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Vi spiego i piani di chi vuole più Europa

di Fabrizio Tringali

Fabrizio Tringali, autore insieme a Marino Badiale di "La trappola dell'euro", con la prefazione di Alberto Bagnai, spiega perché è stata perseguita la moneta unica, in Europa, nonostante gli economisti sapessero fin dall'inizio che sarebbe stata una catastrofe

Buongiorno a tutti. Sono Fabrizio Tringali e sono l'autore di un libro uscito da poco sull'euro e sull'Unione Europea; il titolo del libro è “La trappola dell'Euro. Le cause, la crisi, le conseguenze e la via d'uscita”, scritto insieme a Marino Badiale che insegna matematica all'Università di Torino.

 Sono molto grato a Claudio Messora per avermi dato la possibilità di raccontarvi qualcosa, rispetto alla crisi che stiamo vivendo, che spero possa esservi utile, affrontando anche qualche aspetto che magari finora non è stato del tutto affrontato. In effetti Marino Badiale ed io iniziamo a parlare della crisi e soprattutto del fatto che le cause della crisi vanno ricercate prevalentemente nell'euro già dai primi mesi del 2011, quando iniziammo a discutere di queste cose pubblicando un breve saggio all'epoca e venivamo abbastanza guardati come matti, ci dicevano che la crisi è dovuta al debito pubblico, la crisi è dovuta a Berlusconi, la crisi è dovuta alla corruzione, alla mafia, la crisi è dovuta a questo paese che non è capace di stare al pari con gli altri paesi dell'Europa migliori di noi. Ecco, tutte queste cose, che possono essere in parte vere, in parte non lo sono affatto e in parte magari sono, per così dire, delle aggravanti rispetto ad una situazione di crisi che però non è assolutamente dovuta a questo ma è dovuta appunto alla moneta unica. E questo, finalmente, devo dire che nel dibattito pubblico sta emergendo ormai, sta emergendo da tutte le parti, anche grazie al lavoro che sta facendo Claudio Messora, ma anche grazie a una persona come Alberto Bagnai, per esempio, che con un bellissimo blog ha spiegato moltissimi degli aspetti, delle criticità dell'euro, tra l'altro Alberto ha scritto anche la prefazione al libro che io e Marino abbiamo scritto.

Di conseguenza ormai è abbastanza chiaro all'opinione pubblica che il primo motivo della crisi è proprio il fatto che la moneta unica ha unito delle economie molto diverse tra di loro e in questo modo le economie più forti, come è appunto quella della Germania, hanno finito per schiacciare quelle più deboli.

 Una delle cose importanti, però, che non si dice ancora spesso nel dibattito pubblico è che le criticità di un'unione monetaria tra i paesi europei erano assolutamente note già trent'anni fa, non c'era nulla di ignoto. Se rispetto alla crisi, diciamo così, iniziata nel 2007 negli Stati Uniti e nel 2008 proseguita, effettivamente si può dire che era stata ben poco prevista, per quanto riguarda l'unione monetaria e l'euro la crisi era stata ampiamente prevista dagli economisti; così restituiamo anche un po' di dignità alla professione e alla scientificità della scienza economica, appunto, e delle tante persone capaci che di queste cose hanno parlato. Si iniziò a discutere di un sistema a cambi fissi in Europa già verso la fine degli anni '70, perché finito il cosiddetto regime di Breton Woods e quindi la parità dei cambi rispetto al dollaro e la convertibilità del dollaro con l'oro, in Europa si cominciò a discutere appunto di un sistema che irrigidisse i cambi. Questo per un motivo semplice: in un'economia aperta, in un'economia globalizzata, dove vi è la circolazione libera delle merci, dei capitali e dei servizi, chi ha il capitale desidera la rigidità dei cambi proprio per poter investire là dove conviene di più, senza rischiare di perdere proprio a causa della fluttuazione del cambio. Ebbene, si iniziò a discutere, si iniziò ad implementare anche un primo sistema che si chiamò “serpente monetario”, che ebbe poco successo, e poi si iniziò a parlare di un sistema più forte, più rigido: il Sistema Monetario Europeo (SME). Si iniziò a discutere quindi dell'adesione dell'Italia a questo sistema.

