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Caro Emiliano ti scrivo...

di Alberto Bagnai

Caro Emiliano,
ho letto con interesse il tuo intervento su Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro. Poi lo ho riletto contando le “i”. Ce ne sono 888 (me lo dice Word): manca però qualche puntino. Se me lo consenti, lo metto io (libero tu di toglierlo, se ti sembra sia messo male).


Due (o tre) premesse


Faccio due premesse, anzi tre. Credo a te interessi solo la prima, le altre sono cose che sai e che affermo solo per collocare il nostro scambio, che è uno scambio fra professionisti, nella giusta prospettiva scientifica, a beneficio dei profani.

Premessa prima

La prima premessa è che non ti conosco personalmente. Da quando ho iniziato la mia attività divulgativa, che necessariamente implica un risvolto politico, ho capito una cosa fondamentale: in politica le persone bisogna guardarle negli occhi. Sarà per evitare questo compito non sempre piacevole che ho preferito, fin da piccolo, dedicarmi alla ricerca. Ma ora c’è urgenza, non ci si può sottrarre alle proprie responsabilità. E allora bisogna guardare la gente negli occhi. Ripeto: con te non è stato possibile, e può essere quindi che quanto segue sia, come dire, sfuocato. Ma servirà comunque a capire se varrà la pena (in futuro) di guardarsi negli occhi.

Premessa seconda
La seconda è che conosco e apprezzo la tua attività scientifica nel campo che oggi interessa tutti.

Ho sempre ampiamente riconosciuto il tuo merito secondo me più rilevante in questo settore, vale a dire quello di essere stato probabilmente il primo in Italia (e comunque fra i primi) a portare l’attenzione sul vero problema: gli squilibri esterni di bilancia dei pagamenti dell’Eurozona (EZ), cioè il prorompere nell’EZ di flussi internazionali di capitali che, se pure andavano “nella direzione giusta” secondo l’omodossia (vale a dire, dai ricchi ai poveri, vedi il par. 2.3 di Crisi finanziaria e governo dell’economia), erano chiaramente insostenibili (per i poveri, che si stavano indebitando). Lo hai fatto (lo ricordo ai latecomers) nel tuo articolo su “Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista”, pubblicato nel 2008, dove fai tante considerazioni interessanti e citi tanta letteratura, a me nota per altre vie.

Sì, perché il mio percorso di ricerca internazionale era cominciato, sedici anni fa (pare ieri), proprio dallo studio dei movimenti internazionali di capitali e in particolare del paradosso di Feldstein-Horioka. Vi ricordate l’amico (si fa per dire) Martin Feldstein, quello che ha detto le parole più lucide sull’euro? (Ve le ricordo: “A critical feature of the EU in general and EMU in particular is that there is no legitimate way for a member to withdraw. This is a marriage made in heaven that must last forever. But if countries discover that the shift to a single currency is hurting their economies and that the new political arrangements also are not liking, some of them will want to leave. The majority may not look kindly on secession, either out of economic self-interest or a more general concern about the stability of the entire union. The American experience with the secession of the South may contain some lessons about the danger of a treaty or constitution that has no exits” Foreign Affairs, 76(6), 1997, p. 72).

L’amico Martin aveva scritto, nel 1979, uno degli articoli più citati degli ultimi trent’anni (lo citi anche tu): Domestic savings and international capital flows, il cui messaggio era: “Strano! Stiamo liberalizzando i movimenti di capitali, ma pare proprio che la maggior parte dei paesi si comportino in modo autarchico: finanziano i propri investimenti coi propri risparmi, quando forse potrebbero star meglio ricorrendo ai mercati finanziari internazionali...”. Il “paradosso” di Feldstein-Horioka (perché c’è così poca mobilità dei capitali in un mondo che sta liberalizzando i movimenti di capitale?) aveva attratto tanta attenzione, e molti si erano dedicati a confutarlo. Il lavoro di Feldstein aveva una serie di problemi metodologici... non voglio annoiarvi... ma insomma, quando nel 1995 l’amico Stefano Manzocchi mi propose di verificarlo per i paesi in via di sviluppo, scrivemmo un lavoro, pubblicato prima come working paper e poi nel 1996 su rivista, che, insieme a tanti altri, mostrava che in effetti nei paesi in via di sviluppo i capitali si muovevano.

All’epoca, nota bene, non ci interessava vedere in quale direzione: il nostro “eppur si muove” quindi era, se vuoi, abbastanza naïf. Buoni ultimi nel dibattito intervennero Blanchard e Giavazzi (2002), per notare come in effetti anche nel caso dell’EZ il paradosso era smentito: i capitali si muovevano, affluivano verso i paesi periferici (qui la direzione era chiara), e questo processo era fisiologico perché si conformava alle leggi dell’omodossia: il capitale va dove è più scarso, perché lì è più produttivo. Ciò rappresentava la fine del “paradosso” di Feldstein-Horioka.

