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La partita a scacchi del piccolo Lord

di Piotr (Пётр)

1. Il piccolo Lord del romanzo di Frances Hodgson Burnett si chiamava Cedric Errol.

Noi invece stiamo parlando del piccolo Lord Keynes. O meglio dei tanti piccoli Lord Keynes che si stanno affacciando sulla scena politica occidentale.

In una recentissima analisi sull’esito delle elezioni europee (Le elezioni in Europa. Una “svolta politica”?) ho interpretato la “svolta a sinistra” come un misto di reazione popolare intrecciata a strategie politiche non popolari. Ad una richiesta di ritorno degli Stati europei ad un patto costituzionale coi propri cittadini messi in ginocchio dal tentativo di gestione della crisi finanziaria (a sua volta un atto della più generale crisi sistemica), si inizia a rispondere delineando una diversa strategia di gestione della crisi. Due piani ben diversi che però fanno riferimento a una rappresentazione simbolica condivisa: l’intervento statale.

In realtà l’intervento statale c’è sempre stato: statali sono le decisioni di deregulation finanziaria, statali sono le decisioni di vendita dei beni statali, statali sono le decisioni di salvataggio delle banche non statali, statale infine è la politica di sostegno di alcuni settori strategici operanti tra energia e armamenti. Qualcuno infatti sostiene con buoni argomenti che in tutto questo tempo in cui lo Stato è sembrato ritrarsi da tutta la scena, abbia invece operato un keynesismo privato e un keynesismo militare, vuoi interno come negli Stati Uniti, cioè rivolto innanzitutto alla crescita della propria potenza, vuoi esterno, cioè rivolto all’esportazione di armamenti.



2. Oggi si stanno combinando, ma in modo inevitabilmente conflittuale, una richiesta dal basso di intervento statale e una richiesta dall’alto.

Sono richieste che seguono logiche e obiettivi differenti. Se la richiesta di keynesismo dall’alto (Stato) per il basso (società) è abbastanza ovvia e la possiamo esemplificare con la proposta sul lavoro di Luciano Gallino fatta propria dall’ALBA, il nuovo Keynesismo dall’alto e per l’alto (che nell’articolo citato avevo chiamato “strategia CK-R, ovvero “Crescita [Keynesiana]-Rilassamento della politica monetaria europea”) riflette preoccupazioni molto diverse. Possono intrecciarsi ma non adattarsi l’una all’altra.

Le sorprese sono già iniziate.

Sorprese tedesche.
Preoccupata per la batosta elettorale nei Länder e pressata da richieste d’oltreoceano collegate a richieste interne alla UE, la Germania della signora Merkel è uscita pochissimi giorni fa con dichiarazioni da svolta epocale. La Bundesbank, sacerdotessa dell’ortodossia monetarista (altrui) motivata con la lotta senza quartiere all’inflazione, ha annunciato che la Germania e l’Eurozona hanno bisogno di più inflazione. Sebbene alcune dichiarazioni di Mario Draghi al momento del suo insediamento alla BCE preannunciassero qualcosa del genere, siamo di fronte ad una sorta di “slittamento di paradigma”.

Contemporaneamente il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha dichiarato di sostenere le richieste di incrementi salariali nell’industria privata e di essere favorevole ad un aumento nel settore pubblico fino ad un inaudito 6%.

La signora Merkel ha spiegato i razionali di questo cambiamento di paradigma. Innanzitutto, ha ribadito, esso è possibile solo per i Paesi non sovraindebitati. La politica del rigore teutonico continuerà, ma nei Paesi in surplus una politica espansiva è desiderabile e avrà due effetti positivi indiretti per tutti: verrà aumentata la domanda di importazione dei Paesi “virtuosi” che a loro volta diventeranno meno competitivi. Di converso i Paesi meno “virtuosi” diverranno più competitivi a fronte di una maggiore capacità di esportazione.

Liscio come l’olio, a prima vista: la combinazione che salva capra e cavoli, lavorando sui differenziali di domanda invece che sui differenziali valutari.

