dal fatto che alcuni (percentualmente pochi) dei suoi nemici d’allora siano sfuggiti al carcere.

Dopo 40 anni, e “due repubbliche” dopo (siamo alla Terza, giusto?), anche la peggiore ossessione dovrebbe essere spenta sotto l’urgenza di problemi ben più presenti.

Dunque la ragione profonda degli arresti di Parigi non può essere quella ufficialmente raccontata. Non per “complottismo”, ma perché riteniamo che almeno una  parte di questa classe dirigente sia capace di fare un mestiere da macellaio, ma con una certa “creatività” e una buona dose di furbizia, se non proprio di intelligenza.

Perciò, se ci danno una spiegazione stupida, non possiamo crederci.

Per questi arresti si sono mossi personalmente Mario Draghi e Marta Cartabia, non due buzzurri a metà strada tra la Lega e Fratelli d’Italia. Sono riusciti là dove Salvini e Bonafede avevano fallito, pur gestendo esattamente lo stesso dossier.

E se Macron ha cambiato linea rispetto a due anni fa, è evidente che stia maturando un diverso rapporto tra i vari paesi membri dell’Unione Europea.

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tempofertile

Piccole glosse ad un post di Vincenzo Costa: la fine della Unione Europea

di Alessandro Visalli

von der lyenA partire dalla crisi del 2007 un neolingua si fa avanti. O meglio, a partire dal dispiegarsi degli effetti sociali della crisi sistemica innestata dal crollo della piramide dei debiti intrecciati ed incorporati nei meccanismi riproduttivi della società. Questa neolingua indica l’asserragliamento dei “Giusti” nella difesa delle categorie (rapresentation matters), nella politica delle identità che ne consegue, la ricerca di una zona senza traumi (safe space) ben presidiata da virtue signaling. In un interessante libro (anche se radicalmente aneddotico) da poco uscito[1] viene citato un raccontino di Meghan Daum sulla metropolitana di New York:

“era mezzanotte, nel vagone c’era poca gente: due ragazzi discutevano tra loro, un gruppo di ragazze in minigonna. A un certo punto sale un senzatetto, nero, barcollante, non si capiva se strafatto, ubriaco o con qualche problema psichiatrico (Daum scommette su tutte le cose insieme).

La accosta, lei non se lo fila, lui ripiega sul gruppo di ragazze. Che continuano per qualche fermata a chiacchierare con lui, secondo la (plausibile) interpretazione di Daum perché sono compiaciute del loro rivolgere generosamente la parola a un disagiato, e perché a loro sembra una creatura esotica allo zoo. Quando arriva alla sua fermata, il tizio si avvia all’uscita lanciando baci e auguri alle ragazze, e dicendo a Daum ‘tu invece passa una notte di merda, stronza’.

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L'asimmetria europea

Intervista a Wolfgang Streeck

European central bankIn questa intervista, apparsa originariamente in ungherese poi in inglese e qui presentata in italiano, Wolfgang Streeck, autore di “Tempo guadagnato”, analizza alla luce della costruzione asimmetrica dell’Ue a trazione tedesca, la risposta europea alla crisi pandemica. Nomina e pone quindi un problema spesso eluso dagli esponenti, anche critici, dell’ europeismo, che non esita a chiamare imperialismo tedesco. Pur non condividendo le conclusioni, che esprimono una posizione che nel dibattito italiano viene rubricata sotto l’etichetta di “sovranismo di sinistra”, bisogna apprezzare la pertinenza dell’analisi che descrive efficacemente lo spazio politico con cui le lotte devono fare i conti. Infine, altrettanto apprezzabile è il suo ritratto di Angela Merkel, prossima a lasciare, dopo 16 anni, il governo della Germania e la guida della Cdu.

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Per molti ungheresi la Germania è un modello socioeconomico e politico a cui aspirare. Nell'attuale struttura dell'Unione europea, tuttavia, il modello tedesco potrebbe essere tradotto nel contesto della periferia europea?

In generale, si dovrebbe guardare con molto sospetto all'idea che alcuni modelli nazionali possano essere trapiantati in altri paesi. Ogni paese deve trovare la propria strada per la pace e la prosperità. Ciò vale in special modo per questo caso particolare. La Germania, altamente industrializzata e dipendente dalle esportazioni, può essere ed è il polo di crescita e prosperità dell'UE perché la sua moneta, l'euro, è fortemente sottovalutata, poiché non è solo la valuta della Germania ma anche dell'intera zona euro.

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cumpanis

I molteplici significati del Recovery Fund

di Fulvio Bellini

bellini foto recovery fundPremessa: le parole sono importanti

Il termine “Recovery Fund” in Italia è sulla bocca di tutti. Politici, giornalisti, imprenditori di questo paese si stanno rendendo conto che si è ormai raggiunto il fondo di una crisi strutturale che è iniziata negli anni novanta dello scorso secolo. Tuttavia, quando le soluzioni a mali lasciati crescere per decenni non si intravedono, è uso della classe dirigente invocare lo “stellone italico”, versione laica della “divina Provvidenza” che tanto ruolo ha avuto nella nostra millenaria cultura cattolica, una “volontà superiore” cioè che ridia speranza per il futuro. Nell’era della Pandemia da Covid-19 lo “stellone italico” si chiama “Recovery Fund”. Ma siccome la nostra classe dirigente è notoriamente provinciale, anche se usa con dovizia locuzioni inglesi, riesce a mistificare definizioni espresse nelle lingue straniere. In Italia, il fondo UE lo si chiama “Recovery Fund” ma la sua denominazione ufficiale è “Next Generation EU”: questa spontanea trasformazione lessicale da parte della nostra informazione di regime cela un retro pensiero che è opportuno evidenziare. In italiano “Recovery Fund” significa “fondo di ripresa o di recupero”; “Next generation EU” significa “prossima generazione dell’Unione europea”. Vogliono dire la stessa cosa? Ufficialmente sì, ma a ben pensarci ci si può scorgere un dettaglio rivelatore. La classe dirigente italiana intende il Recovery fund come qualcun altro che metta tanti soldi per riparare i danni che il liberismo in salsa italica ha causato negli ultimi trent’anni.

