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Germania 4 Europa 0

di Sebastiano Isaia

Ubaldo Villani-Lubelli scopre le non poche magagne sociali che affliggono la Germania e se ne esce con una considerazione che la dice lunga sulla comprensione della società capitalistica da parte dell’intelligenza borghese: «Da un sistema sociale ed economico considerato un modello, ci si sarebbe aspettato una distribuzione più equa della nuova ricchezza» (La Germania non è un paese per poveri, Limes, 10 aprile 2013). Ora, proprio perché la società tedesca ha i problemi denunciati da Villani-Lubelli essa può in effetti venir considerata come un buon modello di sistema capitalistico, visto che quei problemi rappresentano un lato della stessa medaglia. L’astratta richiesta di una «distribuzione più equa della ricchezza» non tiene conto della natura sociale, appunto capitalistica, del modello tedesco, come di ogni altro modello esistente su questo pianeta, e accompagna da sempre i piagnistei dei riformatori sociali, quelli che, per dirla col solito ubriacone di Treviri, accettano il Capitalismo salvo piagnucolare sulle sue necessarie contraddizioni. Chi accetta la causa e ne ricusa “solo” gli effetti indesiderati e imprevisti, merita il disprezzo di coloro che quegli effetti sperimentano sulla propria pelle. «Lo scopo che si proponeva in primo luogo il genio sociale che parla per bocca di Proudhon, era di eliminare quanto c’è di cattivo in ogni categoria economica, per avere solo il buono» (K. Marx, Miseria della filosofia). Separare il «lato buono» della prassi capitalistica (espressa nelle categorie dell’economia politica) da quello «cattivo»: è l’eterna chimera riformista.

La Germania è dunque «un modello imperfetto»: questa l’epocale scoperta che dovrebbe afflosciare gli entusiasmi di non pochi economisti, sindacalisti e politici nostrani: da Romano prodi a Fabrizio Barca, da Tremonti alla Camusso, che fino a qualche mese fa individuavano nell’«economia sociale di mercato» di quel Paese «l’unica alternativa credibile ai modelli di crescita americano e cinese».

Gira e rigira ho sempre tra i piedi la risibile terza via!

Il governo tedesco non solo non nasconde all’opinione pubblica europea i non pochi problemi sociali che la Germania deve affrontare per rendere più solida e meno contraddittoria la sua performance economica, ma piuttosto li mette bene in mostra, in qualche caso li enfatizza, per dimostrare alle «cicale» del Sud che le «formiche» teutoniche non navigano nell’oro, e che quindi non ha alcun senso nutrire risentimenti nei loro confronti: nel Paese che mezza Europa detesta si lavora duro per un tozzo di pane! E se qualche briciola avanza, la si regala ben volentieri a chi nella Patria Europea ne ha più bisogno. Come si fa a non apprezzare cotanta generosità? Perché nelle capitali europee del Sud si fa tanto scandalo intorno alla richiesta di Berlino di poter controllare il destino dei suoi generosi aiuti?

Secondo uno studio pubblicato dalla Banca centrale europea, «i tedeschi sarebbero i più poveri d’Europa, con una ricchezza media inferiore a quella degli spagnoli, degli italiani e addirittura dei greci e dei ciprioti. È bastato questo perché lo Spiegel titolasse sulla “Menzogna della povertà. Come i paesi europei in crisi nascondono la loro ricchezza”. Il tutto accompagnato dall’immagine di un vecchio su un asino mentre getta banconote al vento. “È giusto il salvataggio dell’euro quando la gente dei paesi che riceve i fondi è più ricca dei cittadini dei paesi che li danno?”, si chiede il settimanale, per il quale è necessario “un dibattito su una nuova divisione degli aiuti”» (Eric Maurice, L’equivoco della povertà, Presseurop, 19 aprile 2012). Altro che mettere in discussione la politica dell’austerity, signor Barroso! Anche perché in Germania il Partito del ritorno al Marco cresce in argomenti e in consensi, e la Cancelliera di ferro non può prospettare al proprio elettorato un’Unione europea che non veda la Germania nel ruolo di potenza egemone. Anche nel calcio!