Ma rappresentava anche, come tu giustamente notavi, l’inizio di un bel casino, perché questi afflussi di capitali (che è il modo elegante in cui gli economisti chiamano i debiti: ce lo vedi uno che ha appena contratto un mutuo capestro con qualche banca per acquistarsi la prima casa dire con uno smagliante sorriso “oggi ho registrato un importante afflusso di capitali”!), questi afflussi di capitali, tu dicevi, sarebbero risultati insostenibili. Cosa che si è puntualmente verificata. Col senno di poi credo mancasse nella tua analisi del 2008 quello che mancava nel mio lavoro del 1995, cioè una visione organica del perché le economie periferiche sono soggette, sempre e comunque, ad afflussi di capitali destabilizzanti (e del ruolo che in questo meccanismo giocano gli agganci nominali). Questa visione organica l’ho raggiunta da poco, grazie allo studio dei lavori di Roberto Frenkel (su Cambridge Journal of Economics, o al convegno di Pescara), e l’ho esposta ad esempio nel saggio su Micromega o nell’intervista a byoblu: è il film già visto, la famosa storia d’amore fra Centro e Periferia, che poi si rivela in realtà essere una storia di sesso (contro natura).

Non sono poi del tutto d’accordo con l’idea che tu esprimi serialmente, quella secondo cui la scarsa produttività dipenderebbe dalle piccole dimensioni delle imprese italiane. La mia esperienza di ricerca in questo settore mi porta a conclusioni quasi diametralmente opposte (un po’ più in accordo con quelle raggiunte da Gustavo Piga, e, se posso, sommessamente, un po’ più in accordo coi fatti stilizzati). Ma di questo non c’è tempo per parlare oggi. Ma rimane il fatto che tu quale fosse il problema l’hai detto, e l’hai detto prendendo di petto “the bocconians”, con un gesto di indubbio coraggio. Onore al merito. E mi va tanto più di sottolinearlo, in quanto nel mio primo intervento divulgativo sulla crisi, pubblicato sul Centro (cartaceo) e sullo Sbilifesto (l’organo della sinistra perbene e decotta, il megafono di quelli che tu chiami “i difensori ‘senza se e senza ma’ della zona euro), avevo esposto una tesi simile (il problema sono gli sbilanci esteri), in modo indipendente e senza poterti citare, per il semplice motivo che purtroppo il tuo lavoro aveva avuto solo diffusione nazionale, e che io per necessità, più che per vocazione, opero in ambito internazionale. Questo ci chiedono i mammasantissima del controintuitivo, compresi quelli ai quali tu ti rivolgevi nel tuo lavoro. E questo faccio, anche perché, paradossalmente, mi è più facile pubblicare all’estero che in Italia. Così, sono naturalmente portato a ignorare la produzione italiana, e questo talora si rivela una perdita di tempo. Anche in economia, come in tanti altri campi, non siamo peggio degli altri.

Premessa terza
La terza premessa, forse la più importante (anche perché risponde alla domanda dell’amico Quarantotto: con chi ce l’hai?), è che sono assolutamente certo del fatto che tu non banalizzi, a tua volta, il mio pensiero collocandomi nella tua “seconda categoria”, quella dei “fautori di un’uscita dall’euro in condizioni di libera circolazione dei capitali e delle merci”. Sei sufficientemente onesto dal punto di vista intellettuale per evitare di falsificare il pensiero altrui (così spero di essere io, ma se sbaglio mi correggerete), e sufficientemente acuto dal punto di vista politico per capire che facendolo ti metteresti in una posizione scomoda. Diciamo che hai preferito non citarmi, come del resto preferisce fare (finché le sarà possibile) la desinenza in “in”.

Ricordo che una consistente parte del mio percorso di ricerca, in particolare sui modelli di crescita post-keynesiani, si pone in un filone che esprime una netta critica verso il liberoscambismo. Ma se non bastasse questa attività di ricerca, ci sarebbe l’opera di divulgazione che sto svolgendo, e nella quale ho sempre evidenziato con grande risalto il fatto che l’uscita dall’euro deve necessariamente essere accompagnata da controlli sui movimenti di capitali (esempio: qui).

Questo è del resto pacificamente ammesso ovunque per cui la domanda di Quarantotto, a ben vedere, rimane: con chi ce l’hai quando parli della seconda categoria? Esiste veramente qualcuno che pensa di poter uscire dall’euro senza controllare i movimenti di capitali? Sai che non me ne ero accorto... Accipicchia! La nostra professione è messa peggio di come credevo. Oppure stai cercando di accreditarti come unico fautore di una proposta realistica di uscita? Ma se le cose stanno così, allora ti do un aiutino: secondo me ti manca ancora un pezzetto (che nel mio pensiero però c’è, e te lo regalo). Vedi, il problema non è solo congiunturale, come tu sembri ritenere (in fondo pare che tu dica “facciamo un corralito, altrimenti i capitali scappano”... e forse, anche in questo caso, arrivi tardi!).

