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La crisi europea oltre l'ideologia del mercato

di  Paolo Massucci*

Inserendoci nel dibattito attuale sulla cosiddetta “crisi dell’Euro” ci proponiamo, pur senza pretesa di completezza, di coglierne alcuni punti essenziali, per poter ampliare il ragionamento al di là della preponderante informazione massificata, basata su ”l’ideologia del mercato”, fuorviante per una effettiva comprensione del processo storico sottostante.

Si tratta evidentemente di un compito ostico, soggetto ad errori e fraintendimenti e certamente parziale e provvisorio, in quanto si tenta di “afferrare” una fase della storia in tumultuoso corso di svolgimento, il cui terreno sembra continuamente “muoversi sotto i piedi”. L’attuale crisi appare comunque di proporzione “storica”: è in atto un profondo e drammatico processo di riorganizzazione del sistema capitalistico, il cui esito purtuttavia non può essere né noto né certo.

Siamo vicini al collasso del sistema capitalistico? Al momento è poco probabile, mentre siamo di fronte, almeno in Europa, ad una profonda ristrutturazione dei rapporti di potere, nel segno della scomparsa dei modelli cosiddetti “democratici” del funzionamento della politica e dei modelli cosiddetti “sociali” di redistribuzione delle ricchezze, la scomparsa dunque dei diritti, pur parziali, conquistati dai lavoratori nel secolo scorso. Ma lo scenario futuro rimane imprevedibile.

Quale è il principale fattore di questa incertezza, di questa instabilità, di fronte alle politiche economiche imposte dai poteri dei grandi azionisti dei capitali finanziari? Esso è, in ultima analisi, la possibilità e la capacità di reazione della società stessa (la classe lavoratrice in senso ampio), è l’imprevedibilità della storia, il fattore uomo, cioè la libertà dell’agire umano, la “risposta all’azione”.

Se non ci fosse saremmo di fronte alla fine della storia!

Per una discussione sugli svolgimenti politici ed economici in atto in Europa sono stati utilizzati prevalentemente il “6° Quaderno dell’Associazione Marxista Politica e classe” di Contropiano (per la Rete dei Comunisti) del febbraio 2012, intitolato “La mala Europa - Quali alternative ai diktat dell’Unione Europea? Analisi, proposte e movimenti di lotta a confronto”, la rivista Il Mulino (numero 1/12), dell’Istituto Cattaneo di ricerca sociologica, politica, economica e la rivista di geopolitica Limes 2/2012.

L’analisi di M. Casadio, che introduce e apre il Quaderno di Contropiano, mette in rapporto un’Europa diretta dalle oligarchie finanziarie con la debolezza della politica, non solo di quella rivoluzionaria ma anche di quella moderata e riformatrice. Tale debolezza, secondo l’Autore, trova terreno nella mancanza di coesione della classe lavoratrice europea, nella quale i lavoratori di differenti Nazioni sono messi in concorrenza gli uni con gli altri.

Forse, dobbiamo chiederci, non si è mai voluto fare dell’Europa un vero unico Stato anche per non facilitare l’unità di classe? Inoltre, in questa mancanza di coesione, quanto pesa il crollo dei Paesi socialisti e quello conseguente dei Partiti Comunisti? Ma è la classe operaia ad essere inadeguata oppure, come noi riteniamo, sono le Organizzazioni della classe operaia (sindacati e partiti politici) ad essere inadeguati all’attuale contesto, in particolare per la mancanza di visione sovranazionale?

G. Sacco evidenzia su Limes 2/2012 che bisogna considerare il ruolo della “mondializzazione” del sistema produttivo che non è altro che la frantumazione dei processi produttivi e la localizzazione delle singole operazioni di tale processo in paesi dove esse risultano più convenienti, secondo la logica del vantaggio comparato. Ai paesi con ridotta produttività e basso o infimo costo del lavoro sono andati frammenti dei processi produttivi che richiedono maggiore manodopera, mantenendo in casa quelli in cui da un numero minore di lavoratori si può ottenere un maggiore valore. Ciò ha segnato, secondo l’Autore, la “fine della fabbrica”, i cui reparti vengono delocalizzati, con caduta sia del potere negoziale dei sindacati sia del senso di solidarietà di classe. In realtà, si potrebbe cogliere la direzione del processo storico, piuttosto, nella diffusione della fabbrica su scala mondiale.

