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Come evitare il suicidio dell'Europa*

di Riccardo Bellofiore e Jan Toporowski**

La Grecia non è responsabile della crisi europea. Se l’euro fosse ristretto a Germania e ‘satelliti’ la crisi poteva scoppiare in Belgio (rapporto debito pubblico/PIL al 100%). La variabile chiave non è il debito, in rapporto al PIL o in assoluto, ma quanto la banca centrale si rifiuta di rifinanziare. L’ideologia per cui le banche centrali dell’UE devono acquistare titoli privati, persino tossici, non titoli di stato, è stata incrinata: ma troppo timidamente. La BCE ha aderito a fondi di stabilizzazione, ampliato la durata delle concessioni di liquidità, esteso la gamma dei titoli che accetta, e rifinanzia i titoli di stato sui mercati secondari. Si dovrebbe però garantire stabilmente la liquidità del mercato dei titoli pubblici: anche solo sui mercati secondari, con un intervento annunciato, credibile e continuo.

Il default non dovrebbe essere un problema. Parte della sinistra ne pare convinta e propugna il diritto al default. Si suggerisce anche di uscire dall’euro per guadagnare competitività. Bisognerebbe chiedersi cosa succederebbe al sistema bancario se ciò che si desidera accadesse. Il default unilaterale lo fa crollare:il governo si rifiuta di pagare le proprie banche, dovendo tornare a chiedergli prestiti; per le banche svanisce il valore dei titoli di stato, e finiscono insolventi. L’uscita dalla moneta unica aggrava le cose, per una previa fuga dei depositi in euro, seguitadal valore delle passività che schizza verso l’alto nella nuova valuta. L’accordo di giovedì mattina è ingannevole. Si è concordata con i creditori della Grecia una sorta di bancarotta dentro l’euro. Può a prima vista avere il merito di ‘tagliare’ buona parte di crediti inesigibili, evitando di uccidere il malato con i salassi. L’haircut è però finanziato in modo improbabile da un fondo di stabilizzazione su cui (oltre Halevi sul manifesto) vale quanto profeticamente scrive Münchau lunedì scorso sul Financial Times: moltiplica fittiziamente le munizioni per il soccorso costruendo un effetto leva e una ‘assicurazione’ sui prestiti di tossicità pari all’opaco meccanismo sottostante i subprime. A termine amplifica, non risolve, la crisi.

Dietro la parola d’ordine del ‘diritto all’insolvenza’ stanno ragioni forti: resistere all’austerità; contestare l’illegittimità di parte della spesa pubblica, e le condizioni imposte dalla finanza per finanziarla. La campagna per un audit sul debito è giusta. Ma l’insolvenza non è la bacchetta magica. E per chi ci facesse un pensiero, l’Italia non è lo stesso gioco della Grecia. Non è destinata al default, né si salva con l’illusionismo.

Giacché sul Fatto quotidiano ha ricordato due cose. Al debito pubblico corrisponde ricchezza privata, detenuta da investitori, banche, compagnie assicurative, fondi italiani, per circa il 30%: lavoratori e ceto medio sarebbero colpiti duramente. Poi, praticare un default selettivo è di difficile praticabilità: si può selezionare le passività di cui negare il pagamento, non i creditori. L’attesa di un default dei paesi in difficoltà e della implosione dell’area attivano una tenaglia descritta da Pitagora. Sul piano globale: i fondi fuggono dall’euro verso il dollaro, con gli Stati Uniti che evitano per adesso la discesa nel baratro. Dentro l’area dell’euro: si fugge dai titoli degli stati a rischio verso quelli degli stati forti. Il depauperamento di famiglie e imprese aggrava la deflazione da debiti nelle aree in difficoltà, portando a una contrazione della domanda (interna) e lasciando l’onere del traino sulle spalle di una (ipotetica) domanda estera.

A seguito della paralisi del sistema bancario, dell’esplosione del debito estero, dell’esclusione dal credito internazionale e del razionamento di quello interno, default + svalutazione aumentano il peso del riaggiustamento sul potere d’acquisto dei lavoratori. E’ vero che nel caso italiano (secondo esportatore di manufatti in Europa) un balzo verso l’alto della competitività non è una chimera. Il recupero dei profitti non sarebbe però legato a un miglioramento tecnico-organizzativo, e seguirebbe (in un paese dipendente dall’estero per materie prime e alta tecnologia) un forte aumento dei prezzi delle importazioni.

La crisi va battuta fermando l’effetto domino e aprendo una speranza: affrontando contemporaneamente crisi finanziaria e crisi reale. Dal lato finanziario occorre riscadenzare i pagamenti e abbattere i costi del debito. In Grecia, le banche hanno sostenuto il debito pubblico, rifinanziandosi con la BCE. Meccanismo indiretto ma efficace, se pure ‘disegnato’ perversamente: con tassi di interessi da usura, e nutrendo la speculazione. I governi colpiti da tassi d’interesse usurari sui titoli a lunga possono, però, abbassarli. Emettono un largo ammontare di propri effetti a breve scadenza, acquistati dalle banche attratte da un interesse più alto dei loro depositi presso la banca centrale. La moneta raccolta è usata per acquistare le proprie obbligazioni a lunga nel mercato secondario. Il prezzo di mercato sale, abbattendo il tasso effettivo d’interesse; e le banche non vendono i titoli di stato in perdita. La manovra consente al governo di piazzare i titoli a lunga a rendimenti effettivi più bassi di quelli attuali, finanziando le operazioni correnti e restituendo l’indebitamento a breve.  