No, no, no: il problema è strutturale, come ho più volte affermato e motivato in questo blog. Nel mondo di domani, quando le acque si saranno calmate, occorre che i movimenti di capitali siano comunque soggetti a restrizioni, perché essi hanno mostrato di essere la forza destabilizzante del sistema economico mondiale, per i motivi che ho argomentato in Crisi finanziaria e governo dell’economia.  E il mercato unico europeo in questo c’entra poco (ma questo è uno dei puntini sulle “ì”, te ne parlo dopo). Stranamente, il Fmi (com’è noto) ormai la pensa come me (perché così la pensano i Brics, che si sono rotti le scatole di subire senza colpo ferire gli tsunami finanziari che regolarmente vengono provocati dall’asimmetria usacentrica del sistema monetario internazionale).

Del resto, e qui chiudo, il dato è semplice, e si può riassumere con un noto proverbio: col culo degli altri son tutti finocchi, ovvero: col mercato degli altri son tutti liberisti. Basta vedere come Smith descrive il meccanismo della mano invisibile. Aspetta, lo traduco qui per i non senzienti, quelli che vogliono fare la rivoluzione senza parlare la lingua degli padroni. Parlando dell’individuo, Smith dice:

“Nel preferire il sostegno dell’industria nazionale rispetto a quella estera, egli ha in mente la propria sicurezza; e nell’indirizzare questa industria in modo tale che il suo prodotto abbia il massimo valore, egli ha in mente solo il proprio guadagno personale; e in questo, come in tanti altri casi, una mano invisibile lo guida a promuovere un risultato che non rientrava nelle sue intenzioni [N.d.t.: astenersi complottisti, evidentemente!]. Ma il fatto che la sua azione non sia intenzionale non è sempre un male per la società. Nel perseguire i propri interessi egli spesso promuove l’interesse della società in modo più efficace che se realmente si proponesse di promuoverlo. Non ho mai riscontrato grandi benefici fatti da chi ostentava di commerciare nell’interesse pubblico. Questa ostentazione, in effetti, non è molto diffusa fra i mercanti, e bastano pochissime parole per dissuaderli da essa”.


(è una chicca, vero... Dite la verità, che non la conoscevate? Ma i miei studenti sì, anche se non sanno apprezzarla).

Ora è più chiaro? Smith considera assolutamente naturale che gli agenti economici promuovano politiche protezionistiche (incidentalmente, Smith insiste sul fatto che non tutte le ciambelle riescono col buco: l’agire individuale spesso, cioè non sempre, arreca benessere collettivo. E leggiamoli, i classici!). Andatelo a dire allo scialbo presidente della società Adamo Smitte! O all’economista Oscar Giannino! (titolare, credo, della Lord Brummel chair in Common Sense Economics alla Conventional Wisdom University di Chattanooga). Vedrete: loro non lo sanno (ma noi non sappiamo chi sono loro, quindi pari e patta). E perché Smith era a favore del protezionismo? Ma è semplice: perché quando lui scriveva l’Inghilterra doveva ancora affermarsi compiutamente come potenza egemone. Quando poi Ricardo (che aveva 4 anni quando queste parole furono pubblicate), quarantacinque anni dopo fa il suo bell’elogio del libero scambio (lui sì che lo fa) le cose erano un po’ cambiate: l’Inghilterra ormai era in cima all’albero dello sviluppo, ne stava cogliendo i frutti (grazie anche a un sapiente protezionismo) e quindi poteva “dare un calcio alla scala”, come dice l’amico Tony Thirlwall, per lasciare gli altri di sotto a “magnasse li torzoli”...

Ecco: non dimentichiamoci mai che il liberismo è questo: è la politica dei due pesi e due misure,
affermata da chi ha risolto i propri problemi creando problemi agli altri, e vuole mettersi al sicuro da ritorsioni. Ti ricorda la Germania? A me sì, forse perché per lunga esperienza di modellizzazione del commercio internazionale colgo immediatamente il banale fatto che una svalutazione reale competitiva è isomorfa all’imposizione di un dazio protettivo. Ma a te pare di no, almeno a giudicare da quanto ti sei arrampicato sugli specchi nell’ultimo anno per difendere l’euro. Diciamocelo...


I puntini


Ricapitolando: hai scritto cose eccellenti e sicuramente non ce l’hai con me (mentre io sì, forse un po’ ce l’ho con te, non son riuscito a nasconderlo: qui bene amat...). Ma cosa c’è, secondo me, che non va nel tuo intervento? Poche cose, pochi puntini, dei quali però occorre che discutiamo.

Vado spiccio: a me pare che la tua analisi della crisi della sinistra italiana sia sommaria e ingenerosa, pur restando relativamente timida (ma questa non è una novità). Mi spiego.

Timidezza

Parto dalla fine, dalla timidezza (che poi non sarà timidezza, ma giusto desiderio di mantenere aperte delle strade di mediazione: strade che però, perdonami, sono chiuse perché in fondo ad esse ci sono solo dei cadaveri politici... o altro materiale maleodorante...).