 È interessante perché all'epoca le forze di opposizione storica, come il PCI, erano sostanzialmente in maggioranza, cioè il governo che discusse dell'adesione allo SME nel 1978 era un monocolore DC, guidato da Andreotti, con l'appoggio esterno del PCI. Quindi ci fu un ampio dibattito, rispetto alle possibilità di aderire a questo sistema, dei pro e dei contro all'adesione dell'Italia. Emersero dai dibattiti parlamentari molte cose interessanti. Ve ne cito alcune specificatamente, così ve le potete andare a cercare, perché il PCI dell'epoca cercò, come dire, di mettere dei paletti rispetto alla costruzione del sistema monetario europeo, che facessero sì che i rischi per l'Italia diminuissero sostanzialmente. Questi rischi erano appunto quelli dovuti al fatto che un paese meno competitivo come l'Italia, con un'inflazione strutturalmente più alta rispetto a quella della Germania, con un cambio fisso non avrebbe più potuto recuperare competitività, quando serviva, svalutando la moneta e quindi avrebbe dovuto inevitabilmente trasferire i necessari aggiustamenti nell'economia interna. Come? Svalutando i salari, cioè andando ad attaccare i salari, i guadagni delle persone, e facendo in questo modo contenere i consumi e quindi contenere l'inflazione. È esattamente quello che sta accadendo adesso. Si sapeva perfettamente che lì si andava a parare.

 All'inizio della discussione sullo SME furono poste quindi una serie di condizioni per l'adesione dell'Italia. Queste condizioni furono anche fatte proprie dal governo DC dell'epoca. Si può leggere un interessante discorso del ministro dell'epoca, che si chiama Pandolfi, il 10 ottobre del 1978 alla Camera dei Deputati. Sostanzialmente cosa viene detto? Che la posizione dell'Italia sarà quella di chiedere di far precedere l'instaurazione della fissità dei cambi con un regime di transizione meno rigido e poi, soprattutto, di accompagnare la rigidità dei cambi con regole capaci – cito testualmente - “di stabilire, nel caso di deviazione degli andamenti di cambio, un'equilibrata distribuzione degli oneri di aggiustamento tra paesi in disavanzo esterno e paesi in avanzo”. È abbastanza chiaro, credo. Cioè, in un'unione monetaria il fatto che ci siano paesi strutturalmente in surplus, come appunto la Germania, e paesi strutturalmente in deficit, sono due aspetti entrambi di criticità; non ci sono da una parte i virtuosi e dall'altra parte i cattivi, sono delle criticità di un sistema. Quindi si chiedeva, giustamente, un sistema che distribuisse in modo equo i costi degli aggiustamenti. Badate, non è lontana dall'idea di Keynes del dopoguerra, rispetto a un sistema di cambi mondiali addirittura, cosa che non venne mai adottata e cosa che non viene adottata nemmeno in Europa. Tanto che il successivo vertice europeo del dicembre 1978, che si svolge a Bruxelles, sancisce la sconfitta della posizione italiana. Francia e soprattutto Germania non accettano meccanismi di aggiustamento automatico e condiviso degli squilibri tra l'economia e si limitano ad accordare all'Italia una banda di oscillazione più ampia rispetto a quella prevista dal sistema stesso.

 Lo SME era una cosa meno rigida dell'euro. All'interno dello SME i cambi potevano fluttuare del 2,5% - che non era pochissimo – e l'Italia addirittura aveva una banda, invece, del 6%, quindi più ampia. Nonostante questo, però, la rigidità dello SME porterà poi l'Italia alla crisi del 1992, quindi alla necessità di abbandonare il sistema monetario. Inizia così ad essere chiaro già all'epoca che i paesi forti dell'Europa non vogliono assolutamente meccanismi di solidarietà e di riequilibrio delle economie perché questo consente a loro di gestire meglio la loro condizione di forza e sostanzialmente di costringere i paesi più deboli ad adeguarsi, cioè ad adeguare le loro politiche economiche. Tanto è vero che la cosiddetta virtù della Germania in realtà non è altro che la capacità della Germania stessa di mantenere bassa l'inflazione. Come? Contenendo i salari, facendo una politica non espansiva, una politica che in qualche modo deprime la domanda interna. E questo è esattamente quello che poi è avvenuto nel periodo successivo all'introduzione dell'euro. Anche questa è una cosa che finalmente possiamo sfatare. Tutti pensano che in Germania si sta molto meglio che in Italia, che tutti guadagnano più degli italiani e non è affatto vero. La forza e la competitività della Germania è stata costruita sul contenimento dei salari e la Germania, non a caso, è uno dei paesi europei meno sindacalizzati d'Europa. Negli anni successivi all'euro in Germania sono state realizzate le famose riforme, che sono quelle che stanno cercando di imporre anche qui, che sono quelle che hanno flessibilizzato ulteriormente il lavoro, che sono quelle che hanno creato i mini-job e un terzo dei lavoratori tedeschi oggi guadagna 400 euro al mese e sono quelli che hanno diminuito le garanzie a sostegno dei lavoratori e dei contratti nazionali di lavoro, e sono queste le cose che vogliono inserire anche nel nostro paese.