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economiaepolitica

Next degeneration EU

di Sergio Cesaratto

BNE Logo finalIl cosiddetto Recovery Fund è il Convitato di pietra della crisi di governo, come scusa di litigio o oggetto di appetito politico. La sua importanza è solo relativa, date le sue ridotte dimensioni finanziarie, la sua tempistica inadeguata, l’impronta europea sui contenuti ben lontana da una organica politica industriale per il continente, i contenuti sociali sospesi fra ipocrisia, demagogia e velleità. Il Recovery Fund appare così inadeguato sia come sostegno alla domanda aggregata che alla capacità industriale italiana (ed europea). Avanzeremo qui alcune osservazioni sul documento del governo italiano (Piano di Ripresa e Resilienza dell’Italia, PNRR – 12 gennaio 2021) [1] ricordando che Il Piano dovrà essere presentato in via ufficiale entro il 30 aprile 2021.

 

1. Assenza di analisi a monte e a valle

I mali dell’economia italiana vengono da lontano.[2] Il miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta non risolse le problematiche storiche del Paese: in senso spaziale essendo stato concentrato nel nord-ovest, con successive estensioni nel nord est e, temporaneamente, nella fascia nord adriatica; in senso occupazionale in quanto la limitata industrializzazione non ha assalito le sacche di disoccupazione meridionale, femminile, giovanile, e la sottoccupazione nel terziario parassitario; in senso tecnologico mancando negli anni settanta-ottanta il salto dalle produzioni meccaniche a quelle più elettroniche; sul piano sociale facendo mancare un moderno riformismo verso le classi lavoratrici, a favore dell’inclusione clientelare. Dalla fine degli anni sessanta, il mancato riformismo e lo iato fra le aspettative di consumo e l’insufficienza della torta da spartire ha esacerbato il conflitto sociale fra capitale, lavoro e i topi nel formaggio, con una ricaduta su un uso inefficiente della spesa pubblica e la tolleranza dell’evasione fiscale.

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contropiano2

“Vogliamo fare l’impero europeo”, detto chiaro e tondo

di Francesco Piccioni

impero europeoE’ strano come sia passato quasi inosservato, tra molti compagni sempre “sul pezzo” quando si tratta di cogliere un sciocchezza di Salvini o una sacrosanta soddisfazione di Eric Cantona, un titolo di prima pagina del confindustriale Sole24Ore: «L’Europa? Sia un impero potente al servizio di buoni propositi».

Da anni ci battiamo – con qualche successo, per fortuna – per spiegare che l’Unione Europea non è “soltanto” un mercato comune, ma una sovrastruttura semi-statuale che sta realizzando da 30 anni, a colpi di trattati comunitari e “raccomandazioni” sempre più ultimative un trasferimento di poteri politici dagli Stati nazionali alla struttura con sede a Bruxelles (o a Francoforte, per quanto riguarda la Banca centrale).

Facciamo questo lavoro di “spiegazione” sciorinando fatti, indicando il contenuto dei trattati, illustrando certe decisioni e certi “diktat”, che nell’insieme descrivono una politica di classe, determinata e feroce nei confronti di lavoratori (“fissi” e precari), pensionati, disoccupati, giovani e via elencando categorie popolari.

Un “mercato comune”, del resto, non si preoccuperebbe di controllare le politiche di bilancio dei singoli Stati, non cercherebbe (con non molto successo) di individuare una politica estera unitaria, di costruire coordinamenti gerarchici di polizie, intelligence, forze militari, apparati ideologici e di comunicazione, ecc.

Ma torniamo al titolo del Sole, perché il virgolettato appartiene al ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire, che si candida a succedere all’attuale presidente, Emanuel Macron, ai minimi della popolarità in vista delle elezioni del 2022.

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vocidallestero

Verso una unione sempre più stretta?

di Perry Anderson

ever closer unionPerry Anderson, storico accademico e saggista britannico, sulla London Review of Books propone una distaccata e lucida analisi delle istituzioni europee sin dalle loro origini, molto distante dal dilagante e superficiale conformismo del politicamente corretto, dalla quale emerge che tra i principali protagonisti dell'integrazione europea furono accolti con tutti gli onori importanti esponenti del partito nazionalsocialista tedesco o personalità ad esso vicine. All'interno delle diverse istituzioni europee essi continuarono a perseguire, pur in forme nuove e diverse, quel disegno di unificazione dell'Europa sotto l'egemonia tedesca già tentato durante il terzo Reich

 

I. La Corte di Giustizia europea

Quantitivamente parlando, lo spostamento del centro di gravità del lavoro sull'UE dall'America alla stessa Europa è stato il prodotto di un'industria accademica ormai vasta: circa cinquecento cattedre Jean Monnet sono attualmente presenti in tutta l'Unione. In mezzo a un mare di conformismo, è emerso un gruppo di pensatori le cui opere rappresentano un progresso qualitativo nella comprensione critica dell'Unione. Animati da un'indipendenza di spirito più vicina ad intellettuali "tradizionali" come Gramsci, che non alla variante "organica" rappresentata da Luuk van Middelaar, costoro non si trovano a coprire incarichi nelle posizioni ufficiali; non formano una scuola di pensiero collettiva; e sono di diversa estrazione nazionale e generazionale.