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L'allegra brigata degli europeisti anti-tasse

Leonardo Mazzei

Sogni e realtà del governo Letta il nipote
(con alcune annotazioni sul DEF che oggi arriva in parlamento)


Puntuali come le piogge di primavera, le prime capocciate le hanno già battute. E sono arrivate dall'amata Europa. Per la quale si deve soffrire, sempre essendo disponibili a morire, come esplicitato nel titolo di un libro del 1997 - «L'euro sì. Morire per Maastricht», Laterza 1997 - scritto dall'attuale capo del governo.

La novità delle «larghe intese» è anche piaciuta a Berlino, ma non al punto da lasciarsi commuovere. Dalla Merkel il giovane Letta ha avuto più che altro l'incoraggiamento a proseguire la strada del rigore. E non è andata meglio a Bruxelles. E nemmeno a Parigi, dove si blatera di crescita ma non si vuol nemmeno sentir parlare di quella unità politica in cui sembrano credere ormai soltanto gli ectoplasmi dei defunti partiti italiani.

Fatto sta che la temuta parola che gli illusionisti avevano appena rimosso - «manovra» - ha conquistato le prime pagine dei giornali a neanche una settimana dal giuramento del nuovo esecutivo. Che vita breve hanno certe illusioni!

Eppure si erano dati un gran daffare: via l'IMU sulla prima casa, no all'aumento dell'IVA, slittamento della TARES, riduzione delle «tasse sul lavoro», cioè sgravi alle imprese e contentino sull'IRPEF ai lavoratori dipendenti.

In realtà tutti interventi assai modesti e di facciata, ma che venivano presentati come l'antipasto di una più forte riduzione della pressione fiscale, come se i vincoli europei (a partire da quelli giganteschi previsti dal Fiscal compact) fossero misteriosamente finiti in qualche soffitta di Bruxelles.

Ora tutti sanno che non sarà così, ed i piccoli interventi su IMU, IVA e TARES dovranno essere immediatamente compensati, o con altre tasse o con nuovi tagli alla spesa pubblica. Anzi, siccome c'è bisogno di finanziare la cassa integrazione in deroga, nonché le cosiddette «missioni» militari all'estero (cioè la partecipazione alle imprese imperialiste americane, vedi Afghanistan) servirà una manovra più consistente. Si parla di un minimo di 6/7 miliardi, con tendenza a salire, da decretare entro giugno.

Insomma, la strana e pittoresca figura degli europeisti anti-tasse sembra già in affanno. Ma conoscendo i nostri polli, e ben sapendo che non dispongono di altra mercanzia propagandistica, si può star certi che non demorderanno. Del resto, per certi ultra-liberisti che imperversano sui media, ridurre le tasse non comporta alcun problema: basta tagliare la spesa a più non posso, come se non fosse già stata pesantemente compressa dai governi precedenti.

Ma la contraddizione decisiva è quella tra austerità e sviluppo, due termini che Letta avrebbe la pretesa di coniugare. Una pretesa condivisa con i sui predecessori italiani e con i suoi partner europei, ma di cui non si riesce a trovar traccia nella realtà dei paesi del sud Europa finiti nel tritacarne dei sacrifici per l'euro.


Il disastro del governo Monti nelle cifre del DEF

Per capire quel che ci aspetta è senz'altro utile riflettere un po' sul lascito di Monti, tornando agli albori del governo del Quisling della Bocconi. Anche allora, ricorderete, si affermava che il rigore sarebbe stato la pre-condizione di un futuro, certo e radioso sviluppo. Le cose sono andate assai diversamente. Ed è a causa di ciò che oggi Letta non può vestire gli stessi panni del tagliatore Monti, presentandosi invece come colui che vorrebbe uscire dall'austerità (di cui si cominciano a riconoscere i danni), ma... rispettando in pieno trattati e vincoli europei.

E' chiaro come un simile gioco di prestigio sia semplicemente impossibile. Le promesse del governo Letta sono dunque aggrappate ad un'unica possibilità: che l'Unione Europea decida di allentare (solo provvisoriamente, beninteso) i vincoli di bilancio. Ipotesi non strampalata, dato che la recessione morde in tutta l'eurozona, e che tuttavia non modificherebbe i problemi di fondo. Ma per gli euristi alla Letta od alla Napolitano, e per le oligarchie che rappresentano, l'essenziale è intanto prendere tempo.

Ci riusciranno? Molti sono i fattori - preminentemente politici - in gioco, in primo luogo l'esito delle elezioni di settembre in Germania. Ma ci sono anche altri elementi, di carattere economico, da tenere nella dovuta considerazione. Alcuni di questi fattori ci vengono consegnati dal DEF (Documento di economia e finanza) 2013, varato dal governo Monti il 10 aprile scorso, che approderà proprio oggi nelle aule parlamentari.