 Perché poi si è effettivamente realizzata l'unione monetaria prima con lo SME e poi addirittura con l'euro, nonostante appunto fosse chiaro, ad un certo punto, che i paesi deboli ci perdevano? Per i paesi forti è chiaro, perché gli conveniva. Ma nei paesi deboli alla fine i ceti dirigenti hanno capito che il vincolo esterno dato dall'appartenenza all'euro, alla moneta unica, e poi anche all'Unione Europa, di fatto consentiva loro di fare quello che altrimenti non sarebbero riusciti a fare. Badate, l'introduzione della flessibilità, così come è stata fatta in Italia, fino ad arrivare oggi alla messa in discussione dei contratti nazionali di lavoro e quant'altro, non si sarebbero potuti realizzare senza che il vincolo esterno del “ce lo chiede l'Europa” costringesse sostanzialmente tutti a considerare quelle scelte come inevitabili. Bene, in realtà appunto quelle scelte inevitabili non sono e per evitarle la strada è quella dell'abbandono della moneta unica e anche dei vincoli europei.

 Oggi nel dibattito pubblico si discute molto di questo, proprio perché abbiamo detto che le criticità dell'euro ormai sono assolutamente di dominio pubblico, tutti le conosco e tutti le discutono. Addirittura su L'Unità recentemente ho letto che il problema sostanzialmente è la differenza di competitività e di inflazione tra i paesi europei e la politica non espansiva della Germania. La risposta che normalmente si dà a questa problematica è il cosiddetto “più Europa”. Perché si dà questo tipo di risposta? Questo è importante capirlo e lo affrontiamo nel nostro libro citando un interessante manuale di economia, anche questo scritto negli anni '90, quindi prima dell'euro, a cavallo tra lo SME e l'euro – per ribadire quanto fosse chiaro tutto questo – che spiegava molto bene come una potenziale, all'epoca, unione monetaria europea avrebbe inevitabilmente inasprito gli squilibri tra le economie, cosa che è puntualmente avvenuta, e che l'unico modo per risolvere questo problema era appunto quello di avere dei meccanismi di aggiustamento che per essere realizzati necessitavano di una serie di cose ovvie e cioè un governo unico europeo che decidesse le politiche economiche degli Stati e fosse dotato delle risorse economiche necessarie per avviare i meccanismi di riequilibrio. È esattamente quello che stanno cercando di realizzare. Il “più Europa” non è altro che l'idea, sostanzialmente, di spogliare gli stati nazionali della loro sovranità, demandare la sovranità nelle scelte di politica economica e sociale. Quindi sono le cose di cui si sta parlando. Scelte di politica economica vuol dire la finanziaria, vuol dire i contatti di lavoro, vuol dire tutte le politiche sociali, di investimento, eccetera, demandarle integralmente all'Unione Europea e questo farebbe sì, probabilmente, che la Germania a quel punto sarebbe in grado di accettare dei meccanismi di riequilibrio. Molto probabilmente questo è vero, è una cosa che sostiene per esempio Gerhard Schroeder in Germania e che viene sostenuta da molte parti dell'opinione pubblica tedesca per un motivo abbastanza intuitivo: nel momento in cui la sovranità fosse demandata agli organismi europei è chiaro che comanda di più il paese più forte. Quindi la Germania a quel punto potrebbe facilmente riuscire a realizzare anche nei paesi esterni ad essa le stesse politiche che ha realizzato al suo interno. Una volta fatto questo, magari a quel punto potrebbe anche concedere qualcosa dal punto di vista del riequilibrio delle risorse all'interno delle economie.