«Difficile resistere a un’egemonia che altrove, nell’economia, nella politica, nel condizionamento delle scelte dell’Unione europea, è chiara e che nel calcio nessuno ha voluto vedere fino a martedì e mercoledì sera. […] È come prendere a schiaffi il mondo e dire: scansatevi, è il nostro momento. […] I gol sono lo specchio che riflette la realtà di un calcio che è la rappresentazione plastica del dominio tedesco sull’Europa. È come se un paese intero abbia deciso di prendersi lo sport più popolare del mondo, nel continente in cui è più popolare di ogni altra cosa. Perché questo dominio è voluto, cercato, faticato (Beppe di Corrado, Adesso al dominio tedesco in Europa non manca più niente, Il Foglio, 26 aprile 2013). Dopo il pane, la Germania ci toglie dunque anche il circo: che cattiveria!

Crescita della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, impoverimento delle classi medie, accelerazione nel processo di concentrazione della ricchezza sociale, con la nota polarizzazione classista («reddituale») che necessariamente ne segue, crescita della precarizzazione del lavoro («si tratta dei cosiddetti mini-job che coinvolgono circa 5 milioni di persone e che non sono altro che occupazioni flessibili») con relativa netta riduzione del salario («appena 450 euro»), aumento dei senza-tetto e via di seguito. Questi i dati sensibili riportati da Villani-Lubelli nel suo articolo, che egli mette in relazione, come d’altra parte fanno molti anche in Germania, con la famigerata Agenda 2010, l’Agenda “riformista” più amata (chiedere a Mario Monti) e odiata (chiedere allo scialbo Hollande) dagli statisti europei: «Il dibattito sulle disparità sociali si incrocia, inevitabilmente, con quello sul decimo anniversario dell’Agenda 2010, quel complesso programma di riforme avviato dal governo Schröder nel 2003. Marc Brost, giornalista tedesco della Zeit, ha evidenziato come sia proprio l’Agenda 2010 alla base delle disparità sociali di oggi: da una parte ha modernizzato la Germania, dall’altra ha diviso il paese in ricchi e poveri, precari e lavoratori stabili». Non si è mai contenti!

Intanto ieri Le Figaro accusava Hollande di inettitudine nei confronti della grave crisi economica che sta investendo la Francia (sul Financial Times del 23 aprile Gideon Rachman ha parlato di «crisi di regime», e ha esortato i francesi a «non indulgere in sogni di ghigliottina»): «Nonostante non voglia ammetterlo, il governo non crede nemmeno un po’ alla tiritera presidenziale sulla riduzione della disoccupazione per quest’anno».  Nel suo editoriale il quotidiano francese chiede l’impiego di «grandi mezzi contro la disoccupazione […] anche se dovessero andare contro la dottrina socialista»: taglio del costo del lavoro, soppressione delle 35 ore, nuova concezione del Welfare, a cominciare dai sussidi di disoccupazione e dal trattamento pensionistico. «Tutti provvedimenti […] che i paesi europei più solidi hanno adottato da tempo». Inutile dire che Le Figaro allude alla Germania «socialista» di Schröder. C’è «socialismo» e «socialismo». E poi c’è «lo sperimentalismo democratico» di Fabrizio Barca, terza via (ancora!) tra liberalismo (Stato minimo) e socialdemocrazia (Stato massimo). Evidentemente dal Bel Paese non ci si può aspettare di meglio.

Riporto una parte del post pubblicato il 5 gennaio 2013 dedicato all’Agenda 2010.

A suo tempo il progressista Gerhard Schröder, con la sua Agenda (lacrime e sangue) 2010, portò lo scalpo dei lavoratori tedeschi (in attività, in mobilità, in disoccupazione e in pensione) sull’altare degli interessi generali della Germania, vale a dire della classe dominante tedesca, e ancora più precisamente: del sistema capitalistico tedesco colto nella sua totalità (la potenza sociale che cura i cittadini dalla culla alla bara), com’è corretto fare se non si vuol perdere il filo conduttore della politica dei governi e dei partiti devoti alla Patria. Secondo Paolo Valentino «Schröder aveva varato la più radicale e dolorosa riforma del welfare tedesco dai tempi di Bismarck» (Intervista all’ex Cancelliere socialdemocratico, Corriera della Sera, 31 maggio 2012). Detto di passaggio, a ulteriore conferma della dimensione sociale, e non meramente ideologica o nazionale dei problemi sul tappeto, allora Schröder trovò per così dire ispirazione dall’Agenda Blair, scritta sulla pelle dei sudditi salariati di sua Maestà dall’ex campione del progressismo europeo, poi caduto rapidamente in disgrazia a causa dell’intervento armato in Iraq della coalizione dei “volenterosi”.

