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Non c'è solidarietà senza verità

di Quarantotto

1. Ieri sono andato al convegno sulla presentazione del "Manifesto di solidarietà europea- una proposta alternativa per superare la crisi", organizzato da a/simmetrie, ed ospitato presso la "Link University".

Sugli interventi dei vari Henkel, Kawalec, Granville e Nordvig, lascio a voi farvi un'idea, dato che, probabilmente molto presto, i loro speeches saranno disponibili in filmato.

La mia impressione è che siano persone tecnicamente preparate (il che è già una rarità) e realistiche, cioè dotate della ovvia trasparenza che consente un dialogo in piena correttezza e reciproco ascolto (Henkel ha detto, senza giri di parole, che quando si è visto che l'Italia sarebbe entrata nell'euro, gli industriali tedeschi erano contentissimi, proprio perchè noi eravamo i loro più abili competitori). Insomma, è un enorme piacere constatare che in Europa esistano ancora esponenti, segnatamente del Nord Europa, che non siano affetti dalla spocchia e dalla insensata chiusura mentale dei nostri normali interlocutori "europei" (e parlo per esperienza personale: in linea di massima, all'interno di questa esperienza, posso solo eccettuare gli inglesi. Think about it).


2. Le perplessità nascono quando si è passati al "dibattito" in cui sono intervenuti navigati protagonisti italiani della "costruzione europea".

Non starò qui a sottolineare questo o quel passaggio di singoli partecipanti, ma cercherò di darvi una sintesi complessiva delle mie impressioni.


Cominciamo col dire che, prima, durante gli interventi, l'ottimo Claudio Borghi Aquilini aveva premesso che ogni discorso partiva dall'idea che "la democrazia è meglio". Pare un'ovvietà, ma in quel contesto, è stato particolarmente significativo. E per le ragioni che i lettori di questo blog conoscono (spero) ampiamente.

Il dissidio tra democrazia costituzionale
(italiana, ma, più in generale, "contemporanea", nella forma "necessitata" indicata da Mortati) e trattati UE, a partire da Maastricht, è del tutto evidente. O meglio, lo sarebbe, se non si fosse "dimenticato" il modello sociale ed economico che questa Costituzione ha indubbiamente abbracciato, per virare, invece, verso un altro modello, assunto "militarmente" nella sua forma strategica di implacabile destrutturazione del primo( sull'onda di un trentennale battage mediatico e "istituzional-culturale" di ampiezza inusitata) .

Questo, in essenza, è il tema del libro che, nel mio piccolo, sta per uscire (a giorni: terrò aggiornati quei coraggiosi che sono interessati).



3. Qui vorrei fare alcune ulteriori osservazioni che prendono spunto dal "dibattito" cui ho assistito ieri.

Ho sentito invocare, come motore per una via d'uscita dalla crisi, la ripresa della solidarietà tra paesi europei, richiamando lo stesso spirito del Trattato del 1957. Cioè attribuendo una continuità storica e strategica, (più o meno implicita) a tutta la "costruzione europea" nel suo complesso.

Questa posizione, nella sua "indistinzione" su fini e struttura dei trattati rispettivamente vigenti ante e post Maastricht (includendo l'Atto Unico, preparatorio della liberalizzazione dei capitali in Europa), porta ad una paradossale implicazione:

- che l'euro sia, in qualche modo, un'evoluzione "aggiornata" al dopo "Cortina di ferro" della solidarietà cooperativistica europea;

- che le "riforme" che, fin dall'inizio dell'applicazione di Maastricht lo dovevano necessariamente accompagnare (il famoso cammino della "convergenza"), ritraggano da questo spirito solidaristico la loro connotazione e, quindi, si dovrebbe supporre, siano anch'esse compatibili con lo Spirito della democrazia costituzionale.



4. La più grande obiezione che muovo a questa insidiosa costruzione dialettico-ideologica, è che leggendo i trattati attuali (per semplicità; essi, infatti, riprendono Maastricht, rinsaldandone i mezzi "strategici"), ma sapendoli leggere veramente, si può, piuttosto, costruire questa interpretazione strutturale nonchè sistematica, di principi cogenti e caratterizzanti:

- i trattati sono intenzionalmente composti da una miriade di parole e di concetti, che nascondono una valenza normativo-positiva (cioè il "quid novi" che introducono nel mondo del diritto vigente), per lo più, in chiave sistematica, pari a "zero", tranne che per alcune norme "scardinanti" (più che "cardine"), accuratamente selezionate e disseminate, in varie versioni e corollari, all'interno di questa pletorica costruzione pseudo-concettuale.

- Una verbosità che, quando si viene al "dunque", della normazione positivamente applicabile conduce a individuare:

a) grund-norm essenzialmente compendiabili nella "forte competizione" in un mercato unico e "stabilità dei prezzi" (riprese da corollari istituzionali- la BCE- e procedurali che li blindano...inavvertitamente, per un un qualsiasi normale lettore non dotato di un sofisticato bagaglio di conoscenze giuridiche ed economiche);

b) che ogni altro aspetto è subordinato e ridotto a "intenzioni programmatiche" di cui conosciamo le procedure complesse ma i cui contenuti sono del tutto aleatori, se non addirittura esplicitamente esclusi;

c) che, infatti, come ben si vede dall'art.6 TUE, sul "riconoscimento" dei diritti fondamentali, che "non estende in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati", tali "diritti" sono derubricati a "principi generali", cioè a previsioni normative che entrano in campo solo in via suppletiva di eventuali lacune della disciplina UE (lacune che, nella monolitica produzione giurisprudenziale delle Corti europee, tendono a non essere ravvisate praticamente mai);

d) che in tal modo, la già "subordinata" tutela dei diritti fondamentali, necessariamente inclusivi dei diritti sociali (il detestato welfare), è lasciata alla cura degli Stati, che, contemporaneamente, in virtù delle suindicate grund-norm, la cui applicazione incondizionatamente prevalente è assistita da tutto il resto della costruzione fondata sui trattati (previsioni procedurali e sanzionatorie, e atti di provenienza delle istituzioni, in testa i Consigli europei), sono posti nell'impossibilità di garantirli.