In un ampio e ricco resoconto (“L’uso imperialistico del debito sovrano contro i popoli sovrani”) L. Vasapollo spiega come la politica dell’austerità, imposta per far fronte al deficit di bilancio e all’eccessivo debito pubblico di un Paese, determini la riduzione dei consumi e degli investimenti sia pubblici che privati: ciò in sostanza riduce il prodotto interno lordo e l’occupazione, con chiusura di imprese e trasferimento di esse all’estero, creandosi così un circolo vizioso in quanto si riduce anche la base imponibile fiscale complessiva e il problema del deficit, lungi dal correggersi, si aggrava. Recentemente ha destato un certo scalpore un’analoga considerazione da parte di The Wall Street Journal. Queste “critiche” alle politiche di austerità, che, per quanto possibile, si cerca di tenere occultate all’opinione pubblica, sono peraltro considerate ovvie da parte degli economisti. Malgrado pochissimi quotidiani ne diano notizia -e comunque senza la minima enfasi- il debito pubblico italiano dalla fine del 2011 (all’inizio della manovra del nuovo governo tecnico) a fine marzo 2012, è cresciuto di oltre il 5% ed è attualmente in progressiva crescita (cosa che richiederà, nonostante al momento venga negato, continue ulteriori manovre economiche correttive).

Vasapollo (ma anche G. Sacco sulle pagine di Limes) evidenzia inoltre la questione redistributiva, il trasferimento massiccio di redditi dal lavoro al capitale. Questo spiega (come già Marx aveva giustamente fatto) la progressiva divaricazione della forbice tra ricchi e poveri in Italia, in Europa, negli USA e in molti altri Paesi –è notizia del 1 aprile 2012 che la Banca d’Italia ha calcolato che la ricchezza dei dieci italiani più ricchi è pari a quella dei tre milioni di italiani più poveri. L’immensa ricchezza prodotta dagli incrementi di produttività negli ultimi due decenni -sostiene Vasapollo- necessita di rivendicare una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario e la creazione di nuovi posti di lavoro di pubblica utilità, con pieni diritti e retribuzione. Dobbiamo però osservare a questo proposito che per il suddetto programma (pure riformista -e peraltro condivisibile-) occorrerebbe un rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, altrimenti tali ragionevoli istanze rimangono mere fantasie. Infatti, non è un caso che i governi stanno imponendo esattamente il contrario: si pensi all’innalzamento, fuori da qualsiasi senso della misura, dell’età pensionabile che, aumentando il tempo di lavoro individuale complessivo, non potrà che generare ulteriori masse di disoccupati nei prossimi anni. Sulla base di una simile critica alla riforma delle pensioni, in un dibattito televisivo a inizio 2012, il ministro Fornero ha obiettato, sorridendo, che essa sarebbe giustificata solo in assenza di quella vigorosa crescita economica che il Governo è certo di realizzare. Come sia possibile realizzare questa crescita rimane un mistero. L’Italia ha “dovuto” sottoscrivere il doppio impegno (Patto di stabilità o Fiscal Compact, approvato nel Consiglio europeo dell’8-9 dicembre 2011) di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 e ridurre il rapporto debito pubblico/PIL a non oltre il 60% in 20 anni: attualmente il rapporto è superiore al 120% e quindi, su un debito pubblico di oltre 1800 Mld di euro, occorre ridurlo del 3% l’anno, pari ad oltre 45 Mld di euro (una volta e mezzo la manovra Monti) l’anno per 20 anni. A ciò si aggiunga il peso progressivamente crescente degli oneri finanziari sul debito italiano man mano che si rinnovano i titoli di Stato giunti a scadenza, per via dell’avvenuto aumento dei tassi rispetto agli anni passati: ipotizzando uno tasso di interesse di mercato pari a 330 punti di spread (per il quale il Governo viene tanto elogiato, ma erano 100-150 prima dell’estate 2011), pur ridottosi dopo l’impennata dell’autunno scorso, l’ordine di grandezza degli oneri finanziari con l’attuale indebitamento sarebbe, a regime, ottimisticamente, intorno a 80 Mld di euro l’anno. Folle in tali condizioni parlare di sviluppo economico, piuttosto ci si dovrebbe chiedere come sia raggiungibile l’obiettivo stesso del Patto di stabilità, come sia possibile “rimanere in piedi”. Come sostengono G. P. Caselle e G. Pastrello sulle pagine di Limes 2/2012, il buonsenso, ma anche Keynes e i premi Nobel Krugman e Stiglitz, suggerivano di aspettare il consolidamento della ripresa prima di ridurre il deficit. Invece la politica di tagli alla spesa sociale, meno garanzie contrattuali ai lavoratori e l’aumento delle tasse per ridurre il deficit è la linea espressamente esposta dal presidente della BCE Draghi. Linea rigorosamente eseguita dall’attuale governo italiano ed esattamente opposta a quanto fatto dagli USA per uscire dalla crisi del 1929.

