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Europa: crisi di debito o di bilancia dei pagamenti?

di Andrea F. Presbitero

Per uscire dalla crisi bisogna capirne bene la natura. Se si tratta di una crisi dei debiti sovrani, allora si fa bene a combatterla con politiche di rigore. Ma se il problema sono i debiti esteri e gli squilibri commerciali fra i paesi europei, allora concentrarsi sul risanamento delle finanze pubbliche potrebbe essere insufficiente, o addirittura controproducente. Per questo, torniamo sull'argomento con un intervento di Andrea F. Presbitero (Università Politecnica delle Marche)

L’attacco speculativo contro i debiti sovrani di alcuni paesi membri dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) ha riportato alla ribalta il rischio-paese. L’introduzione della valuta comune e la rapida integrazione finanziaria dei paesi membri dell’unione monetaria avevano consentito ai rendimenti dei titoli pubblici dei paesi membri dell’eurozona di rimanere sostanzialmente allineati anche durante la crisi finanziaria globale 2007-2009. Con il dispiegarsi della crisi greca, tuttavia, si è aperto un divario crescente tra i rendimenti dei titoli emessi dai governi di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna (GIIPS) e quelli emessi dalla Germania.

La crisi all’interno dell’eurozona ha attirato l’attenzione su due ordini di problemi interdipendenti: 1) l’esistenza di persistenti squilibri esterni negli scambi reali tra i paesi membri dell’UEM e 2) l’aumento dei debiti pubblici. L’impennata degli spread dei titoli greci e, a seguire, degli altri paesi GIIPS ha posto in primo piano il secondo problema a scapito del primo. La giustificazione può apparire ovvia, se ci si limita a considerare che questi titoli sono rappresentativi di elevati e crescenti debiti pubblici, dei quali si teme l’insostenibilità. Appare meno ovvia se, invece, si allarga la visuale fino ad analizzare le cause profonde che alimentano i problemi di sostenibilità delle finanze pubbliche europee. Questi ultimi, infatti, sono radicati negli squilibri macroeconomici dell’eurozona e, in particolare, nella presenza di squilibri esterni persistenti tra paesi in deficit e paesi in surplus.

Se si prende in considerazione anche il primo dei due ordini di problemi si può capire che l’ampliarsi degli spread tra i rendimenti dei titoli di stato europei rappresenta la febbre sintomatica della fragilità strutturale dell’eurozona e che limitarsi a curare le finanze pubbliche può abbassare la febbre, ma non ne cura le cause.

Appare evidente che l’euro opera senza adeguati meccanismi di aggiustamento tra due aree strutturalmente diverse: un’area periferica in deficit, meno competitiva, che si colloca geograficamente a Sud (con l’eccezione dell’Irlanda) di un Nord in surplus, il cui paese più rappresentativo è la Germania.

La visione sinora prevalente è stata quella “tedesca”, che si basa sull’ipotesi che i paesi GIIPS siano stati fiscalmente irresponsabili e non siano riusciti ad attuare politiche dal lato dell'offerta in grado di aumentarne la competitività. Ne consegue che i paesi periferici debbano perseguire un regime di austerità fiscale, al fine di ristabilire la sostenibilità delle finanze pubbliche e attenuare il rischio che questi stessi paesi possano essere costretti ad abbandonare l'euro. Questa politica di aggiustamento, che vincola la concessione dei finanziamenti delle istituzioni europee e internazionali, è certamente necessaria per non alimentare comportamenti di azzardo morale. È però insufficiente e può addirittura rivelarsi controproducente. Insufficiente se non si accompagna a politiche di sviluppo che agiscano sia sulla domanda che sull’offerta. Quindi controproducente, se favorisce la depressione e la disoccupazione. Più che la sostenibilità del debito, diviene cruciale il problema della sostenibilità dell’UEM, che è messa in discussione da crisi di rigetto contro l’eccesso di rigore fiscale e da pericolose tendenze nazionalistiche, come è avvenuto nelle elezioni politiche in Grecia. Riappare lo spettro del rischio di cambio, se la Grecia in primis e, per contagio, altri paesi in bilico fossero costretti a uscire dall’euro.

In un recente lavoro, scritto con Piero Alessandrini, Michele Fratianni e Andrew Hughes Hallett, forniamo un quadro interpretativo generale per dimostrare come gli squilibri macroeconomici siano in grado di creare una crisi di debito – in presenza o meno di irresponsabilità fiscale. Sottolineiamo, inoltre, come gli squilibri macroeconomici tra paesi dell’eurozona possano provocare una crisi di liquidità e valutiamo l'importanza relativa dei fondamentali fiscali e degli squilibri esterni nello spiegare i differenziali di rendimento all’interno dell’eurozona. Alcuni fatti stilizzati e l'evidenza empirica suggeriscono che sia la fragilità fiscale dei paesi periferici, che gli squilibri esterni tra il Nord in surplus e il Sud in deficit di conto corrente contribuiscono alla crisi, sebbene con ruoli diversi.

Una serie di fatti stilizzati solleva alcuni dubbi circa la validità della tesi secondo cui la crisi del debito dell’eurozona sia imputabile prevalentemente a una condotta fiscalmente imprudente dei paesi del Sud:

• Il confronto dei livelli di debito pubblico e di deficit tra i paesi dell’eurozona, il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Giappone (vedi Tabella 1) suggerisce che i differenziali di rendimento siano un sintomo piuttosto che la causa della malattia e che i fondamentali fiscali da soli non sono sufficienti a spiegare rischio sovrano.