Sorprese francesi. Come si è visto la Francia dopo 17 anni di regno conservatore attorno al quale si era consolidato l’asse franco-tedesco, ha cambiato pagina. Le ipotesi di lavoro per l’Europa (e innanzitutto per la Francia stessa) di François Hollande sono più radicali di quelle tedesche: ampi investimenti in infrastrutture parzialmente finanziati da Eurobond (spauracchio – per ora – della Germania) e spostamento di gran parte dei nuovi deficit pubblici alla voce “investimenti” da escludere dal limite di deficit del 3% sul PIL (o più propriamente sul PNL, il prodotto nazionale lordo) imposto dal Patto che ora si riscopre che non si chiamava solo “di stabilità”, ma anche “e di crescita”.

Una “strategia” per la crescita in parte finanziata quindi da moneta pubblica.

Sorprese italiane. In un recentissimo “Porta a porta” il leader del Democratic Party filiale italiana, Pier Luigi Bersani, principale supporto del governo Monti, ha sciorinato un’analisi sul neomercantilismo tedesco e sull’euro-marco che avrebbe fatto la sua figura in molti ambienti della sinistra radicale italiana. Finendo addirittura col dire che se non si cambia marcia non ci si può stupire del crescente antigermanismo in Italia e in Europa. Bersani non parla a vanvera. Lancia messaggi politici. Ed essendo il principale supporto di Mario Monti è portavoce dell’anima neokeynesiana dall’alto e per l’alto di questo governo. Sembra un paradosso che esista, visto che esso appare come un governo di strettissima fede monetarista.

Eppure quando Mario Monti parla di “misure per la crescita”, a che altro si può riferire se non a investimenti con necessario sostegno pubblico? Ovviamente dopo un po’ di macello di capitali e dopo un bel po’ di macello sociale, per ricordarci, come abbiamo detto all’inizio, che c’è keynesismo e keynesismo.


3.
Dietro queste sorprese c’è una precisa politica, che si basa su calcoli che ritroviamo in vari contesti, anche opposti. Vediamo ad esempio il punto di vista dell’investitore finanziario leggendo cosa prevedeva il CEO del DWS per il dopo elezioni francesi. Intanto iniziava dicendo: “Cattive notizie si profilano all’orizzonte. Ci potrebbe essere una svolta europea in cui i soldi verranno trasferiti dai risparmiatori ai debitori”. E l’analisi prevedeva quanto segue: per mantenere una crescita del PIL dell’1,5% annuo rimanendo dentro i parametri del Patto di Stabilità, con il debito pubblico al 60% del PIL e del limite massimo annuale di deficit del 3% sul PIL, per i prossimi dieci anni ci vorrà in Germania un tasso d’inflazione del 6%. Altro che l’attuale 2,7%. La conclusione era un avvertimento riguardo ai reali ritorni di eventuali investimenti in bond decennali tedeschi. Dato che non abbiamo soldi da investire, la conclusione non ci interessa. Ci interessa però paragonare l’avvertimento del consulente in speculazioni con quanto detto ad esempio da William Hutton, ex Editor in Chief del molto britannico “Observer” e ora presidente del Big Innovation Centre:

“Ciò di cui ha bisogno l’Europa e ciò che la Germania non accetterà mai sono cinque o sei anni di inflazione a circa il 6%. Abbiamo bisogno che la BCE fissi obiettivi di una crescita nominale del PIL (“money GDP”) tra il 6% e l’8% e quindi si attrezzi per tale crescita monetaria che renderebbe il debito privato sopportabile. Ciò aiuterebbe Paesi come l’Irlanda e la Spagna di rimanere nell’eurozona”.

Hutton era pessimista riguardo le chance di far ragionare la Merkel su questo. Che è anche il compito assegnato da Obama a Monti e che abbiamo sintetizzato col termine FED-izzazione della BCE. Invece, se l’avvertimento del consulente in speculazioni finanziarie era espressione di un timore, quello di Hutton era l’espressione di un desiderio che, guarda caso, si sta trasformando in realtà. Che sotto sotto sia stato uno di quei suggerimenti che non si possono rifiutare?