Così non possiamo meravigliarci se la pubblica amministrazione, già allo sbando, sta accumulando ritardi nei pagamenti delle commesse a fornitori di beni e servizi e molte attività pubbliche essenziali rischiano di bloccarsi (e i lavoratori perdono il lavoro). E’ recente notizia che a Napoli persino centri privati convenzionati per la dialisi renale stanno chiudendo e l’ospedale Cardarelli, già sotto pressione, non ha la capacità di assorbire gli ulteriori pazienti.

Vasapollo pone inoltre come fondamentale la questione del controllo della tecnologia: finché essa è in mano alle imprese si genera elevata inefficienza e spreco delle risorse e gli avanzamenti scientifici anziché migliorare le condizioni di vita di tutti si volgono verso attività che generano profitti del capitale. E’ impensabile -afferma- un progresso e una emancipazione sociale senza un’inversione di tendenza sul controllo delle tecnologie, ma ciò esige anche una cultura scientifica tra i lavoratori. Ciò è completamente condivisibile, ma non si può non sollevare il problema essenziale della lotta per il potere politico: chi detiene il potere non si lascia ovviamente sfuggire il controllo sulla tecnologia, elemento fondamentale del dominio di classe.

Francesco Farina, docente di Politica economica internazionale all’Università di Siena, in un interessante articolo sul “Il Mulino” 1/2012 intitolato “Il risanamento economico non basterà a salvarci”, illustrando i gravi limiti della costruzione politico-economica dell’Eurozona, mette in dubbio la solvibilità a lungo termine dei governi delle economie periferiche (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna) a causa del debito pubblico così elevato rispetto al PIL, della pressione fiscale e della riduzione delle possibilità di investimenti. Egli afferma anche che il Fiscal Compact, nel prevedere la perdita di “sovranità” dei governi sui bilanci nazionali, annulla le speranze di tutele pubbliche in Europa e di politiche “attive” del lavoro, indispensabili per portare a più dignitosi livelli il tasso di occupazione. Per Farina, come per diversi politici ed economisti “illuminati” e di buon senso, una soluzione a tale disfatta sarebbe possibile esclusivamente mediante l’emissione di Eurobonds (cioè debito sovrano europeo) che, abbattendo il debito nazionale e raccogliendo capitali per progetti comuni di beni pubblici, permetterebbe una governance macroeconomica sovra-nazionale orientata all’espansione produttiva e occupazionale.

Il punto di vista di Farina, non troppo distante, anche se più moderato nel linguaggio (perché “governance” e non “governo”?), dalla posizione economico-politica di Vasapollo, appartiene al filone socialdemocratico, riformista di sinistra, basato sull’economia keynesiana. La debolezza di questa posizione appare tuttavia dal fatto che la direzione intrapresa ormai da trenta anni dai Paesi dell’Occidente “sviluppato” è quella opposta: il contro-riformismo. Ci si deve quindi chiedere se effettivamente sia razionale puntare a un orizzonte riformista e in quali condizioni. A questo proposito G. Carchedi nell’articolo nel 6° Quaderno “L’economia capitalista è irrazionale; la lotta per il superamento del capitalismo è razionale” sostiene che l’economia capitalistica si avvantaggi della riduzione salariale e che non tenda verso l’equilibrio: i miglioramenti dei salari e le opere pubbliche finanziate dallo Stato non risolverebbero la crisi, dunque il capitalismo non è riformabile. Eppure c’è ancora chi chiede un capitalismo dal volto umano… ma se questo è stato possibile, limitatamente, nella seconda metà del ‘900 fino agli anni ’70, ciò è probabilmente dipeso da un momentaneo e contingente equilibrio del rapporto di forze tra capitale e lavoro (equilibrio che su scala geopolitica era segnato dalla “guerra fredda”) per la presenza di partiti comunisti di massa –rivoluzionari o riformisti che fossero- e forte lotta operaia, situazione ben diversa dalla nostra. Ora, come affermano G. P. Caselli e G. Pastrelli su Limes, il patto postbellico è revocato: i lavoratori si devono assumere di nuovo tutta l’incertezza dell’andamento dei mercati. E concludono che meno democrazia è la parola d’ordine per uscire da questa crisi, perché è cessata la grande paura che la mala gestione dell’economia e della vita delle popolazioni possa innescare la rivoluzione.