Come forse non ricorderai, un anno fa ho scritto sul Manifesto un articolo nel quale ritengo di aver posto il problema della sinistra italiana (e non solo) nel modo più generale, chiaro ed esplicito possibile (sono aperto a smentite). L’articolo si concludeva in questo modo: “Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad annaspare dove non si tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti fra la necessità di ossequiare la finanza, e quella di giustificare al loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta”. Ecco. Parliamo del vero problema. Il problema è che l’euro è fascista. Cosa intendo? Una cosa molto semplice: l’euro non rappresenta solo una precisa scelta politica a danno delle classi subalterne, scelta evidenziata dal fatto che, come ci ha sbattuto in faccia il giornale dei padroni dopo, dentro l’euro “non ci sono alternative: o si svaluta la moneta (ma nell'euro non si può più) o si svaluta il salario” (Vittorio Da Rold - Il Sole 24 Ore. Dice: perché non il profitto? Eh, sai, no, il profitto non si può, perché altrimenti i capitali scappano).

Vedi, una scelta fatta a danno delle classi subalterne potrebbe essere anche semplicemente una scelta reazionaria. Ma nel caso dell’euro siamo al fascismo, e perché? Perché c’è un dettaglio: quello che la voce del padrone ci ha detto dopo, i migliori economisti post-keynesiani e non ce lo avevano detto prima, ognuno all’interno della propria visione del mondo, e da tribune autorevoli e ampiamente diffuse come il Financial Times: Tony Thirlwall nel 1991, Wynne Godley nel 1992, Paul De Grauwe nel 1998, e se proprio volete, financo, persino, addirittura Alain Parguez nel 1999, con un articolo che mi è piaciuto per certe cose (lo dico a Pablo72), ma che personalmente reputo meno illuminante, seppure spesso più incisivo, di altri (e fornisco, come vedete, ampia scelta).

E allora? E allora è chiaro quello che ora tutti ci dicono, ma che prima tutti hanno negato: del fatto che l’euro avrebbe avuto dei costi i suoi autori erano ben consapevoli, ma, come oggi ci confessano, hanno deliberatamente imposto questi costi alle popolazioni europee per convincerle, sotto lo choc della crisi, ad accettare alterazioni profonde in senso autoritario ed oligarchico delle rispettive costituzioni economiche e politiche. Questo è quello che chiamo fascismo. Il fatto che stanno riscrivendo la nostra costituzione a nostro danno e senza dircelo, distogliendo o reprimendo qualsiasi forma di dissenso. Mi sbaglio?

E l’impudenza, la violenza di questo procedimento stanno aumentando esponenzialmente in questi giorni, mentre le oligarchie vedono sgretolarsi la certezza della propria impunità. Tu, sicuramente, i giornali li leggi, anche in filigrana, no? E allora avrai visto, ad esempio, De Bortoli (buon ultimo) veicolare l’idea che lo spread dipende dall’incertezza politica: insomma, italiani cari, che non vi venga in mente di votare qualcuno di sgradito ai mercati, perché sarebbe una catastrofe! E ai mercati chi è gradito si sa: il loro garzone di bottega, mandato a riscuotere i sospesi, quello che qui su goofynomics chiamiamo affettuosamente l’hidalgo de la Sierra.

Questa è la “democrazia” dell’euro. Per la sua natura intrinsecamente classista, oligarchica e paternalistica l’euro è fascista. Punto.


L’austerità non è né di destra né di sinistra


E attenzione: inutile girarci intorno con titoletti a effetto, tipo “l’austerità è di destra”. Qui, lo ammetto, un po’ parla l’invidia, perché il titolo del tuo libro è efficace (ancora una volta: onore al merito), e io proprio in questi giorni sono impegnato in un corpo a corpo con un editore per trovarne uno altrettanto valido. Ma l’invidia spiega solo una parte di quello che voglio dirti. Vedi, l’austerità, secondo me, non è né di destra né di sinistra. Mi spiego. Ricordi quando sui banchi di scuola studiavamo il modello IS/LM. Bene. L’austerità è dove metti la IS, quanto la collochi “a sinistra” (mi perdonino i non addetti ai lavori, ma ribadisco il concetto che i veri tecnici sono su Goofynomics, non a palazzo Chigi). Ora, anche un governo di “sinistra” (qualsiasi cosa ciò voglia dire) può, in determinate circostanze, decidere di spostare la IS un po’ a sinistra. Il vero problema non è dove metti la IS. Il problema è come ce la metti, cioè come decidi dove metterla: lo fai decidere a un governo espressione di un parlamento democraticamente eletto, o lo fai decidere a un comitato di oligarchi espressione di quel potere finanziario che ci ha messo nelle condizioni nelle quali siamo? Ormai è chiaro che se non rifiuti recisamente l’euro, abbracci la seconda possibilità e sei per la dittatura dello spread. Non si scappa, svicolare è inutile. In inferno nulla est redemptio. Non esiste un euro democratico, perché non può esistere. Questo è chiaro a tutti adesso, ed era chiaro a molti prima.

