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Le geniali ricette antiliberiste di Herr Lafontaine

di Sebastiano Isaia

Deutschlandradio: Herr Lafontaine, la moneta unica è la base per la crescita e l’occupazione in Europa, sosteneva un tempo il politico della SPD Oskar Lafontaine. Che cosa è cambiato per Oskar Lafontaine politico della Linke, ora che invece propone un nuovo sistema monetario e l’uscita dall’Euro?

Lafontaine: È cambiato che le proposte fatte allora non sono mai state realizzate perché in Europa abbiamo una determinata ideologia. È l’ideologia del neoliberismo, particolarmente presente in Germania. Secondo questa ideologia bisogna essere sempre più competitivi. Vale a dire, prima di tutto è necessario ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto e poi ridurre la tassazione. E poi c’è la concorrenza fatta con il dumping salariale, il dumping fiscale e il dumping sociale, e quindi lo smantellamento dello stato sociale. Non può funzionare. Questa ideologia impedisce uno sviluppo salutare all’Europa […] Ci troviamo di fronte al disastro. Proprio perché l’ideologia di cui ho appena parlato non cessa di sostenere che i paesi devono farsi concorrenza (Intervista di Deutschlandradio a Oskar Lafontaine, 4 giugno 2013).

Prendi il Capitalismo come Marx comanda, chiamalo ideologia neoliberista e il gioco è fatto!

Naturalmente con questo miserrimo gioco di prestigio si vuol far credere alle classi dominate che può esistere un Capitalismo dal volto umano, o quantomeno un tantino meno escrementizio di quello che attualmente ci delizia: basta volerlo e i demoni del liberismo selvaggio possono essere battuti, anche alle urne elettorali. Per «il leader storico della sinistra tedesca», almeno secondo la definizione di Deutschlandradio, «la Cancelliera non riesce a comprendere l’economia nel suo complesso»: se lo dice lui…

La superiorità economica di Lafontaine nei confronti dei neoliberisti si apprezza anche dai passi che seguono: «Le banche devono fare quello che in origine facevano le casse di risparmio: raccogliere il denaro dei risparmiatori e prestarlo alle persone che hanno bisogno di credito, soprattutto per l’attività di investimento». Una vera e propria genialata (quanto a originalità è meglio sorvolare): oltre un secolo di sviluppo capitalistico azzerato con un tratto di penna. Detto per inciso, il dominio del Capitale finanziario che diventò oggetto di studio già agli inizi del XX secolo prese corpo non a causa di fenomeni “essoterici”, estrinseci rispetto la sfera della cosiddetta «economia reale», ma proprio in grazia dello sviluppo di quella stessa sfera, così apprezzata dai cultori del biblico sudore della fronte, e la stessa speculazione finanziaria, oggi come sempre, trova la sua spiegazione di ultima istanza nel meccanismo del processo che crea sempre di nuovo la ricchezza sociale nell’attuale forma capitalistica. Alludo al saggio di accumulazione e al saggio del profitto, ossia alla loro più o meno brillante condizione di salute. Una grande parte della liquidità presente oggi sul mercato finanziario si riversa quotidianamente nella speculazione, alimentando nuove bolle, anziché dirigersi verso l’«economia reale», perché quella condizione rimane asfittica, non attraente, poco allettante per chi voglia fare profitti rapidi e pingui. Quando «il saggio d’interesse si abbassa notevolmente, per quanto possa salire il profitto», il mondo necessariamente assiste «alle più audaci speculazioni» (Marx, Storia delle teorie economiche, II).

«La libertà di movimento per i capitali è una invenzione di coloro che in quanto speculatori ne hanno beneficiato in tutto il mondo. I controlli ai movimenti di capitale sono un mezzo per smorzare le ondate speculative che negli ultimi anni hanno creato grandi disordini in tutto il mondo». Per Lafontaine, come per la gran parte dei sinistrorsi oggi in circolazione nel Vecchio Continente, il processo sociale capitalistico degli ultimi trent’anni (segnati dal trionfo del «neoliberismo» sul cosiddetto «socialismo reale» e sul keynesismo d’ogni specie) si riduce a una questione di ideologie perverse e di invenzioni eticamente scorrette. Ora, come sanno tutti quelli che hanno studiato con un minimo di serietà la storia recente del Capitalismo mondiale, anche nel periodo che ha preceduto la cosiddetta «globalizzazione neoliberista» i capitali hanno goduto di una sostanziale libertà di movimento, e questa libertà naturalmente si è espansa man mano che molti Paesi un tempo economicamente arretrati si sono sviluppati e integrati nel sistema economico internazionale, creato com’è noto non da una ideologia cinica e bara, ma da un rapporto sociale che ha il mondo come sua naturale dimensione geosociale e lo sfruttamento di uomini e cose come suo fondamento “ontologico” .