Da una parte il Fiscal Compact, che di fatto sottrae ai cittadini dei Paesi dell’Eurozona il controllo democratico sulle proprie scelte economiche e ne peggiora le condizioni di vita, e dall’altra l’assenza di un fine realmente comune e solidale, allontana sempre più i cittadini dall’integrazione europea, rendendoli anzi inclini a simpatizzare per partiti antieuropeisti e populisti. Di fronte alla crisi, larghi strati dell’opinione pubblica su entrambe le sponde dell’atlantico, rivolgono gravi accuse alle banche e alle istituzioni finanziarie (si pensi ai movimenti degli Indignados e di Occupy Wall Street): sebbene la costruzione di movimenti di lotta sia un buon punto di partenza, tuttavia, in assenza di una chiara visione di classe, c’è il rischio di una banalizzazione e di una facile demagogia, che getti tutta la responsabilità su banchieri, agenti di borsa, Agenzie di rating e speculatori della finanza, risparmiando il sistema capitalistico di produzione.

Le radici della “crisi dell’Euro” sono profonde e dipendono da processi di ridistribuzione e di ristrutturazione dei sistemi produttivi mondiali determinatisi negli ultimi decenni: un’accelerazione di quella globalizzazione dei mercati che in realtà esisteva sin dai tempi della rivoluzione industriale dei secoli VIII e IX, di cui la finanziarizzazione dell’economia non è che un aspetto e neppure nuovo.

I dati del Center for Economics and Business Research di Londra del dicembre 2011, mostrano che dal 1990 al 2010 l’Europa a trenta è crollata dal 36% al 24,5% della produzione industriale. Dati del Federal Reserve of St. Louis (articolo di G. Sacco su Limes 2/2012) evidenziano che tra il 2000 e il 2010, i posti di lavoro nell’industria americana precipitano del 32,5% nel settore manifatturiero. Eppure, nello stesso periodo il valore della produzione manifatturiera (dati Federal Reserve) aumenta di oltre il 5% da 3100 a 3260 Mld di dollari, mentre il valore della produzione per lavoratore balza di oltre il 50%, con enorme aumento della produttività. I salari invece hanno avuto tutt’altro andamento: la competizione per il posto di lavoro, con i lavoratori cinesi con salari bassissimi, ha spezzato il potere negoziale dei lavoratori. Situazione del tutto analoga si è verificata in Europa.

Ciononostante ci continuano a dire che la colpa è dei lavoratori, “abbarbicati” senza ritegno nei propri “posti” di lavoro e dei pensionati, i quali vivono oltre le proprie possibilità, “ricevono senza dare” (come dice la Fornero a proposito di quei lavoratori espulsi anticipatamente dalle aziende con “accompagnamento alla pensione”) o dello Stato sociale “ipertrofico” che non ci possiamo più permettere.

Ovunque si impone l’ideologia promossa dai principali media dominati dai poteri economici: si veda a tal proposito l’articolo di Renaud Lambert dal titolo molto esplicativo “Gli economisti sul libro paga della finanza” su Le Monde Diplomatique del marzo 2012.

Questi “esperti” (tra cui figurano docenti di note università private) chiamano “posizioni ideologiche” o” interessi particolaristici” o “idee belle” che ormai “hanno fatto il loro tempo” tutte le istanze di giustizia sociale (diritto al lavoro, tutela dal licenziamento ingiusto, imposte progressive e patrimoniali, sostegno al reddito e all’abitazione), mentre chiamano “modernizzazione” o “interessi generali del Paese” le scelte che favoriscono le grandi ricchezze private, con particolare riguardo alle grandi banche europee o che eliminano ogni tutela ai ceti popolari e a buona parte dei ceti medi, rendendoli completamente in balia dei datori di lavoro e della sorte (malattie, eventi famigliari, ecc.), in pieno stato di insicurezza esistenziale. Il contenuto di classe delle misure imposte è però evidente: si pensi all’aumento delle imposte per la casa con la nuova IMU, per cui gli anziani non autosufficienti assistiti in strutture di lungodegenza (quasi sempre a pagamento) saranno costretti a pagare tasse maggiorate sulla propria abitazione, in quanto questa, essendo libera da residenza, acquisisce lo status di seconda casa a disposizione, mentre, paradossalmente, le Fondazioni bancarie sono del tutto esentate dall’IMU; si pensi anche alle spese militari, che non vengono colpite. Come evidenzia M. Bussani su Limes 2/2012, i fondamenti del welfare, i sistemi educativi, l’assistenza sanitaria, i servizi pubblici, i mezzi pubblici di trasporto, gli asili sono considerati come meri costi e non come fattori di sviluppo sociale, come lussuose eredità del passato troppo generoso anziché come costituenti di un modello di società che mira al rispetto, alla promozione e al benessere degli individui.