L’ademocraticità dell’euro, come il mio articolo chiaramente indicava, non risiede solo nelle sue conseguenze (quelle di lasciare il campo aperto alle incursioni delle destre populiste – in Francia Le Pen, in Italia, ovviamente, Berlusconi). Essa risiede soprattutto nel suo vizio genetico, nel fatto di aver imposto a colpi di disinformazione e di paternalismo una scelta politica che faceva gli interessi di pochi a danno di quelli di molti, propugnandola per scelta tecnica (contro il parere della parte migliore della professione), e appellandosi a nobili quanto vuoti ideali. Ogni dittatura ha forti richiami valoriali, ci mancherebbe. E nella dittatura dell’euro il richiamo valoriale è l’Europa, proposta da persone che confondono Pachelbel con Packard Bell e Proust con Prost. Ha senz’altro ragione Ida Magli http://goofynomics.blogspot.fr/2012/05/ida-magli-28-minuti.html: il vuoto culturale di certi padri della patria spiega una parte consistente di quello che sta succedendo. E il resto lo spiegano, come sempre, gli interessi di chi paga.

Ma allora perché mai, da quando ho affiancato alla mia attività di ricerca internazionale la mia attività di divulgazione nazionale, ti ho sempre e solo visto difendere l’euro?


Ingenerosità


Diciamocelo. Inutile sparare oggi a palle incatenate sui difensori dell’euro. Tu ne hai fatto parte fino a pochi giorni or sono, e verosimilmente ne fai ancora parte, a giudicare dagli argomenti che usi e con i quali provi a terrorizzare (o, se vogliamo vederlo con occhio benefico, a far “riflettere”) anche i più distratti fra i miei lettori. Quindi, come dire, sei sicuro di poter assumere una posizione di terzietà verso quella sinistra italiana della quale, in fondo, perdonami e correggimi se sbaglio, hai anche tu cantato la rancida litania: “meno male che l’euro c’è”?

Eh sì, perché le cose stanno così, e i miei lettori meno distratti, come avrai visto dai loro commenti, se ne sono accorti. Non preoccuparti: loro sono la parte migliore della sinistra, e quindi, siccome la natura è matrigna, sono minoritari. Però... però... sai, se li conoscessi forse un po’ li staresti a sentire, perché per quanto minoritari siano, molti son piazzati bene, meglio di me e di te...

La tua difesa dell’euro ha seguito le strade consuete: “un altro euro è possibile”, e “fuori dall’euro sarebbe la catastrofe”. Sono le strade che percorrono ancora, in patetico, irrimediabile ritardo, tante persone dalla limitata capacità di comprensione, dalle quali tu hai il merito di distinguerti oggi.

Ma queste strade sono vicoli ciechi.


Un altro euro (non) è possibile


“Un altro euro è possibile” è un vicolo cieco per un fatto banale: se si fosse voluto un altro euro, lo si sarebbe fatto fin dall’inizio. Se l’euro è quello che è, non è solo perché non c’era una volontà politica di farne un altro, ma perché c’era una evidente (e pacificamente ammessa, vedi sopra) volontà politica di fare questo euro, per arrivare dove siamo arrivati: alla dittatura del mercato.

Entriamo nei dettagli. Degli “altri euro” basati su “più Europa” ho parlato diffusamente nel blog, e anche su Micromega. Il tuo “altro euro” si basa, invece, sulla proposta di standard retributivo europeo, pubblicata nel 2011 e ripresa, o espressa in modo indipendente, da altri autori, come l’amico di G.Z., Hein (apro e chiudo una parentesi: che un tedesco voglia salvare l'euro non è strano... e ora Gennaro mi mazzola!).

Questa proposta è chiaramente inattuabile, per il semplice motivo che a chi ha imposto l’euro (il core) non interessa attuarla (come non gli interessano gli Eurobond, come non gli interessano la bceugualeallafed, e altri mantra che si riducano a forme di socializzazione delle perdite).

Forse non è chiaro: vale sempre la solita relazione: S-I=X-M. Ovviamente, banalmente, contabilmente il surplus commerciale tedesco è correlato a una repressione della spesa interna. Tu dici che “limitarsi ad affermare che i paesi periferici spendono “troppo” mentre la Germania spende “troppo poco” è una prassi diffusa che però rasenta la tautologia” e io sono pienamente d’accordo con te, sfondi una finestra aperta: ne ho le virgolette piene dei feticisti della ruota alla Wray, di quelli che trasformano in un oggetto mistico di venerazione le identità di contabilità nazionale (il che li porta, fra l’altro, a profferire spesso delle lievi imprecisioni, ma di questo parlerò con lui, e non è una promessa). Questi feticisti della ruota sono molesti quanto e forse più dei feticisti del motore, i funamboli del controintuitivo. Ma credo che tu sia d’accordo con me che usciamo dalla tautologia se io ti dico che evidentemente il successo commerciale tedesco è causato dalla politica di deflazione salariale (salari reali diminuiti di più del 6% in pochi anni) indotta dalla riforma Hartz, che ha ovviamente represso i consumi interni (non essendo americani, i tedeschi non hanno speso i soldi che non avevano) nel momento stesso in cui, evidentemente, determinava un miglioramento della competitività di prezzo dei prodotti tedeschi.