 Qual è il problema di tutto questo? Che chi propone uno scenario di questo tipo dice, ovviamente, che se si crea un super governo europeo che decide tutto questo, deve essere un governo democratico, naturalmente, e quindi bisogna democratizzare l'Unione Europea. Questo è un punto assolutamente fondamentale. Non esiste nessuna possibilità di democratizzare l'Unione Europea, non esiste nessuna possibilità di costruire un governo democratico europeo. Il motivo, in sintesi, è molto semplice, perché non esiste un popolo europeo. A meno che non si creda che democratizzare l'unione europea voglia dire che gli Stati nazionali eleggono un po' di parlamentari in un Parlamento europeo – cosa che avviene già, peraltro – e che poi questo Parlamento costruisce un esecutivo, un governo – cosa che oggi non avviene perché l'esecutivo è costruito direttamente dagli Stati, ma domani potrebbe avvenire – a meno che non si pensi che la democrazia sia tutto lì, è abbastanza chiaro che non c'è nessuna possibilità di democratizzare l'Unione Europea. Dalle rivoluzioni francesi in poi l'idea di democrazia rappresentativa – lasciamo stare l'idea di democrazia partecipativa, che a me piace molto di più, ma non è questa la discussione adesso – si fonda sul fatto che un qualunque governo per essere qualificato come democratico, non solo deve rispondere a un Parlamento, cosa ovvia, ma deve rispondere a un'opinione pubblica e deve rispondere alle forze sociali che i cittadini liberamente costruiscono. Ed è quello che avviene esattamente in tutti gli Stati nazionali. Ogni governo si confronta e con l'opinione pubblica e con associazioni, sindacati, gruppi di ogni tipo, quelli che i cittadini costruiscono. Tutto questo non esiste a livello europeo, esiste solo a livello nazionale perché i cittadini sono divisi, i popoli europei sono divisi tra di loro.

 Per poter creare questa opinione pubblica e queste forze sociali sono necessarie almeno tre condizioni. La prima delle condizioni è una lingua comune, per motivi abbastanza evidenti. Una seconda condizione è una significativa mescolanza delle popolazioni, cioè ci deve essere un periodo in cui effettivamente in vari popoli smettono pian piano di essere tanti popoli e diventano uno, perché si capiscano hanno una lingua comune e perché effettivamente tra di loro si mescolano, e non è solo un problema della lingua, c'è il problema degli usi, delle tradizioni, delle mentalità che piano piano possono confluire verso un'unità, ma ci vuole del tempo, molto tempo perché questo avvenga. Il terzo elemento è un sistema di media, di informazione, di circolazione delle informazioni complessivo, generale e accessibile, che consenta appunto la formazione di un'opinione pubblica. È abbastanza evidente che tutto questo è presente in varie forme negli Stati nazionali ed è completamente assente a livello europeo. Di conseguenza la formazione di un governo europeo non sarebbe nulla di democratico. Cioè al sogno ipotizzato da qualcuno di una grande Europa democratica, unita e pacifica e solidale, si contrappone la dura realtà, il terribile incubo della maggiore unione politica all'interno dell'Unione Europea, che non può che trasformarsi, per questi motivi, in un super Stato con poteri semi-assoluti, perché a questo punto potrebbero decidere quasi tutto, e rispetto al quale non vi è possibilità di un confronto con le forze sociali che nascono tra i cittadini e nella società.