Tabella 1: Rapporto debito pubblico/PIL, 1999-2011

  Rapporto tra debito pubblico e PIL (valori %)
Paese 1999 2007 2011
Austria 67 61 72
Belgio 114 84 95
Finlandia 46 35 50
Francia 59 64 87
Germania 61 65 83
Grecia 103 105 166
Irlanda 48 25 109
Italia 114 104 121
Paesi Bassi 61 45 66
Portogallo 50 68 106
Spagna 62 36 67
       
Regno Unito 44 44 81
Stati Uniti 61 62 100
Giappone 134 188 233

Fonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook
Database, Settembre 2011.

• Anche all'interno dell’eurozona, alcuni paesi dell'Europa meridionale mostravano posizioni fiscali più solide della Germania prima dell'inizio della crisi.

• Il Nord – e in particolare la Germania – ha beneficiato di una minore crescita del costo unitario del lavoro e, per via di una politica monetaria comune, di un deprezzamento del tasso di cambio reale rispetto al Sud (vedi Tabella 2).

Tabella 2. Squilibri esterni e differenziali di costo nell’eurozona, 1999-2012

  Variazioni cumulate
  (CAB/Y)*100 ULC (variazione %) CPI inflation
Paese 1999-2012 1999-2010 1999-2012
Paesi Bassi 79.6 4.2 30.3
Finlandia 66.0 -19.9 26.4
Germania 52.0 1.4 21.8
Belgio 32.5 8.0 29.9
Austria 28.1 -1.5 26.4
Francia -3.4 2.4 24.5
Irlanda -19.1 -22.5 32.1
Italia -24.4 28.5 30.9
Spagna -75.5 24.8 38.4
Grecia -123.2 54.9 43.1
Portogallo -132.2 11.1 35.1

Note: CAB = saldo del conto corrente; Y = PIL; ULC = costo unitario del lavoro; CPI inflation = indice dei prezzi al consumo; i valore del 2012 sono previsioni. Fonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database, Settembre 2011 per CAB, Y e CPI inflation; OCSE, Main Economic Indicators per ULC.

Questi elementi sono coerenti con l’ipotesi che non sia stata l’irresponsabilità fiscale dei paesi periferici a causare la crisi, quanto, piuttosto, l'asimmetria degli squilibri esterni dell’eurozona, come spesso sottolineato anche da Paul Krugman. Questa asimmetria è dovuta a vari fattori, tra i quali assumono un particolare rilievo i differenziali salariali e di produttività del lavoro, non compensati da aggiustamenti dei tassi di cambio reale.

L’interpretazione della crisi europea come crisi di bilancia dei pagamenti è inoltre suffragata dall’elevato volume di prestiti bancari erogati dai paesi in surplus ai paesi in deficit prima del dispiegarsi della crisi, dalla successiva interruzione di questi flussi finanziari e, quindi, dagli squilibri crescenti del sistema Target2. Sono stati gli squilibri reali all’interno dell’eurozona ad aver dato origine a flussi di capitale privati che, tuttavia, non hanno contribuito a stimolare un processo di convergenza all’interno dell’eurozona. Con l’ampliarsi degli squilibri e con il successivo manifestarsi della crisi, gli interventi di salvataggio dei governi hanno poi trasformato i debiti da privati a pubblici.

Alcune stime empiriche delle determinanti degli spread tra i rendimenti dei titoli di Stato decennali dell’eurozona e di quelli tedeschi mettono in luce l’importanza della liquidità, soprattutto in tempi di incertezza, e suggeriscono che il ruolo delle variabili fiscali, rilevante all’inizio della crisi finanziaria globale (2007-2009), si sia poi attenuato a favore di quello svolto dai differenziali di produttività del lavoro tra paesi del Nord e del Sud. Se si osserva l’intera evoluzione della crisi finanziaria globale, il grado di liquidità del mercato e il livello del debito pubblico sono le due principali determinanti dell’andamento degli spread nell’UEM. Se invece ci si concentra esclusivamente sulla crisi europea iniziata nel Gennaio 2010, il ruolo del debito pubblico diventa trascurabile, mentre i differenziali di produttività del lavoro emergono come il secondo fattore chiave, insieme alla liquidità del mercato, per spiegare l’ampliarsi degli spread.

In sintesi, se è vero che l’irresponsabilità fiscale dei paesi periferici ha certamente contribuito ad aggravare la vulnerabilità dell’UEM, quest'ultima non può essere interpretata unicamente come il risultato di una mancata disciplina fiscale. L’interpretazione della fragilità dell’eurozona come crisi di bilancia dei pagamenti non è necessariamente incompatibile con l'interpretazione fiscale. Pur riconoscendo l'importanza risanamento dei conti pubblici, da perseguire nel lungo periodo, si identifica l'origine della crisi sovrana in un adeguamento insufficiente (e un’inadeguata ripartizione degli oneri dell’aggiustamento) tra paesi in surplus e in deficit all’interno dell'unione monetaria, come ha recentemente sottolineato Luca Fantacci su Linkiesta.

L’unione monetaria europea è strutturalmente fragile. Mentre gli attacchi speculativi possono riflettere reali preoccupazioni circa la sostenibilità del debito dei GIIPS, il profondo divario tra il surplus di conto corrente dei paesi del Nord e il deficit di quelli del Sud non può essere liquidato come un semplice meccanismo che può innescare una crisi sovrana. Al tempo stesso, non è più possibile rinviare la discussione su come impostare una riforma fiscale in ambito europeo. Aggiustamenti redistributivi all’interno dell’eurozona sono stati finora impediti dall'assenza di un meccanismo di trasferimento che sarebbe normalmente presente in Stati sovrani, da tassi di cambio reali che non convergono, e da una bassa crescita economica. Si tratta di problemi annosi, già trattati dai rapporti MacDougall e Delors, che auspicavano la creazione di un considerevole budget fiscale centralizzato per l’eurozona, al fine di stabilizzare shock regionali attraverso la redistribuzione delle risorse tra le regioni.

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