Il saldo commerciale tedesco non è migliorato solo per un effetto prezzo (prezzi meno alti uguale più esportazioni), ma anche per un effetto reddito (sì, proprio quell’effetto che, stranamente, tutti i “keynesiani” italiani mi pare dimentichino: eppure nei libri di testo se ne parla: meno salari uguale meno consumi uguale meno importazioni). Sarebbe bastato che i salari reali tedeschi rimanessero stazionari, come quelli italiani, per trovarci oggi una situazione ben diversa. Ma perché non sono rimasti stazionari e invece sono scesi? Ma è semplice: perché i tedeschi ci volevano fottere. E ci sono riusciti, finanziando, fra l’altro, le loro riforme strutturali con  un massiccio ricorso alla spesa pubblica, per il sostegno sia delle imprese (Quarantotto, che sa, su questo insiste molto, e giustamente) che dei redditi dei lavoratori, come ho illustrato qui. Il loro dumping salariale è stato reso possibile dalla violazione del Patto di stabilità, insomma. Chiaro, no?

Ora ci dicono che loro sono virtuosi e che dobbiamo fare come loro. Cioè violare il Patto di stabilità, chiederà Pierino? No, Pierino, noi (noi) dobbiamo essere virtuosi....

Ma se il loro scopo non fosse stato quello di fotterci, perché, di fare le riforme, non ce l’hanno proposto mentre loro si accingevano a farle? Se lo scopo di queste riforme è vincere insieme la guerra santa contro la Cina (una delle due ossessioni degli ortotteri, l’altra essendo la castacoruzzzzzzionebrutto), perché, chiedo, perché i virtuosi alamanni non hanno voluto che le decidessimo insieme? Questo nessuno se lo chiede, poerché la risposta a questa domanda che nessuno si pone (i Giannino, i Cruciani, gli Alesina, i Polito, i Gramellini) è tanto semplice quanto sgradita agli occhi degli errand boys e dei loro Castle hacks: perché chi picchia per primo picchia due volte (soprattutto se  l’avversario è bendato), e loro volevano fotterci. Bene: a queste persone che evidentemente volevano fotterci, ora tu vai a chiedere di aderire a uno standard retributivo? Suvvia... siamo seri!

Del resto, non so se noti il paradosso.

Il paradosso consiste nel fatto che noi dovremmo costringere i custodi europei dell’ortodossia e del libero scambio a fare quello che naturalmente accadrebbe (rivalutare in termini reali) se essi lasciassero liberamente agire le forze di mercato, che invece reprimono. Perché col culo degli altri son tutti (libero)scambisti. Chiaro, no? Qui ovviamente non ci può essere buona fede. E allora, anche senza voler considerare il fatto che ormai è troppo tardi per aspettarsi un riequilibrio in tempi decenti da una misura simile, come spiega De Grauwe, rimane il dato politico che i tedeschi di una roba simile non vogliono saperne mezza. Inutile rifugiarsi in corner, come fai tu nel tuo lavoro, augurandoti “che il contributo dei giuristi possa consentire in seguito di approfondire gli aspetti più specificamente normativi del problema”. Eh sì, ci sarebbe da auspicarlo, in effetti. Solo che il problema non è tecnico, è politico. Ci vai tu dalla Volkswagen a dirgli “adesso basta precariato, strutturate tutti e pagateli di più”? Daje a ride...

Quindi un’altra Europa, dentro l’euro, non è possibile. In inferno (mi ripeto) nulla est redemptio.


Fuori dell’euro (non) sarebbe la catastrofe


Tu non lo dici così, sei meglio, molto meglio di così, molto meglio di quei patetici incompetenti che tu classifichi fra i difensori dell’euro “senza se (o forse senza sé) e senza ma”. Però, dai, ammettilo, qualcosa del genere lo dici, con varie sfumature e da tempo. Chissà se hai cambiato idea. Vediamo le nuances della tua tavolozza.

Sfumatura numero uno:
se uscissimo svaluteremmo e questo darebbe luogo a una svendita di aziende italiane, poiché di fatto ci troveremmo a fare uno sconto ai capitalisti esteri. Ohibò! A me pare proprio che i conti non tornino. Intanto, come ho ampiamente argomentato (grazie al contributo del prof. Santarelli) in questo post, lo sconto lo abbiamo già fatto restando dentro questo euro e mettendoci quindi in condizione di subire un attacco speculativo che ha sbriciolato le quotazioni delle nostre imprese, molte delle quali sono andate o stanno andando in mani estere, con tutto quel che ne consegue (trasferimento di brand e tecnologie all’estero, perdite di posti di lavoro in Italia, ecc. ecc.). E il problema non riguarda, ovviamente, solo le imprese quotate, ma il fatto che la redditività di tutte le imprese italiane è messa a rischio dalle vicende legate alla crisi finanziaria, il che le rende facilmente aggredibili. Ti faccio poi grazia di quel piccolo problema aritmetico per cui il 20% del 20% in realtà è il 4%. Ma, soprattutto, questa visione fosca è incompatibile con la tua (e mia) giusta osservazione che occorrerebbe, evidentemente, ripristinare prima dell’uscita dei controlli sui movimenti di capitali. Altro che eliminare l’art. 18 per favorirli! Gli italiani, fino a prima dell’euro, risparmiavano abbastanza per poter finanziare le proprie imprese senza ricorrere a capitali esteri. L’euro ha ridotto i redditi delle famiglie, fatto esplodere il loro indebitamento, e aumentato la necessità di ricorrere ai capitali esteri, come ho spiegato qui. Nel mondo dopo l’euro l’Italia non avrà tutto questo bisogno di capitali esteri, come non ne aveva nel mondo prima dell’euro. Perché le persone che moralisticamente si scagliano contro il debito (pubblico e non solo) dalle colonne dei prestigiosi Goebbels nazionali, poi però vedono nell’afflusso di capitali (cioè nel fatto che si contraggano debiti con l’estero) un fatto positivo, una soluzione ai nostri problemi? Se, come credono loro, il mondo è dominato dalla razionalità, la risposta è una sola: perché sono prezzolati dai creditori esteri. Devo dirglielo solo io, o mi dai una mano anche tu?