 A questo punto ci potremmo chiedere: ma se rappresenta veramente un incubo un'Europa unita e costruita così come ho accennato prima, perché la si vuole realizzare? La risposta è che l'incubo non è per tutti. Una situazione di questo tipo rappresenterebbe un incubo per la maggioranza delle popolazioni e cioè per quanti vedrebbero, come avviene adesso, il progressivo impoverimento, la perdita delle conquiste. Ma i margini di profitto, soprattutto per chi gestisce grandi capitali, per chi gestisce le grandi industri, sicuramente si amplierebbero ulteriormente. Ricordiamoci che la fissità dei cambi, come dicevo all'inizio, è proprio figlia della globalizzazione. Uno degli elementi interessanti di quello che sta accadendo è che ogni discorso ne apre successivi. Quindi se noi capiamo i rischi della fissità dei cambi dove ci hanno portato, arriviamo al discorso della globalizzazione, proprio perché la fissità dei cambi è ciò che è desiderato da chi detiene i principali capitali, che ha bisogno di norme e di misure che consentano di aumentare il più possibile i margini di profitto. Quindi un sistema a cambi fissi che consenta di diminuire il rischio di cambio e in secondo luogo di aprire una condizione all'interno degli Stati che scatena una guerra al ribasso delle condizioni di lavoro, è esattamente quello che serve alle classi dominanti per aumentare i margini di profitto. Cioè noi oggi siamo di fronte a una condizione per cui alla FIAT devi accettare il piano Marchionne e quindi devi accettare condizioni di lavoro impensabili fino a poco tempo fa, con la minaccia che altrimenti la produzione viene spostata in Serbia. In Serbia avviene la stessa cosa, con la minaccia che altrimenti la produzione viene spostata in Cina o da qualche altra parte. Cioè con la globalizzazione c'è sempre un paese dove si può andare a produrre e a pagare di meno, ad avere meno costi e maggiori margini di profitto. Ma questo è possibile, appunto, se i capitali possono circolare liberamente e se non c'è il rischio di cambio. Sono questi due gli elementi fondamentali che appunto vengono ricercati proprio perché i più potenti in questo modo aumentano notevolmente i loro margini di profitto.

 Sarebbe interessante discutere che effettivamente questo non vale per tutti. Se noi andiamo a vedere, per esempio, la condizione di piccoli o medi produttori, molto probabilmente questi pian piano si sposteranno su posizioni contrarie all'euro e in parte sta già avvenendo. In parte la stessa posizione della Lega, che in qualche modo era comunque critica, rispecchiava questo. Se andiamo a vedere all'interno di Confindustria vediamo che ci sono anime diverse, c'è un'anima più vicina a Montezemolo e a Marchionne, che è assolutamente pro euro, e l'anima che fa capo, invece, all'attuale leader di Confindustria che è più critica e che mira di più a salvaguardare anche la produzione delle realtà medie che probabilmente si troverebbero meglio in una condizione di minor libertà di circolazione di merci e capitali, perché una delle conseguenze ovvie di questa situazione è che le imprese italiane si svalutano notevolmente e vengono aggredite dall'esterno anche all'interno dell'Unione Europea e dello stesso euro, cioè dalla Germania. La Germania si sta comprando le principali imprese italiane. Qui si aprono quindi anche delle contraddizioni all'interno degli stessi ceti dominanti, delle stesse oligarchie, al vertice delle quali però abbiamo appunto coloro che assolutamente hanno tutto da guadagnare rispetto ad una condizione che per noi è effettivamente da incubo. Bisogna ammettere che sono stati bravi, perché hanno condito di ideologia la costruzione dell'Unione Europea con un'efficacia estremamente alta, notevole. Dunque chiunque di noi poi cerchi di riportare il piano della discussione e del confronto sulla razionalità e quindi sui costi e sui benefici dell'appartenenza all'euro, dell'appartenenza all'Unione Europea, si trova spesso di fronte a una barriera ideologica.