Ecco, se c'è un documento che inchioda Monti alle sue responsabilità storiche è proprio questo. Questo odioso curatore fallimentare, e con lui i suoi ministri, vanno dicendo da mesi che sì, effettivamente l'austerità ha penalizzato lo sviluppo, ma non si poteva far altro per salvare il Paese. Peccato che il «salvataggio» non vi sia proprio stato. Quando Monti entrò a Palazzo Chigi il debito ammontava al 120% del pil. Ora, dopo aver raggiunto al 31 dicembre 2012 il 127%, è lo stesso DEF a prevederlo oltre il 130% a fine 2013.

I soliti ingenui penseranno che questo disastro sia semplicemente la conseguenza delle politiche del passato, ma non è così. Il governo Monti ci ha lasciato tre documenti di previsione: il DEF 2012 (aprile), l'aggiustamento del DEF nel settembre successivo, ed appunto il DEF 2013. Confrontare le previsioni contenute in questi tre testi (che per semplicità chiameremo, in ordine cronologico, a - b - c) è assai illuminante.

Partiamo dal rapporto deficit/pil. Per il 2013 la previsione iniziale (a) era di un -0,5%, diventato in (b) un -1,8%, arrivato in (c) al -2,9%. Per la cronaca la differenza ammonta a circa 38 miliardi di euro (sempre per la cronaca, l'equivalente di 9,5 abolizioni integrali dell'IMU sulla prima casa). Analoghe correzioni riguardano il 2014 ed il 2015. Per il 2014 la sequenza è: (a) -0,1%, (b) -1,5%, (c) -1,8%. Per il 2015 abbiamo: (a) 0, (b) -1,3%, (c) -1,5%.

Vediamo ora il rapporto debito/pil, partendo sempre dal 2013: (a) 121,5%, (b) 126,1%, (c) 130,4%. La differenza tra la previsione iniziale e quella finale ammonta a circa 140 miliardi di euro (l'equivalente di 35 abolizioni integrali dell'IMU sulla prima casa). Correzioni ancora più ampie sono state apportate alle previsioni per il 2014 e il 2015. Per il 2014 questa è la sequenza: (a) 118,2%, (b) 123,1%, (c) 129,0%. Per il 2015: (a) 114,4%, (b) 119,9%, (c) 125,5%. Per chiudere sul tema giova solo ricordare che secondo la stessa Commissione UE queste stime sono troppo ottimiste. Per Olli Rehn il debito sarà al 131,4% nel 2013 ed al 132,2% nel 2014. Tuttavia l'esperienza fa ritenere che alla fine anche queste previsioni verranno corrette in peggio, forse non di poco.

Cosa ci dicono queste cifre?

In primo luogo ci dicono molto sul governo Monti. Perché i casi sono due: o Monti e i suoi ministri erano soltanto degli incompetenti totali, o (come pensiamo) nello stendere il DEF 2012 essi mentivano sapendo di mentire.

In secondo luogo le cifre del DEF evidenziano gli effetti reali della cura draconiana imposta all'Italia in nome dell'euro. Le cifre, anche se chiare, possono sempre risultare aride. Ma non occorre un grande sforzo di fantasia per capire il dramma sociale che si svolge dietro questi numeri, dato che l'aumento della disoccupazione e della povertà discendono direttamente dalla politica austeritaria e dalla recessione che ne è derivata. Il fatto è che oltre al dramma sociale che ha provocato, la politica dei sacrifici non ha risolto i problemi che sembravano giustificarla.

In terzo luogo, e questa è la conclusione più importante, queste cifre ci dicono che la massa del debito (con il corollario delle spese per gli interessi) è ormai insopportabile. Questo debito non può essere pagato, di certo non tutto. E qualora si proseguisse invece nella scelta di onorarlo, in nome degli interessi degli strozzini istituzionali che operano sui mercati finanziari, questo equivarrebbe al colpo finale alla disastrata economia nazionale.

In quarto luogo, queste cifre rendono ancora più insostenibile il Fiscal compact. Per una sorta di pigrizia mentale, ancora oggi i più conteggiano il costo annuo del Fiscal compact sulla base di un rapporto deficit/pil del 120%. Siccome l'obiettivo posto dal trattato è quello del 60% da raggiungere in 20 anni, si calcola il differenziale da recuperare annualmente in circa 47 miliardi di euro (120-60=60; 60:20=3; 3% del pil ipotizzato=47 miliardi). Ma visto che siamo ormai al 130% (in realtà ben oltre), la percentuale da recuperare non è più del 3 bensì del 3,5%. Altri 8 miliardi che portano il totale annuo (per 20 anni) a 55 miliardi.

C'è bisogno di aggiungere qualcos'altro per dimostrare il disastro targato euro ed Europa? Di questo dovremmo discutere, altro che delle buffonate sparse a piene mani in questi giorni dall'allegra brigata bipartisan degli europeisti anti-tasse! Se la follia eurista dovesse ancora una volta prevalere, le tasse non potrebbero che aumentare. E con le tasse i tagli ad ogni diritto sociale, all'occupazione ed ai salari. Del resto, governa un tale pronto a (far) morire (gli altri) per l'euro...

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