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Come uscire dall'euro?

(tre osservazioni sulla tesi di Brancaccio)

Leonardo Mazzei

Il ragionamento di fondo svolto ormai da tempo da Emiliano Brancaccio, e riproposto in ultimo nel suo articolo Uscire dall'euro? C'è modo e modo, ci trova assolutamente concordi. In sostanza Brancaccio evidenzia tre cose: l'elevata probabilità della fine dell'eurozona, i problemi che essa comporterebbe in considerazione delle diverse modalità di uscita dall'euro, la totale impreparazione della sinistra di fronte a questo scenario.

Sul primo punto - la fine dell'eurozona - Brancaccio è più prudente di noi, ma la centralità che egli assegna ai due punti successivi si giustifica solo con la convinzione che, pur non potendone prevedere i tempi, sarà questo lo scenario più probabile che determinerà il nuovo assetto economico, sociale e politico del Paese.

La sua insistenza sulle diverse modalità di fuoriuscita dalla moneta unica pone il problema dei problemi, cioè quello del programma. Un nodo che a sinistra viene allegramente sfuggito, scambiando per «programma» la solita lista della spesa, fatta di obiettivi giusti ma sganciati dal percorso concreto per raggiungerli. E' il classico vizio massimalista, che gioca al più uno, senza mai porre concretamente la questione del potere.


Nel nostro piccolo, come Mpl, abbiamo più volte indicato i punti essenziali sui quali dovrebbe nascere un governo popolare d'emergenza in grado di gestire, nell'interesse del popolo lavoratore, l'uscita dall'euro e dall'Unione Europea.

Tra questi punti vi sono anche quelli richiamati da Brancaccio: il ripristino della scala mobile su salari e pensioni, la difesa del contratto nazionale, il controllo dei prezzi. Ma ve ne sono anche altri non meno decisivi, come la nazionalizzazione del sistema bancario ed il controllo del movimento dei capitali.

L'uscita dall'euro non sarà, in nessun caso, una passeggiata. Ma per la verità non è che le classi popolari oggi abbiano molto da «passeggiare». Né per il presente, né per il futuro. A maggior ragione il volgere altrove il proprio sguardo, tipico di quella sinistra con cui polemizza Brancaccio, è ancor più rivoltante.

Per la verità in altri paesi europei qualcosa ha cominciato a muoversi. Il dibattito sull'euro, anche se in maniera ancora del tutto insufficiente, è presente in Grecia, in Portogallo, in Spagna e perfino in Germania (vedi la posizione di Lafontaine). E' invece totalmente rimosso in Italia, dove il ventennale mix di opportunismo e massimalismo continua ancora oggi a rilasciare i suoi venefici effetti. E dove neppure l'appello spagnolo (che entra nel merito di come uscire dall'euro), per quanto sottoscritto da autorevoli personalità della sinistra, è riuscito a smuovere dal torpore la sinistra. Né quella strutturalmente Pd-dipendente, e fin qui nessuno stupore visto che sarebbe stato stupefacente il contrario, né quella che si raffigura come alternativa al Pd e al centrosinistra.

 

Se questo è il quadro, ben pochi dovrebbero essere i dubbi sulla necessità di costruire una qualche forma di soggettività politica in grado di impugnare la materia, capace cioè di porre come centrale il tema della sovranità nazionale in una prospettiva di difesa degli interessi delle classi popolari. Brancaccio lamenta in sostanza l'assenza di una sinistra capace di misurarsi con i nodi del presente. Bene, concordiamo con lui, ma forse dobbiamo essere più netti: una sinistra potrà risorgere, nell'attuale congiuntura storico-politica, solo se saprà coniugare un'impostazione di classe con una corretta impostazione della «questione nazionale», in un'ottica di liberazione e di sganciamento dalla gabbia europea e, più in generale, dalla globalizzazione disegnata dal capitalismo casinò.


Alcune osservazioni a proposito degli effetti sui salari e non solo


Giustamente Brancaccio sottolinea la questione della difesa dei salario, evidenziando i pro e i contro derivanti da un'uscita dall'euro. Egli, a tal proposito, cita alcuni studi, con una serie di dati che si prestano ad alcune osservazioni non proprio secondarie.


1. In primo luogo la questione del salario reale,
in rapporto alla svalutazioneconseguente all'uscita dalla moneta unica. 
  
I dati riportati da Brancaccio, che prendono in esame nove casi di sganciamento da un cambio fisso avvenuti tra il 1992 ed il 2001, ci dicono che in sette casi su nove i salari reali si sono ridotti nell'anno successivo, per poi ritornare (tranne che in un caso) ai valori precedenti, talvolta superandoli, dopo 5 anni.