 Nel libro abbiamo trattato le principali obiezioni alla proposta di uscita dall'euro e dall'Unione Europea, le abbiamo confutate e le abbiamo divise e categorizzate in due gruppi: quelle prevalentemente economiche e quelle prevalentemente politiche. Fra quelle economiche abbiamo appunto l'obiezione di chi ritiene che in caso di uscita dall'euro avremmo una ipersvalutazione, avremmo una iperinflazione, non potremmo più comprare le materie prime, diventeremmo assolutamente in capaci di sopravvivere nel mondo con la nostra “liretta”. Sappiamo innanzitutto che non esiste nessuna forma di correlazione diretta tra la svalutazione e l'inflazione, quindi è noto ed è ovvio che una volta usciti dall'euro la moneta nazionale sarà svalutata rispetto alla moneta precedente, cioè all'euro, ma per esempio Alberto Bagnai ci dice che l'entità di questa svalutazione dovrebbe più o meno essere correlata alla perdita di competitività che si è avuta rispetto alla differenza dei tassi di inflazione tra la Germania e l'Italia nel periodo dell'euro. In sintesi vuol dire che questa svalutazione dovrebbe essere intorno al 20%. Quando uscimmo dallo SME, nei periodi successivi la svalutazione fu molto maggiore, fu una svalutazione immediata del 7% e poi nel corso del tempo si arrivò a un'entità ben maggiore. L'inflazione in quel periodo di quanto aumentò? Di niente, diminuì. Si passò da un'inflazione intorno al 5% del 1992, quando uscimmo dallo SME, per arrivare negli anni successivi a un'inflazione del 4% e del 3%. Non esiste correlazione diretta tra la svalutazione e l'inflazione. Quindi presumibilmente avremo una svalutazione relativamente contenuta, che quindi non ci impedirà assolutamente di comprare le materie prime di cui avremo bisogno e probabilmente nessuna inflazione o una media inflazione.

 Tra l'altro possiamo anche dire tra noi che una moderata inflazione non è affatto un dato negativo. Anche qui ci sono da sfatare dei miti. L'idea che l'inflazione sia la peggiore delle tasse perché aggredisce, è un altro esempio di forza ideologica dei ceti dominati. È chiaro che un'iperinflazione può essere distruttiva ed è altrettanto chiaro che l'aumento dei prezzi è negativo se non aumentano anche i salari. Ma il problema è la relazione tra i prezzi e i salari, cioè tra quanto costano le cose e quello che tu guadagni. Noi oggi abbiamo dei prezzi che tutto sommato non aumentano molto, in Italia aumentano più che in Germania, ma comunque l'inflazione è intorno al 3, al 4-5%, almeno quella calcolata, poi quella reale chissà. Ma se i salari non aumentano o addirittura diminuiscono, tu continuamente perdi potere di acquisto, cioè sei sempre più povero. Se hai un'inflazione del 7-8% ma il tuo salario aumenta di quel tanto o anche un po' di più, tu aumenti il tuo potere di acquisto e sei più ricco. Non solo, se tu hai un debito un po' di inflazione ti aiuta. Mio papà si è fatto un mutuo e ha pagato il mutuo, con un lavoro da operaio a Genova ha potuto comprarsi casa e pagare il mutuo nei periodi in cui l'inflazione era anche al 10% e anno dopo anno effettivamente il peso reale della sua rata diminuiva, perché il suo salario aumentava comunque in relazione all'inflazione, mentre lui continuava a pagare gli interessi rispetto alla cifra di acquisto della sua casa. Quindi anche questo sarebbe un concetto da approfondire in maggior tempo. Ma l'inflazione, entro certi limiti, svaluta i debiti. Domanda: per un paese che ha un alto debito pubblico allora un po' di inflazione sarebbe un bene o sarebbe un male? Ecco, vedete che se si riesce a discutere delle questioni in modo razionale non ideologico forse si capisce che le cose stanno in modo un po' diverso.

 Torniamo alla questione dell'Unione Europea. Noi non potevamo prevedere che all'Unione Europea sarebbe stato concesso un Nobel per la pace, perché anche la nostra fantasia non arrivava a tanto, ma sapevamo che tra le motivazioni c'è sicuramente quella che l'Unione Europea ha garantito la pace e la stabilità in Europa, che è un'idea sostanzialmente ridicola, perché intanto l'altro aspetto che evidenzia la forza dell'ideologia che ci è stata propinata negli ultimi tempi è quello che l'Unione Europea viene usata come sinonimo di Europa. L'Unione Europea non è l'Europa. Noi abbiamo la pace in Europa, a parte il dettaglio della guerra in Kosovo - “dettaglio” ovviamente detto in modo ironico – c'era l'unione europea e abbiamo fatto la guerra, oltre che farla all'esterno ovunque quando gli Stati Uniti vogliono, ma all'interno dell'Europa abbiamo la pace da immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando non c'era nessuna Unione Europea. L'Unione Europea è una struttura giuridica nata per garantire la libera circolazione di merci, servizi e capitali che esiste da vent'anni. Questo è l'Unione Europea, non è altro. Non è la pace tra le nazioni. Si può rispondere che non c'era l'Unione Europea nel dopoguerra ma si cominciava a formare la CEE, si cominciavano a gettare i primi ponti di collaborazione economica tra gli Stati. Questo è sicuramente vero, ma di qui a pensare che sia questo che abbia garantito la pace ce ne passa. Soprattutto anche nei secoli precedenti spesso in Europa, tra gli Stati-Nazione ci sono stati decenni di pace. Sembra che chi sostiene che l'Unione Europea abbia garantito la pace pensa che in Europa ci siano state solo guerre fino a che non è nata l'Unione Europea. Questo è semplicemente falso, non è storicamente così. Quindi questa è un'altra motivazione del tutto falsa e ideologica.