L’ossessione di istituzioni e commentatori sulla ricapitalizzazione delle banche elude invece il cuore della questione. Ha ragione Schumpeter: un sistema bancario è solido solo se lo è l’economia in cui opera. Il nuovo capitale non sarà mai sufficiente. Non migliora l’attivo delle banche,e i debiti cresceranno comunque per i bisogni di finanziamento dei governi. Il problema è far divenire sicuri titoli di stato potenzialmente rischiosi: il che comporta garantirne permanentemente la liquidità sui mercati secondari.

Solo il rilancio dell’economia reale può portare a un pareggio del bilancio pubblico, come pretende la BCE. Il pareggio è obiettivo sensato esclusivamente per la spesa corrente e in riferimento al reddito di pieno impiego. Oggi ci vogliono investimenti pubblici per combattere disoccupazione e precariato. Tutto ciò richiede disavanzi primari dello stato: un accrescimento del rapporto debito pubblico/PIL, riassorbito tramite un aumento del denominatore. Disavanzi ‘buoni’ (Parguez), produttivi non solo di domanda, reddito e occupazione più alti, ma anche di migliore composizione della produzione. Il vero problema è la deflazione da debiti, lo ‘sgonfiamento’ maligno (perché ricade sull’economia reale) dei bilanci. Il governo deve fornire asset solidi alle banche: prendere a prestito di più, ma per coprire spese che contribuiscono allo sviluppo reale dell’economia, a valori d’uso per la società.

Dal lato delle entrate, l’equilibrio di bilancio va perseguito aumentando l’imposizione fiscale sui ceti abbienti: maggiore progressività del prelievo, patrimoniale, lotta all’evasione, sono ineludibili. Dal lato delle spese, il settore privato non è trainante nella ‘reflazione’. La spesa dei governi, al netto degli interessi, sul debito, deve essere aumentata (altrimenti la base imponibile sarebbe falcidiata, e il rapporto debito/PIL crescerebbe). Gli stati possono aumentare i salari nel pubblico impiego, accrescere il salario minimo e introdurre sostegni al reddito. Con la ripresa bisognerebbe favorire un aumento più generalizzato dei salari. L’austerità impedisce che si generino i desiderati avanzi per pagare il debito. Per questo va posto esplicitamente l’obiettivo che i disavanzi primari siano mantenuti sino a che la crescita nominale non riduca la quota del debito.

Le misure su salario/reddito e disavanzi intendono far emergere, in condizioni socialmente accettabili, quel processo inflazionistico europeo che renderebbe l’uscita dal debito relativamente veloce e indolore. Non sarebbe così se i disavanzi si concentrassero soltanto sui paesi che sperimentano una deflazione dei prezzi (al netto dell’inflazione da materie prime, tariffe, trasporti, etc.), e si mantenesse l’intento di sopprimere l’aumento dei prezzi. La BCE deve mutare esplicitamente indirizzo, mantenendo liquido il mercato dei titoli di stato per accompagnare i necessari disavanzi pubblici primari.

Qui si apre il tema più complesso. La stabilizzazione finanziaria deve accompagnarsi alla reflazione della domanda, ma quest’ultima deve tradursi in una riqualificazione della spesa pubblica, che muti i caratteri dell’offerta e rafforzi il welfare. La crisi è capitalistica. E’ appena a metà del suo decorso naturale: fatto di svalorizzazione e centralizzazione del capitale; dell’apertura di nuovi orizzonti alla valorizzazione; di nuove ‘recinzioni’ dei beni comuni. Porta con sé un violento attacco contro il lavoro nel pubblico e nel privato, domestico e migrante, nella produzione e nella riproduzione. La disoccupazione di massa di un lavoro tutto precario è la ‘nuova normalità’. E’ urgente rispondere alla domanda di una diversa prosperità e di una difesa dall’insicurezza pervasiva (la capital asset inflation ha maturato consenso nel ceto medio e nel mondo del lavoro perché forniva una illusoria difesa). E’ urgente un programma minimo il cui centro siano la socializzazione degli investimenti, le banche come public utilities, lo Stato garante diretto di buona e piena occupazione, il controllo dei capitali.

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* Versione originale dell'articolo uscito (con qualche piccolo taglio) sul quotidiano il manifesto il 1 novembre 2011. L'articolo è estratto da un contributo più lungo, la cui versione integrale uscirà su Critica Marxista, n. 5, 2011
** Jan Toporowski è Professore di Economics and Finance e Direttore del Department of Economics alla SOAS (School of Oriental and African Studies), University of London. Ha lavorato nella gestione dei fondi e nel sistema bancario internazionale. Nel 1987 ha perso il suo lavoro di Senior Economist alla Standard Chartered Bank di Londra per la pubblicazione di un articolo sul Financial Times che sottolineava i paralleli tra la crisi internazionale del debito degli anni Ottanta e l’analisi dei prestiti internazionali fornita da Rosa Luxemburg prima della Prima Guerra Mondiale. Nel 2005 è stato Visiting Research Fellow alla Bank of Finland. Il suo volume più recente è “Why the World Economy Needs a Financial Crash” and Other Critical Essays on Finance and Financial Economics (Anthem Press 2010).

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