«È d’obbligo riconoscere», scriveva il cancelliere socialdemocratico nel 2002 su Handelsblatt, «che i tempi della ridistribuzione di guadagni in crescita sono finiti. Oggi non si possono più soddisfare nuove richieste e rivendicazioni. Se vogliamo preservare un solido benessere e uno sviluppo sostenibile venendo incontro a nuove esigenze di giustizia, dovremo invece ridimensionare molte rivendicazioni e anche sopprimere prestazioni che mezzo secolo fa potevano essere giustificate ma che hanno perduto oggi il loro carattere pressante … A fronte della realtà demografica siamo giunti alla conclusione che il finanziamento delle pensioni non può più essere garantito in via esclusiva da un sistema a ripartizione e da contribuzioni calcolate in base al reddito da lavoro». Salari, mercato del lavoro, redistribuzione del reddito, sanità, pensioni: le «riforme strutturali» dell’Agenda Schröder spaziavano in ogni comparto dell’Azienda Tedesca, allora ancora impegnata a digerire il grosso pasto della riunificazione. Con il solito sciovinistico compiacimento, soprattutto i cugini francesi parlarono della Germania come della «malata d’Europa», una vecchia e arrugginita locomotiva incapace di portare “a tutto vapore” il treno europeo dentro la nuova dimensione della globalizzazione segnata dall’ascesa delle nuove potenze capitalistiche mondiali. Il Paese teutonico appariva ai francesi così mal ridotto, da spingerli a far circolare la «generosa proposta» di una condivisione franco-tedesca del seggio francese nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

«In Germania, però, hanno riflettuto sui propri problemi e trovato le soluzioni», dice Oscar Giannino; «Innanzitutto hanno abbassato le spese e le imposte, che erano altissime. Poi si sono reinventati il welfare, troppo costoso e concentrato sulle emergenze sociali. Infine hanno mutato il loro orizzonte produttivo, in ciò favoriti da contratti dei lavoratori più aziendalisti rispetto ai nostri. Dobbiamo fare tesoro di questi insegnamenti e capire quali sono le ragioni che ci stanno portando nel baratro» (Il giornale di Vicenza, 29 novembre 2012). È L’Agenda Giannino, la quale suggerisce all’Italia di guardare alla Germania malata d’Europa del 2001-2002: «la soluzione dei nostri problemi è praticamente scritta».

Nel 2002 la crescita del Pil tedesco si aggirava intorno allo 0,5 per cento, mentre la disoccupazione faceva registrare l’inquietante cifra di quattro milioni. Com’è noto, soprattutto in Francia s’inclina a vedere in ogni disoccupato tedesco un potenziale nazista, o quantomeno un potenziale “nemico della pace”. Pure preoccupanti erano le cifre raggiunte dal lavoro nero: «Secondo i calcoli dell’Istituto di ricerca economica applicata di Tubinga, negli ultimi 12 anni la quota di occupazione illegale è cresciuta di quasi il 40 per cento, interessando una produzione di merci di circa 350 miliardi di euro, pari al 16,5 per cento del Pil» (Rassegna sindacale,n.43, novembre 2002). In effetti, puntando sulla maggiore flessibilità del lavoro possibile, la riforma del mercato del lavoro messa a punto nel 2002 da una equipe governativa coordinata dal Ministro dell’Economia Wolfgang Clement in pratica non fece che legalizzare e razionalizzare un dato di fatto. D’altra parte è questo il reale significato delle “riforme sociali”, in Germania come dappertutto: ratificare, legalizzare, disciplinare e assecondare i fenomeni sociali che appaiono strutturali e irreversibili, almeno nel medio periodo.

Ad esempio, il cosiddetto mini-job (lavoro part-time da 400 euro al mese netti) è il nome nuovo che sta per lavoro giovanile sottopagato e precarizzazione del lavoro. Va da sé che al giovane è richiesto di non essere troppo schizzinoso. È vero che il Welfare tedesco è ancora abbastanza generoso da compensare, ovviamente fino a un certo punto, il declino secco dei salari, ma è soprattutto vero che il circolo vizioso della fiscalità generale è sempre in agguato, è una spada di Damocle che minaccia continuamente l’accumulazione capitalistica, come ben sanno le cosiddette cicale d’Europa. Il grasso accumulato nel corpo sociale è una risorsa scarsa per definizione, e comunque il suo formarsi presuppone un sistema sociale altamente produttivo, come in effetti è stato finora quello tedesco.