 Purtroppo però – ed è forse l'ultimo degli aspetti che vi vorrei raccontare – l'ideologia è forte e Marino Badiale ed io ci siamo resi conto che è difficile discutere di euro, di Europa, mettendo da un lato l'ideologia e discutendo in modo razionale di ciò che davvero può essere un bene per le Nazioni, per il nostro popolo e per gli altri popoli europei. Così ci siamo resi conto che anche negli ambienti dove ci sarebbe maggiore interesse ad un cambiamento della politica, un cambiamento delle politiche realizzate in questo paese, si fa fatica a mettere a fuoco il fatto che l'euro e l'Unione Europea sono un po' il primo bersaglio da colpire nel momento in cui si voglia un effettivo cambiamento. C'è chi vuole il cambiamento perché vuole abbattere il capitalismo o chi lo vuole perché vuole abbattere il sistema economico basato sulla globalizzazione, basato sulla crescita infinita. Il problema è che appunto spesso si fa fatica a mettere a fuoco che il modello economico, la crescita, il capitalismo, sono tutte astrazioni, utili, per capirci, ma poi se davvero le si vuole combattere è fondamentale combattere contro quelle istituzioni reali che sono diventate la forma reale e concreta di quell'idea astratta che anche tu, giustamente, vuoi combattere. Qui per esempio mi riferisco a chi giustamente pone la questione della crisi ecologica, per esempio, e del sistema distruttivo nel quale viviamo, distruttivo dal punto di vista ecologico e ambientale, e propone quindi di lanciare un piano di conversione ecologica dell'economia, un piano di decrescita sostanzialmente, di decrescita nel senso di diminuzione della domanda di energia e così via. Ebbene, sono tutte cose assolutamente condivisibili ma che non possono essere concretamente realizzate all'interno del sistema giuridico dell'Unione Europea e all'interno dei vincoli derivanti dall'euro, in buona parte per i motivo che ho indicato prima.

 Fuori dall'Italia è un po' più chiaro questo, devo dire che un intellettuale importante del pensiero della decrescita, come Serge Latouche, dice chiaramente queste cose in uno dei suoi ultimissimi libri, “Per un'abbondanza frugale”, dice esplicitamente che per i PIGGS, cioè i paesi in crisi dell'eurozona è necessario abbandonare e per rilanciare una politica come propone lui di riconversione ecologica, di sostegno all'economia del chilometro zero, delle autoproduzioni, eccetera, bisogna assolutamente liberarsi dall'euro e dai vincoli del mercato unico dell'Unione Europea; viene detto chiaro. In Italia invece si ha la percezione che questa chiarezza ancora non ci sia nei movimenti che lottano, giustamente, per l'affermazione di una democrazia partecipata, per la difesa dei beni comuni, non c'è ancora la necessaria presa di coscienza di quanto quelle scelte contro le quali combattono, cioè le privatizzazioni piuttosto che l'oligarchizzazione della politica, dipendono anche dall'appartenenza all'euro e all'Unione Europea, proprio per i motivi che indicavo prima rispetto alla spoliazione della sovranità degli stati e alla costruzione di un governo, di un ipotetico super governo europeo assolutamente non democratico. Se si vuole la maggiore partecipazione politica e attiva dei cittadini e la loro maggiore capacità decisionale, quindi la democrazia partecipata, occorre che si possa decidere, quindi è necessario averla la sovranità, altrimenti di cosa si decide? Anche questo elemento fatica ad entrare nella discussione pubblica. Quanti cercano di difendere il lavoro, giustamente? Quanti cercano di difendere i ceti sociali più aggrediti da questa crisi e che oggi si vedono appunto perdere il lavoro oppure perdere le condizioni di lavoro? E non si sa che cosa sia peggio, perché quando andiamo a vedere che cosa è il piano Marchionne o quando andiamo a vedere che cosa vuol dire perdere le tutele dei contratti nazionali di lavoro, vuol dire che tu sei sostanzialmente sempre a disposizione dell'azienda, vuol dire che tu puoi fare una quantità infinita di straordinario, anzi devi farla e lo straordinario che devi fare ti può essere comunicato anche un giorno, due giorni prima. Vuol dire che tutta la tua vita viene assolutamente asservita a quelle che sono le esigenze della produzione.