Quindi il problema “se usciamo svendiamo le aziende” non esiste: esiste invece il problema “ se restiamo svendiamo le aziende”, come in questo blog mille volte abbiamo documentato e come ormai ognuno vede.

Sfumatura numero due: la svalutazione che danneggia la vedova, l’orfano e il proletario. Oh Signore! Oh Signore mio! Ma come si fa? Allora: io di questo ho parlato diffusamente in questo post, ma veramente credo che repetita juvant, se perfino Massimo ci casca, e pure Sergio...

Credo che per ragionare in termini corretti su questo argomento sia utile guardarsi gli indici del salario reale e della produttività media del lavoro dal 1970 ai giorni nostri, riportati nella Fig. 7 di quel post, che qui riproduco per comodità.



Andiamo al punto: certo, sì, nel 1992 in effetti una flessione dei salari reali c’è stata, e, fra l’altro, non può essere dovuta a una accelerazione dell’inflazione, visto che essa, come è ampiamente noto a chiunque non sia un terrorista di regime, fra 1992 e 1993 diminuì (cioè scese, calò, si ridusse, non so: troviamo altre parole, se volete, ma il concetto è questo). Per essere esatti, nel quattro anni dal 1992 al 1996 i salari reali scesero del 4% (a spanna, dell’1% in media all’anno), e certo non sarà stata una passeggiata, considerando che nel frattempo l’inflazione calava. (Apro e chiudo una parentesi: io nel 1992 c’ero. Non mi sono sentito più povero. C’ero anche nel 2001. E mi sono subito sentito più povero. E voi?).

Ma... siamo sicuri che il vero problema degli ultimi quaranta anni sia stato quello?

Cosa osserviamo se guardiamo la figura senza lente d’ingrandimento, ma prendendo un po’ di distanza? C’è un unico, evidente, macroscopico cambiamento di struttura nell’andamento dei salari reali, e coincide con l’ingresso nella zona del marco allargata (1979, entrata nello SME), quando la crescita dei salari reali si arresta. E c’è un unico, evidente, macroscopico cambiamento di struttura nell’andamento della produttività, e coincide con il rientro nella banda ristretta dello SME (24 novembre del 1996) con una parità sostanzialmente vicina a quello che poi sarebbe stato il cambio “irrevocabile” (quanto irrevocabile lo scopriremo presto). Nel 1996 la crescita della produttività si arresta, e i motivi li abbiamo discussi qui.

E allora, Emiliano, scusa, gli etilisti romani mi aspettano all’osteria e io quindi sono già in modalità romanesca: ma de che cazzo stamo a parla’? Fammi capire: tu nel naufragio del Titanic ti preoccupi del fatto che il golf si possa restringere con l’acqua salmastra? (perdona la provocazione, sono una bestia e non riesco a nasconderlo: io, comunque, su suggerimento della mia consulente d’immagine rockapasso, ho tutti golfetti abbastanza ampi, a prova di naufragio...). Perché sì, guardando bene, con la lente d’ingrandimento, in effetti, certo, dopo il 1992 il salario reale un po’ scende, va da sé, a guardar bene, per carità... Ma noi non siamo dei filatelici! Stacchiamoci dalla lente d’ingrandimento, non guardiamo la dentellatura, guardiamo il trend. Noi siamo delle persone che devono indicare a questo paese dei percorsi sostenibili nel medio-lungo periodo (dopo aver salvato le terga nel breve, va da sé).. E allora, perdonami, forse il trend, nella figura che ti ho prodotto, è più eloquente del ciclo: quello che ha massacrato i salariati italiani non è stato uscire nel 1992 dallo SME: è stato entrarci nel 1979 (e la Cina nel 1979 contava per meno del 2% del Pil mondiale: nun ce provate co' mme...).