Il «reddito di sostentamento minimo, condizionato alla partecipazione a misure di formazione e di inserimento professionale», come si legge a pagina 18 dell’Agenda Monti, è concepito proprio all’interno di una strategia volta ad innalzare la produttività sistemica dell’Azienda Italia (dalla fabbrica al laboratorio scientifico, dalla pubblica amministrazione alla gestione della cosiddetta industria culturale del Paese, e via di seguito), e com’è noto tutti i partiti che si candidano a governare il Paese convergono su questo punto cruciale. Per questo Monti ha ragione quando dice che i sacrifici non ce li chiede innanzitutto l’Europa (leggi Germania), ma il Sistema Paese, la sua capacità di competere in un mondo sempre più veloce e aggressivo sul lato della “concorrenza totale”: basti pensare, non dico alla Germania o al Giappone, ma alla Polonia e alla corea del Sud. Le “società-formiche” d’Europa appoggiano la riforma strutturale delle “società-cicale” solo nella misura in cui l’improduttività e l’inefficienza dei sistemi sociali di queste ultime rischiano di distruggere risorse create altrove (indovinate dove?), ma è chiaro che soprattutto con i Paesi vocati alla manifattura d’esportazione, com’è indubbiamente ancora l’Italia, l’impegno “riformista” delle formiche è destinato quanto prima a mostrare il risvolto concorrenziale della faccenda.

L’esigenza di una maggiore integrazione economica idonea a creare attorno al nucleo forte del capitalismo tedesco una massa critica continentale in grado di sostenere con successo la guerra mercantile con i grandi colossi mondiali, per un verso, e, per altro verso, il cozzare di diversi e molte volte contrastanti interessi nazionali facenti capo ai diversi Paesi dell’Unione: queste due faglie sistemiche che continuamente si toccano, non smettono di generare tensioni e contraddizioni. Chi vede in Monti non più che un servo sciocco della Merkel e dei “poteri forti” basati a Bruxelles e a New York, reitera l’insulso errore di chi vedeva nell’Italia democristiana (e poi craxiana) la serva sciocca degli Stati Uniti, sottovalutando in tal modo la capacità delle classi dominanti del Bel Paese di perseguire obiettivi schiettamente nazionali pur in un contesto geopolitico centrato sugli USA. D’altra parte, “destra” e “sinistra” non hanno mai smesso di contendersi la palma d’oro del nazionalismo più genuino. Ma non divaghiamo!

Se il 27 febbraio 2012 Andrea Tarquini può scrivere che nel settore automobilistico tedesco «la classe operaia è già in paradiso», visti i record storici dell’export e degli utili delle multinazionali tedesche dell’auto, cosa che ha permesso ai lavoratori del comparto una pingue partecipazione agli utili e allettanti rivendicazioni salariali «appoggiate dal governo conservatore della cancelliera Angela Merkel», è perché dal 2003 quei lavoratori hanno “accettato” di lavorare molto di più a parità di salario. Un forte aumento di produttività (leggi sfruttamento) sostenuto anche dal sindacato collaborazionista IgMetall. La cosiddetta partecipazione agli utili dell’impresa, un salario differito e subordinato al buon andamento dello sfruttamento operaio, fa seguito alla lunga e dura politica di moderazione sindacale. Scomodare il paradiso quando si parla di “capitale umano” è quantomeno blasfemo…

«Adesso [i capitalisti dell’auto] dovranno vedersela comunque con la IgMetall che si dice “pronta a lottare per un aumento del 6,5 per cento, secondo il principio della solidarietà”. Con il governo alle spalle» (Premi senza precedenti per i metalmeccanici tedeschi, La Repubblica.it, 27 febbraio 2012). Si scrive solidarietà, si legge collaborazione. La Trimurti sindacale di casa nostra ne sa qualcosina. La classe operaia, in Germania come altrove nel capitalistico mondo, ha sempre alle spalle il governo, i padroni e i sindacati responsabili: l’allusione politicamente scorretta a certe pratiche sessuali mi sembra abbastanza chiara!