 Ecco, chi vuole combattere contro tutto questo fatica oggi, almeno sembra faticare a mettere in relazione la realizzazione di quelle scelte con i vincoli dell'appartenenza all'euro e all'Unione Europea. Nonostante tutte le critiche che noi possiamo fare all'Unione Europea, una critica che non possiamo farle è quella di fare le cose di nascosto. Ce lo dicono chiaro che cosa vogliono fare. Prima lo dicevano magari in modi più difficilmente riscopribili nei documenti ufficiali dell'Europa 2020, del cosiddetto semestre europeo, e diciamo che uno deve andare un po' a cercarseli per capirli. Oggi non è più così. Dalla lettera al governo Berlusconi in poi le imposizioni della Banca Centrale Europea sono perfettamente chiare. Basta prendere quei fogli e c'è scritto. Sono le richieste di oggi, dei giorni scorsi alla Grecia, alla Spagna, privatizzare ulteriormente, licenziare nel pubblico impiego, abbassare i salari nel privato e nel pubblico. Questo è quello che pretendono. Allora se si vuole combattere contro tutto questo non si può omettere da dove nasce la richiesta di tutte queste follie. E tutto questo nasce dall'adesione, dalla costruzione dell'euro e dall'Unione Europea.

 Attenzione, continuano a dirci che l'euro è irreversibile, ma il motivo per cui continuano a dircelo – lo ha detto recentemente il Presidente della Repubblica, lo ha detto recentemente Draghi, continuano a ripeterlo in Germania, continuano a ripeterlo dappertutto – è proprio il fatto che l'euro è reversibile, altrimenti non avrebbero nessuna ragione di continuare a dirlo, ma devono far credere che tale sia. Devono far credere che tale sia, perché essendo le criticità dell'euro così note e conosciute, ed essendo noto che soprattutto per i paesi più deboli sarebbe assolutamente conveniente un'uscita dall'euro, nel momento in cui un singolo paese dovesse abbandonare la moneta unica è molto probabile che questo sancirebbe l'immediata fine della moneta unica stessa. Perché? Perché a quel punto gli altri paesi deboli rimasti all'interno della moneta verrebbero aggrediti da attacchi speculativi molto maggiori rispetto a quelli che già abbiamo visto. Il perché è molto semplice: finché si pensa che l'euro sia irreversibile allora può avere senso comprare titoli italiani, spagnoli, greci stessi, ma se ipotizziamo che la Grecia, piccolo paese, uscisse dall'euro, a quel punto diventa chiaro che l'euro non è più irreversibile, quindi può essere reversibile per tutti, quindi è molto probabile che alla fin fine anche il Portogallo, anche la Spagna, anche l'Italia, escano dall'euro, dovendo attraversare tutto un primo periodo di problematiche effettive che questo comporterà. Quindi a questo punto l'attacco speculativo rispetto a questi paesi diventerebbe fortissimo e lo stesso attacco porterebbe molto probabilmente alla fine della moneta unica. Questo è uno degli scenari possibili ed è motivo per cui sostanzialmente la Grecia non è stata fatta immediatamente uscire dall'euro. La Grecia è un paese molto piccolo, un'economia molto piccola rispetto all'eurozona, obiettivamente non c'erano motivi di non lasciarla in pace, ma le scelte che sono state fatte sono tali proprio perché non possono permettersi di fare uscire nessuno dall'euro. L'euro è un gabbia dalla quale dobbiamo cercare di liberarci.

 Trascrizione di Maria Laura Borruso

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