Occorre anche demistificare le affermazioni ideologiche utilizzate per generare consenso alle politiche di austerità. Si pone continua enfasi all’incentivo delle donne al lavoro: anche qui non si tratta di equità se prima di estendere il lavoro alle donne non si pensa a garantire lavoro ad almeno un membro –sia questi uomo o donna- nelle famiglie prive di reddito, dove nessuno ha più un lavoro. Invece l’importante è che la percentuale delle donne che lavorano sia uguale a quella degli uomini! Questo il reale significato della parola “equità” tanto proclamata dal governo Monti a inizio mandato. Non si confonda infatti “equità” con “uguaglianza”. L’equità è un concetto astratto e può significare, per fare un esempio, che tutti i cittadini il cui cognome, non so, inizi per “M” devono avere lo stesso tasso medio di occupazione o di salario di quelli il cui cognome inizi per “T”… senza discriminazioni! Su questa falsariga si afferma spudoratamente che i lavoratori anziani hanno troppi diritti rispetto ai giovani, e si colpiscono i primi, o che le donne vanno in pensione troppo presto rispetto agli uomini e per eliminare la disparità tra sessi, si colpiscono le prime (come ha già fatto il governo Berlusconi, sotto ordine della BCE, appena nel luglio 2011).

L’attacco all’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori”, viene quindi motivato dalle più bislacche affermazioni, ma tutte aventi l’obiettivo di dividere i lavoratori, quali la troppa differenza tra “protetti” e “non protetti, tra figli e padri e via dicendo. D’altra parte si noti come questa controriforma venga portata avanti quale una questione di vita o di morte da parte della Confindustria, delle Istituzioni finanziarie europee e del governo. Si tratta infatti non solo di togliere diritti ai lavoratori, ma di consentire alle Aziende di liberarsi di quei lavoratori che, vicini ai sessant’anni, hanno visto allontanarsi l’età del pensionamento (e si badi, anche degli ammortizzatori sociali). Al loro posto le aziende preferiscono inserire i giovani, più in forze e con retribuzioni inferiori. Il sottosegretario del governo Monti Catricalà ha dichiarato in TV a Ballarò il 27 marzo 2012 che per il governo la riforma dell’ art. 18, senza compromessi sul licenziamento senza reintegro, è irrinunciabile e che qualora fosse reintrodotto il reintegro non sarebbe più possibile garantire la preannunciata riduzione della disoccupazione giovanile. Pertanto quando il Presidente Napolitano, per tranquillizzare gli ascoltatori, ha dichiarato in un’intervista televisiva di non credere che alla riforma dell’art. 18 conseguiranno licenziamenti di massa, bisogna piuttosto attenersi all’ involontario ma rivelatore segnale corporeo, in cui il Presidente si gratta il naso ripetute volte in pochi secondi, gesto che aiuta a smascherare la credibilità della stessa dichiarazione.

I ministri del governo Monti, quando non si esimono dall’insultare i giovani che ancora a trent’anni rimangono con i genitori o persino dal criticare il fatto che molti preferiscano cercar lavoro e stabilire la famiglia nella stessa città dove vivono i genitori, ambiscono a smantellare persino quei legami solidaristici famigliari, che, offrendo una protezione e una via di salvezza reciproca in caso di bisogno, costituiscono di fatto ostacolo al pieno isolamento (e quindi alla assoluta debolezza) dell’individuo di fronte al mercato del lavoro.