Detto così potrebbe sembrare un mezzo disastro. Ma la realtà è assai diversa. Intanto, restando al passato, va rilevato come le differenze tra i pesi presi in esame sono colossali. Mentre, guardando al futuro, siamo d'accordo che tutto dipenderà da chi gestirà il passaggio alla nuo
va moneta. Quello che invece manca è il raffronto con il presente della crisi in corso. Un calo del salario reale non è già in atto?

Citiamo l'insospettabile Bankitalia che ci dice che nel 2013 il salario medio è sceso da 25.130 euro a 24.644 euro. Un -1,9% in un solo anno, che è già il doppio del calo registrato ad un anno dalla svalutazione del 1992 (-1,0%). E questo dopo cinque anni di crisi che hanno falcidiato i salari, le pensioni, portato ad un forte aumento delle tasse e, soprattutto,  a quella che si configura ormai come una vera e propria disoccupazione di massa.

Insomma, confrontarsi con le svalutazioni del passato è certo utile, ma occorre anche uno sforzo per cercare di confrontarsi con le conseguenze sociali del permanere delle attuali politiche. Che hanno già prodotto un massacro sociale, ma che promettono di fare assai peggio d'ora in poi. Basti pensare a quelli che potranno essere gli effetti del Fiscal compact. E, dato che l'alternativa alla svalutazione monetaria è la svalutazione interna, altrimenti detta deflazione salariale, ecco che torniamo alla questione del salario reale. Tema sul quale Brancaccio, citando il capo economista Olivier Blanchard, ci dice quale sarebbe la stima degli ambientini del Fmi sul taglio del salario nominale necessario per rimettere in equilibrio i conti esteri dei paesi periferici: dal 20 al 30%! E si parla di salario nominale, che quello reale (cioè depurato dall'inflazione) dovrebbe diminuire ancor di più.

Ecco, questa è l'alternativa all'uscita dall'euro, il prezzo da pagare per rimanere nella gabbia europea. E dunque è con questa prospettiva che bisogna confrontarsi nel calcolare i possibili costi sociali della fuoriuscita dalla moneta unica. Una prospettiva che non è puramente ipotetica, basti pensare al concretissimo caso greco.


2. In secondo luogo c'è la questione della quota salari


E' questo un indicatore assai utile per fotografare i rapporti di forza tra le classi, o quantomeno per rilevare le variazioni percentuali della quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori. Brancaccio sottolinea come in tutti i nove casi di sganciamento [da una sistema di cambi fissi, Ndr ] considerati la quota salari sia calata nell'immediato, ed in otto casi su nove anche a distanza di cinque anni. Sembrerebbe una prova infallibile della natura di classe di ogni sganciamento e di ogni svalutazione monetaria. Ci permettiamo di dissentire per almeno tre ragioni.

La prima è che, per sua natura, la svalutazione esterna (monetaria) colpisce in qualche modo tutti i gruppi sociali, mentre - come abbiamo già visto - la svalutazione interna (deflazione salariale, ma anche distruzione del welfare ecc.) colpisce in maniera mirata le fasce più deboli del popolo lavoratore. Ovviamente non siamo così ingenui dal pensare che la svalutazione monetaria sia di per sé egualitaria. I suoi effetti presentano anzi mille sfaccettature che è impossibile esaminare qui nel dettaglio. Tuttavia, la differenza tra le due forme di svalutazione in termini di classe pare evidente. D'altronde, come Brancaccio, partiamo dal presupposto che il processo di sganciamento (incluso il livello di svalutazione da perseguire) dovrà essere gestito politicamente. Dunque esso —e qui sta la netta contrapposizione con il modello Bagnai— non dovrà essere in alcun modo affidato alla libera fluttuazione monetaria.

La seconda ragione che ci porta a dissentire concerne l'analisi storica dei processi in questione. Non c'è grafico sulla riduzione della quota salari che non mostri due cose: la prima è che si tratta di una tendenza che viene da lontano (in Italia dal 1975), la seconda è che si tratta di un fenomeno internazionale, che investe praticamente tutti i «vecchi» paesi industrializzati (in pratica l'area Ocse).