«Grandi aspettative sono riposte nella riforma del mercato del lavoro, secondo le proposte della commissione Hartz, che comporterà più lavoro temporaneo, minore protezione contro i licenziamenti del personale anziano, più stretto collegamento tra gli Uffici del lavoro e quelli dell’assistenza pubblica, meno oneri per i lavori a bassi salari. La durata media della disoccupazione poi, grazie a un collocamento più efficiente, dovrà diventare più breve» (Rassegna sindacale, n.36, 8 ottobre 2002). Aumento della produttività e della flessibilità (ma sarà poi quella “buona”, sarà abbastanza flexsecurity?): non sembra di leggere qualche passo dell’Agenda Monti-Fornero? O Biagi-Ichino-Fornero-Monti: fate un po’ voi.

Il 12 dicembre 2011 il Corriereberlinese rendeva di pubblico dominio questa sconvolgente scoperta: «Nonostante la sua ricchezza e la sua potenza economica, la Germania campione mondiale nelle esportazioni [vede] aumentare il gap tra ricchi e poveri più che in altri paesi industrializzati». Perché nonostante? Piuttosto grazie alla sua ricchezza e alla sua potenza, perché come diceva il barbuto di Treviri, la ricchezza a un polo e la miseria (assoluta o semplicemente relativa la sostanza non cambia) al polo opposto si presuppongono vicendevolmente. Ma a essere particolarmente significativa è la frattura salariale che si è realizzata tra l’“aristocrazia operaia” (i lavoratori impiegati soprattutto nelle multinazionali della metallurgia, della chimica e dell’elettronica) e i lavoratori di “fascia bassa” – quelli impiegati nel terziario a basso contenuto tecnologico, nei servizi alla persona e nelle piccole e medie imprese manifatturiere, le quali non di rado, anzi sempre più spesso, servono il processo produttivo delle multinazionali di cui sopra, cosa che in parte ne spiega lo straordinario successo ottenuto in questi anni di grave crisi internazionale. «Negli ultimi dieci anni, la disparità retributiva tra coloro che guadagnano bene, i Gutverdienern, e i lavoratori a basso livello di stipendio, i Niedriglöhnern, si è allargata considerevolmente. Nel 2008, il 10 per cento di coloro che stavano in cima alla scala dei lavoratori meglio pagati guadagnava in media 57.300 euro, otto volte di più di quello che guadagnava il 10 per cento di coloro che stavano in fondo alla scala dei lavoratori meno pagati, con uno stipendio di 7400 euro. Negli anni ’90 il rapporto tra gli stipendi di queste due categorie di lavoratori, afferma l’OCSE, era di sei a uno» (Aumenta anche in Germania il divario tra ricchi e poveri, Corriereberlinese).

Sempre il Corriereberlinese informava che il segretario generale dell’OCSE Angel Gurria concludeva la sua inquietante analisi degli squilibri sociali in Germania perorando la causa di «un’ampia strategia per una crescita compatibile socialmente». Il Capitalismo a basso “impatto” ecologico e sociale è un odioso mantra che non smette di irritare il pensiero che afferma l’assoluta incompatibilità tra il vigente regime sociale e condizioni semplicemente umane di esistenza. Non c’è modo di abituarsi a certi insulsi luogocomunismi, soprattutto quando affettano pose “umanistiche”.

Dichiara Schröder, critico dell’Agenda Merkel per l’Europa: «Io [nel 2003] avevo appena realizzato l’Agenda, oltre 20 miliardi di euro di tagli e una severa riforma del mercato del lavoro. Ma non potevamo strozzare ulteriormente l’economia. Così abbiamo chiesto un margine più ampio nel rispetto dei criteri [di Maastricht]. Poi ho perso le elezioni, la signora Merkel ne ha approfittato, l’economia è ripartita, ma questa è un’altra storia. La lezione di allora è che un Paese come la Grecia ha bisogno di più tempo» (Intervista all’ex Cancelliere…, Corriere della Sera). C’è un piccolo, quasi trascurabile particolare che tuttavia contribuisce a spiegare le contraddizioni e certe insopportabili “ingiustizie” maturate negli ultimi anni nell’ambito della politica comunitaria: Grecia e Germania hanno pesi specifici diversi. La potenza capitalistica non è acqua fresca: «non stiamo mica a pettinare le illusioni degli europeisti spinelliani», direbbe l’autore dell’Agenda Bersani.

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