Inutile girarci intorno, anche qui: noi dobbiamo rifiutare un modello di sviluppo che ha prima ucciso la crescita dei salari reali, e poi, dopo, a valle, anche quella della produttività, in nome di una scelta distributiva chiaramente a sostegno delle rendite finanziarie (divorzio Tesoro/Banca d’Italia) propagandata con richiami ingannevoli a una presunta modernità e a un presunto afflato europeista. Se hai altri dati, se ritieni che questi siano inappropriati, parliamone: è per questo che ti scrivo. Magari altri dati mi daranno torto. Strano però che siano proprio i dati del megafono del Washington consensus a darmi ragione, no? Di questo, di questo, non di altro, stiamo parlando.


Le merlettaie


Tu dividi gli intellettuali di sinistra in tre, ponendoti nella terza categoria (e ponendo me non si sa dove, perché come la discussione che ho svolto dovrebbe dimostrare, io non rientro in nessuna delle tre). Facciamo le cose semplici: dividiamoli in due. Da una parte ci sono le merlettaie, quelle che ricamano merletti sui costi dell’uscita, e che sul loro tombolo, con l’uncinetto, architettano una diversa Europa che nessuno vuole: né i padroni del Centro, né gli schiavi (perché questo ormai siamo) della periferia. E dall’altra ci sto io. Delirio di onnipotenza? No: disperazione. Io sono disperato. Aprite gli occhi. Se anche i costi economici ci fossero, come tu sostieni (e non ci sono, o non così salati, come io argomento), qui bisogna capire di cosa stiamo parlando. Stiamo parlando della nostra libertà e della nostra Costituzione: di cose per le quali i nostri nonni (o i nostri padri, per i più anziani) non hanno esitato a mettere in gioco non le proprie fottute tredicesime, ma le proprie vite. Senza contare che, come è ormai evidente, le tredicesime  e anche le vite (come tu, te ne do atto, vedi bene) sono più a rischio dentro l’euro che non fuori, perché l’errand boy sta lavorando a pieno regime to collect the bill, e siccome ha fretta, tira la corda senza preoccuparsi troppo della sua tenuta.

Allora, che volemo fa’?

Io me ne vado all’osteria a incontrare gli etilisti romani. Stasera l’economia gira con noi. Tu regolati: puoi ignorarmi, mandarmi al diavolo, argomentare... quello che credi. Chi sono io per darti un consiglio?

Nessuno, lo so.

Lo stesso vale, credo, per i miei lettori (ma non ne sono sicuro, non li conosco tutti, sono fra i 6000 e i 10000 al giorno...).

Tu hai certamente una strategia politica, stai tessendo il tuo merletto. Speriamo non si strappi sulle barricate. Perché, te lo dico con la mia consueta arroganza (della quale mi scuso) ma anche col cuore in mano: tu hai, come e più di tanti altri, la capacità di capire quello che sta per succedere, e sono sicuro che vedi bene a quale futuro di violenza ci condanna l’attuale sistema. E allora, forse, tu che sei così visibile, prendi anche tu una posizione chiara, veramente chiara. Qui non è in gioco il nostro futuro economico: qui è in gioco la nostra libertà. Certo, lo so, lo capisco, è difficile esprimersi, e non per pavidità, come potrebbe pensare qualche mentecatto. Il problema è un altro: il problema è quello di tentare fino all’ultimo di trovare una mediazione politica. Capisco che per te, che vieni da un certo percorso, che hai una certa storia, una certa visibilità, sei inserito in un certo tessuto, è più difficile. Capisco anche che è facile per me fare il castigamatti che dice verità a raffica (posso giustificarmi dimostrando di aver cominciato quindici anni or sono) e che se ne fotte di mediare ma punta solo a sfogare la sua cieca rabbia, il suo ottuso livore contro le merde che hanno distrutto il paese che ama. Però, vedi, se io, certo, dovrei capire che ormai ho assunto un ruolo tale che mi impone di cercare e di proporre una mediazione politica, d’altra parte una cosa penso di averla capita: il PD è morto, si è suicidato, annaspa nella piscina con l’acqua alta e le gambe ingessate da Fiscal compact. E i suoi servi di scena, i sellini (non quelli delle biciclette) non stanno molto meglio. Per non parlare di ortotteri e  valoriali, invischiati nel messaggio castacoruzzionespesapubblicabrutto, che è l'ovvio veicolo demagogico di una rivincita neoliberista da condurre a colpi di riduzione del peso dello Stato nell'economia (in nome di ottimi motivi, s'intende, per carità: chi non vorrebbe chiudere un ospedale, pur di ridurre il giro di mazzette? Tanto pensiamo tutti di non averne mai bisogno, dell'ospedale, giusto? Mentre della mazzetta magari sì... Del resto, c'è chi per far dispetto alla moglie all'ospedale ci finisce...).

La conclusione, allora, qual è? Be’, penso che la conclusione sia che forse, invece di dire mezze verità per sperare di resuscitare questi zombie, vale la pena di dire tutta la verità e provare in qualche modo a creare qualcosa di nuovo. Magari non ci si riesce (come non si riesce a rianimare gli zombie), ma almeno si salva l'onore. Concetto ottocentesco, me ne rendo conto. La Rangeri rabbrividirà. Vedi alla voce.

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