Più che un «progetto di classe», per dirla con David Harvey, il cosiddetto neoliberismo che mosse i primi passi alla fine degli anni Settanta, per dispiegarsi in modo sempre più aggressivo nel decennio successivo, fu per le classi dominanti occidentali soprattutto una stretta necessità. Chiuso il periodo d’oro dell’accumulazione capitalistica postbellica, si trattava, per i Paesi di più vecchia tradizione capitalistica (Stati Uniti e Inghilterra, in primis), di aprire la dolorosa fase della ristrutturazione capitalistica sistemica. Socialmente dolorosa, e quindi rinviata di anno in anno, fino all’inevitabile redde rationem, che in Occidente ebbe soprattutto i volti della Thatcher e di Reagan. «Riforme strutturali», per usare il linguaggio del giorno, non solo nella sfera strettamente economica (rivoluzioni tecnologiche, rivoluzioni organizzative, svalorizzazione della forza-lavoro, delocalizzazioni, join-venture, fusioni, ecc.), ma nell’intero spazio sociale, con l’obiettivo di aumentare la produttività e la competitività del «Sistema-Paese», ridurre il peso del parassitismo sociale pubblico e privato, liberare risorse finanziarie pubbliche e private, e via discorrendo. Tutto quello che poteva rendere più efficace (profittevole) lo sfruttamento del «capitale umano» e, quindi, riavviare l’accumulazione capitalistica, impantanatasi alquanto, fu tentato, con risultati alterni e sempre contraddittori.

L’ascesa delle attività finanziarie di nuovo – sempre relativamente parlando – tipo, con l’invenzione di «prodotti finanziari» sempre più sofisticati e orientati alla speculazione, che si registrò proprio alla fine degli anni Settanta, per poi esplodere, letteralmente, nei decenni successivi, si spiega infatti, «in ultima istanza», con il nuovo ritmo – debole, a volte asfittico, sempre perturbato – dell’accumulazione, segno di una latente e spesso attiva sofferenza nel saggio generale del profitto, caduto notevolmente dopo – e pour cause – il boom economico postbellico, e mai più risollevatosi alle vecchie altezze nei Paesi capitalisticamente avanzati. Nulla di strano, se pensiamo all’immane distruzione di capitale realizzata dalla guerra mondiale: quale boccata d’ossigeno! Segretamente molti economisti – come Paul Krugman – coltivano la nostalgia per quella “radicale” soluzione.

A mio avviso è tuttavia sbagliato sostenere, come fanno in molti, che quella di oggi non è che la continuazione della crisi economica degli anni Settanta, la quale segnò piuttosto la fine di un’epoca («l’epoca d’oro» dell’accumulazione resa possibile appunto dalla guerra mondiale), e l’inizio di un’altra, capitalisticamente meno espansiva – almeno in termini quantitativi – nell’area matura (o «putrescente») del Capitalismo mondiale. Ma qui vado fuori tema. Forse.

Credere che si possano impunemente «smorzare le ondate speculative che negli ultimi anni hanno creato grandi disordini in tutto il mondo» attraverso decisioni politiche, senza che questo significhi necessariamente innescare “effetti collaterali” imprevedibili e potenzialmente catastrofici, ebbene questa illusione volontaristica è tipica di chi crede di poter mettere le braghe alla Potenza sociale che tutto e tutti domina. Le lacrime che Lafontaine versa sulla democrazia parlamentare che langue dappertutto cadono su una tendenza storica di lunga lena, che non smette di radicalizzarsi soprattutto nei momenti di più acuta crisi del meccanismo sociale.

A me interessa non il supposto «ripiegamento fascista» dell’Europa, come sostengono molti militanti della sinistra europea teorici di un’ennesima «nuova resistenza» (con annesse “alleanze tattiche” con la borghesia “progressista”), ma la marcia disumana del Capitalismo, non importa se in guisa “fascista” o “democratica”. Il concetto che a mio avviso deve far premio nella critica del Capitalismo del XXI secolo è quello, non politologico né sociologico, che evoca la natura sempre più totalitaria e disumana dei rapporti sociali capitalistici. È l’idea della globalizzazione come epoca della sussunzione totalitaria degli individui e del pianeta sotto i rapporti sociali capitalistici che bisogna riempire di contenuti.

Leggo sul Foglio di oggi: «Tesi numero uno: la Germania, come un grande burattinaio, gestisce la crisi dell’Eurozona per annichilire gli altri stati membri e arricchire se stessa. Tesi numero due, opposta alla prima: la Germania si muove da paese leader, sinceramente interessato a raddrizzare le storture delle economie altrui, anche perché sa di non poter guadagnare dalla crisi dei vicini. In fondo entrambe queste argomentazioni innervano il dibattito in corso sull’Eurozona» (Berlino padrona riluttante). A mio avviso la seconda tesi non smentisce affatto la prima, ma piuttosto rende evidente l’essenza sociale della guerra sistemica in corso in Europa, la quale risponde a interessi materiali e a processi storici che si danno in gran parte alle spalle della leadership politica del Vecchio Continente.

In questo senso, ad esempio, ho parlato della Germania come «Potenza fatale», ossia per rimarcare i fattori oggettivi della sua forza sistemica e, quindi, della sua necessaria funzione storica, soprattutto nel contesto europeo. Questa “fatalità” è tutta inscritta nella storia della società tedesca, nella sua potenza sistemica (a partire dalla capacità lavorativa della sua straordinaria macchina economica) e nella sua collocazione geopolitica. Chi legge la fatalità come fatalismo è del tutto fuori pista.

Questa potenza sistemica, che da oltre un secolo dà sostanza alla «Questione Tedesca» (e a quella europea), è per gli stessi tedeschi fonte di continuo imbarazzo, oltre che di sciagure. Anche le critiche di Herr Lafontaine a Frau Merkel, accusata di coltivare mire egemoniche, si spiegano in parte con il noto retaggio storico tedesco.

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