Tabella 1. Quota salari sul Pil in alcuni paesi Ocse

quotasalariocse1[Come indica la tabella n. 1 la discesa della quota salari nei paesi Ocse è una tendenza generale e di lungo periodo, risultato delle politiche neoliberiste di globalizzazione, che non ha colpito quindi solo paesi che hanno svalutato, ma che, di converso, la loro moneta ha aumentato di valore ]

Dunque il rapporto con la svalutazione della lira del 1992 - citato nell'articolo in oggetto - ci pare assai dubbio. Nel caso italiano, all'interno di un trend comunque declinante, ci sono tre momenti di picchiata in discesa della quota salari. La prima picchiata avviene nella seconda metà degli anni '70, quando i ritmi di crescita declinano ed inizia la svolta concertativa di Cgil-Cisl-Uil. La seconda avviene negli anni ottanta, innescata dalla recessione dei primi anni del decennio, ma favorita anche dall'esplosione del peso della rendita. Si sviluppa, in altre parole, un'espansione non tanto dei redditi da capitale in genere, quanto piuttosto di quelli ottenuti con gli investimenti finanziari. E tra questi prendono il volo, in particolare, quelli resi possibili dal divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia del 1981 (speculazione sui titoli del debito pubblico). La terza picchiata coincide sì temporalmente con la svalutazione del 1992, ma ha alla base la cancellazione della scala mobile, l'accordo sulla contrattazione del 1993, la forte accelerazione del processo di precarizzazione del lavoro. Tutti fattori che hanno una relazione strettissima non tanto con la svalutazione, quanto piuttosto con i vincoli imposti dal precedente trattato di Maastricht.

quotadeisalari

Tabella 2. Quota dei salari su Pil in Italia 1970-2005


[La tabella n.2 mostra come la Quota salari in Italia abbia subito tre picchi e un trend discendente costante dopo il 1990, di cui la svalutazione del 1992 è solo una parentesi]

In conclusione, se sarebbe assurdo negare un rapporto tra svalutazione e salario reale - e proprio per questo indichiamo l'urgenza di reintrodurre meccanismi di salvaguardia come la scala mobile - altrettanto sbagliato sarebbe il vedere l'albero ma non la foresta, cioè il contesto globale di un attacco al salario ed ai diritti dei lavoratori che viene da lontano, essendo operante da almeno 35 anni, con forti accelerazioni dettate dai vincoli europei e dal tentativo di scaricare la crisi sulle classi popolari.

3. C'è infine una terza osservazione, forse meno importante ma certo non irrilevante. I dati citati da Brancaccio ci consentono infatti, sia pure indirettamente, una valutazione sugli effetti macroeconomici dei casi di sganciamento e svalutazione presi in esame. Se in otto casi su nove il salario reale torna in positivo dopo cinque anni, e se nello stesso periodo la quota salari continua invece a calare, questo significa una cosa ben precisa: che il reddito nazionale complessivo è aumentato in maniera assai significativa. Aumentato in maniera disegualitaria, certo, dato che lo sganciamento da un cambio fisso non è di per sé né anticapitalistico né egualitario. Ma non è difficile capire come anticapitalismo ed egualitarismo avrebbero tutto da guadagnare, potendo operare una politica di redistribuzione e di trasformazione sociale partendo da una ricchezza nazionale più grande.


Conclusioni


Dobbiamo ringraziare Emiliano Brancaccio per il suo approccio al problema della moneta. Un approccio problematico, che non si riduce ad un sì o ad un no. Ma che muove dalla consapevolezza che sarà questo il terreno decisivo  sul quale si disegnerà l'Italia del futuro. Da qui la necessità di un programma complessivo, che investa le questioni della moneta, della liberazione dalla gabbia europea, di un vero piano per il lavoro, della difesa del salario e delle condizioni di vita del popolo lavoratore.


Per quanto ci riguarda siamo perfettamente d'accordo. Così come riteniamo imprescindibile l'uscita dall'euro e dal suo sistema di dominio di classe, riteniamo altrettanto necessarie tutte le misure volte a consentire una gestione politica di un cambiamento che non dovrà solo essere monetario, ma sociale e politico al tempo stesso.

Ad ogni modo, come abbiamo cercato di dimostrare, gli studi relativi ai più recenti casi di sganciamento da un sistema di cambi fissi - peraltro inerenti a paesi capitalistici che non hanno avviato alcun processo di trasformazione sociale - ci confermano nella scelta di indicare con più forza la necessità dell'uscita dall'eurozona.

Naturalmente, qui si tratta di lavorare per un'uscita forte e consapevole. Si tratta di guidare un processo, non di subirlo come è avvenuto nei nove casi storici presi in esame. Ma su questo sappiamo che l'accordo con Brancaccio è totale. Si tratta allora di operare per smuovere le acque stagnanti che per ora hanno relegato il tema della sovranità nazionale (e monetaria) in ambiti ancora troppo ristretti. Il manifesto della sinistra spagnola dovrebbe aiutarci in quest'opera di scuotimento. Perché non rilanciare in qualche modo questa iniziativa anche in Italia?

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