4.
La differenza tra timore e desiderio sopra illustrata è null’altro che l’espressione delle solite contraddizioni del sistema capitalistico. Ci sono sostanzialmente due modi per venire a capo di un grosso debito, a parte il default: spremere all’inverosimile le risorse sociali e materiali o svalutarlo tramite inflazione. La prima strategia, come ormai tutti sanno, non può durare a lungo senza sfociare in depressione e default. La seconda rende molto infelici gli speculatori, ma non è detto che renda troppo infelici i banchieri, nella misura in cui sanno benissimo che la nuova moneta stampata dalla BCE entrerebbe in buona parte nelle loro tasche. Et pour cause. Il centro di questa contraddizione è la Germania non meno che l’Italia.

I nostri piccoli Lord Keynes con le loro mosse e contromosse stanno arrivando ad un compromesso. Che sarà del tutto instabile e risolverà poco e nulla e solo nel brevissimo periodo. Però sarà giocato con grandi titoli come quello del quotidiano “New Europe” in un articolo sul nuovo corso che si prospetta: “Social Europe returns”. Titoli che verranno spesi politicamente sotto la rubrica “Crescita”.

Ecco dove simbolicamente si allacceranno il keynesismo “sociale” e il keynesismo “normale”. Ma è proprio il punto dove non si allacceranno il keynesismo sociale reale e il keynesismo normale reale.

Spiace fare il bastian contrario e togliere illusioni. Ma dietro le speranze di una “riscossa” della sinistra keynesiana, moderata o radicale, ci sono processi, fenomeni, interessi, conflitti e giochi di potere complessi.

Oltre a quanto abbiamo detto si pensi al keynesismo militare, interno o esterno. Non sparirà. Ci saranno lotte per accaparrasi i migliori gioielli della morte (come sta succedendo attorno a Finmeccanica), ma solo una persona capitalisticamente insana non indirizzerebbe aiuti pubblici verso un settore molto profittevole come quello delle armi e verso il connesso settore energetico, anch’esso al centro di lotte di conquista (come ENI) o di veri e propri conflitti geopolitici [1].

Il keynesismo sociale dovrà fare i conti con questo keynesismo concorrente da weaponeuro-petroeuro coalition. Così come dovrà fare i conti col keynesismo finanziario da bailout e da quantitative easing, sempre più invocato.

Senza lotte sociali ampie, radicali, decise, non facili e per nulla scontate, ci si fermerà alla congiunzione simbolica che sarà tutta spesa elettoralisticamente, dopo calcoli più o meno astuti, e non ci sarà nessun cuneo politico ad insinuarsi nella contraddizione che si sta aprendo, nei punti di rottura dei vecchi schemi.


5.
Rimane infine la dimensione internazionale. Nonostante si parli in continuazione di crisi sistemica, pare che si faccia un’enorme fatica a guardare oltre l’Occidente e addirittura oltre l’Europa o il singolo Paese. Al più lo si fa per ricordare che anche l’economia cinese e quella indiana danno segni di stanchezza. Ma se il ciclo capitalistico è veramente D-M-D’, allora con D tutto inizia e con D’ tutto finisce e ricomincia. Cina e India stanno lanciando allora anche altri segnali: di nervosismo rispetto all’alterazione del gioco dei mercati finanziari da parte della FED e di una presumibile FED-izzazione della BCE. Segnali che fanno parte della crescente lotta internazionale per il controllo di questi mercati, o meglio per l’alleanza con essi da parte dei poteri territoriali.

Abbiamo denunciato quanto abbiamo voluto il “dumping sociale” di queste economie emergenti, senza ricordarci della nostra storia nazionale e di come abbiamo trattato i Paesi che adesso accusavamo. Il punto non era giustificare ipersfruttamento o mancanza di diritti sul lavoro, ma era evitare quella faccia di bronzo che tanto ha infastidito anche gli attivisti sociali più combattivi che operano da quelle parti, sporgendo denunce che volevano surrogare le barriere doganali.

Ora sono loro che si apprestano ad accusarci di dumping finanziario assieme ad un nostro crescente dumping sociale che se ha un sicuro effetto mortale sulle persone ha ben dubbi ritorni in termini di rendimento.

 

[1] Si veda la saga “Nabucco vs South Stream”: anche se il primo progetto – sostenuto dagli USA e dalla UE - sta perdendo i pezzi, il secondo – sostenuto dalla Russia, dalla Germania e nel bene o nel male dall’Italia - proseguirà solo sotto precise garanzie di diversificazione nelle forniture, ovvero se si disinnescherà la sua valenza geopolitica.

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