Sempre sul piano della comunicazione, tesa a far passare le politiche di austerità, si pone ripetutamente l’accento sul “senso di responsabilità” che tutti dovremmo avere (si pensi alla retorica europeista del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) per evitare che pure da noi accada “come in Grecia”. Ma come mai l’Unione Europea non si è preoccupata della sofferenza inflitta alla popolazione greca mentre si preoccupa di evitarla a noi? Nel caso della Grecia infatti dove era finito il senso di responsabilità? E’ forse lo stesso senso di responsabilità (o la stessa ipocrisia) che hanno i governi europei e USA quando, a suon di bombe e di stragi di famiglie inermi, “portano” la democrazia e la libertà nei paesi recalcitranti? Sarebbe “senso di responsabilità” da parte delle istituzioni europee ridurre i lavoratori e i cittadini delle fasce medie e basse, a iniziare da Grecia e Portogallo per passare a Spagna, Italia, Irlanda, eccetera, a un tale livello di indigenza e sofferenza, con licenziamenti a valanga, riduzione di salari e pensioni, aumento delle tasse e disfacimento dei servizi di base? Stanno portando la popolazione greca, con condizioni in precedenza confrontabili con quelle degli altri paesi dell’Eurozona, alla soglia della fame (con constatati diffusi casi di seria denutrizione registrata nella prima infanzia), alla perdita dell’abitazione, all’incremento dei suicidi, all’esclusione dalle cure mediche, con riduzione delle aspettative di vita, per non parlare della qualità di vita. L’austerità e una tassazione insostenibile stanno distruggendo il tessuto sociale nei Paesi cosiddetti PIIGS: è fin troppo evidente che lo standard sociale al quale punta oggi l’UE non è quello delle conquiste europee del secondo dopoguerra ma quello afroasiatico del nostro tempo.

La contro-riforma del lavoro, insieme a quella delle pensioni, in Italia avrà conseguenze drammatiche: oltre a manomettere l’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, elimina la Cassa Integrazione Straordinaria e la Mobilità (coperture parziali del salario dei licenziati a seguito delle ristrutturazioni aziendali). La Cassa Integrazione rimarrà solo nei casi in cui l’Azienda presenta una crisi momentanea e intende riprendere i lavoratori al termine della crisi. Dunque il principio è esclusivamente quello della tutela dell’Azienda, anziché quello di consentire la sopravvivenza del lavoratore che ha perso il lavoro a causa di esuberi. L’aumento dei disoccupati, privati anche del sostentamento, porterà naturalmente alla drastica riduzione dei salari per la competizione per i posti di lavoro. Il capitalismo si avvantaggia della povertà della massa della popolazione e della concorrenza per un salario, consentendo un maggior sfruttamento (tendenza naturale verso il salario di sopravvivenza, come spiegava Marx). E’ per questo che pur di fronte a masse di cittadini in cerca di occupazione non prendono neppure in considerazione la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, anche fosse a minor salario, come sarebbe peraltro logico, in senso prettamente economico, da un punto di vista capitalistico. Questi argomenti si ricollegano dunque alla tesi di Carchedi, secondo cui il capitalismo non è riformabile.

Quale la funzione delle politiche di austerità in definitiva se non forniscono prospettive di uscita dalla crisi eccetto quella di distruggere le conquiste dei lavoratori, eliminare lo Stato sociale, ridurre i salari e limitare gli spazi democratici? In questa fase il Capitale non può più contare sulla promessa di un futuro di benessere per tutti: dalla “crisi dell’Euro” si prospetta di uscire incrementando il lavoro non retribuito ovvero il tasso di sfruttamento, aumentando il plusvalore assoluto. Viene allungato il tempo di lavoro e ridotte le aspettative di vita, con gli anziani, in qualsivoglia stato di salute, che dovranno trascinarsi al lavoro fino a settant’anni oppure soccombere (“viviamo troppo a lungo” ha sentenziato il Fondo Monetario Internazionale e non si può pagare chi non lavora).

Il famoso imperativo di Kant “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo” è brutalmente rovesciato: gli uomini, quali lavoratori e consumatori, costituiscono il mezzo e “il mercato” il fine. Siamo quindi di fronte ad una crisi che non è solo economica, ma anche politica, sociale, culturale e morale, dunque una crisi di civiltà, intimamente legata al dispiegarsi del sistema capitalistico di produzione.

Per liberarsi dalla barbarie capitalistica la classe lavoratrice, la quale produce la ricchezza sociale mondiale, dovrà farsi carico del compito storico di costruire una nuova civiltà, la società socialista, e per questo è necessario tornare allo studio dell’opera di Marx e di Lenin.

* Collettivo Formazione Marxista, Roma

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