Continuare su questa analisi esigerebbe uno spazio dimostrativo enorme (nel libro, ci abbiamo provato); ma, da un lato, non basterebbe ad eradicare la convinzione della facciata-vulgata della "continuità evolutiva" della costruzione europea in chi continua e proporcela, dall'altro, si registra una realtà obiettiva talmente evidente che non ha bisogno di dimostrazione.


5. Di fronte a quello che constatiamo ogni giorno, da anni, in tutta Europa, la teoria della "continuità evolutiva" si dimostra per quello che è: un colossale strumento di propaganda idealistica, radicalmente negazionista dei fatti.

E non avrebbe senso polemizzare con i "fatti", se non fosse che il "negazionismo" ha una portata strumentale estremamente utile per la strategia di svuotamento progressivo della democrazia costituzionale delle comunità nazionali, deprivate delle conquiste di oltre un secolo di lotte con una subdola gradualità che non "deve" consentirgli di accorgersene...in tempo.

In tal senso, le "riforme" non sono altro che una metonimia che indica l'accelerata esigenza di mutare irreversibilmente il modello socio-economico costituzionale per instaurare il modello Maastricht, che ab origine, programmaticamente e strategicamente, questa solidarietà esclude.

Ed esclude la solidarietà tra le classi sociali, tra i paesi aderenti, e nella stessa più ampia comunità internazionale
.
Se c'è una solidarietà residua che il modello Maastricht lascia in piedi, questa è quella tra le elites finanziarie-grandindustriali che governano il disegno ideologico (neo)europeo a matrice teorica (parliamo prima di tutto di teoria generale della sovranità e della soggettività/capacità giuridica degli individui-cittadini), "von Hayek" (consciamente o inconsciamente interiorizzata).


6. Il modello Maastricht, incentrato sull'euro, e sull'ambigua (e volutamente lasciata come "indecifrabile) equazione UE=euro, privilegia esclusivamente la solidarietà tra le oligarchie alla riscossa (in sintesi ulteriore: nel "dopo" rottura di Bretton Woods), ipostatizzando, sempre nel modo strategicamente inavvertito alle "masse", vari livelli di implacabile competizione:

- competizione economica nel mercato (lasciata alla ipocrita capacità equilibrativa e "indicativa" dei prezzi, secondo la esclusiva validazione della legge della domanda e dell'offerta), che concentra la normazione "sul mercato" piuttosto che sull'economia (quella cioè in precedenza affidata all'azione degli Stati costituzionali), secondo la versione teorizzata dal "colloquio Lippman", escludendo, come peso insopportabile (nel senso esistenziale e addirittura antropologico inteso da Padoa-Schioppa), e progressivamente, ogni forma di solidarietà "interna" tra classi sociali;

- competizione inevitabile tra Stati aderenti all'Unione, lasciata alla mera composizione dei tassi di cambio reale, possibilmente in situazione di cambio fisso (unione monetaria), in una riedizione forzata degli effetti del gold standard (come ha ben evidenziato, durante gli interventi anche Nordvig). E ciò esclude, altrettanto, programmaticamente (e in modo occultato dai media) la solidarietà tra Stati membri;

- competizione globalizzata, in una sfida raccolta, più che nella inesistente creazione di un'area europea protetta, - nella difesa dei diritti fondamentali o, per capirci, "umani"-, nella cornice mercantilista della realizzazione di una presunta crescita affidata esclusivamente all'export verso il resto del mondo. E ciò trascurando del tutto, di fatto, e al di là di pavide dichiarazioni di intenti, gli effetti di lungo termine che, sulla competitività, svolge la compressione della domanda interna: in termini di risparmio e conseguenti investimenti e profitti, consentiti effettivamente e utilmente solo da costanti interventi pubblici, con sviluppo delle conoscenze, pubbliche e solo poi private.


Ora di fronte qìa questo quadro, o se ne prende atto o si continua a vivere di...equivoci. O meglio, in termini di democrazia costituzionale (continuo a insistere su questo, perchè la Costituzione del '48, esiste e "lotta insieme a noi") a "morirne". Per Maastricht.


7. Dunque, venendo ad alcune affermazioni percepite durante il dibattito, risulta una pura (prosecuzione della) illusione, specificamente italiana, che la crisi possa essere risolta con una "ripresa" della solidarietà europea. Se ciò non fosse, appunto, una pia illusione, basterebbe a smentirla l'atteggiamento della Merkel e di Schauble, e di Olli Rehn e di Van Rompuy, e di Barroso, e...suvvia, non è neppure questione di nomi (se uno cade, come Juncker, magari spifferando scomode verità, a cui peraltro non si reagisce, un altro prenderà il suo posto).

E' questione che chi nega la solidarietà può, a ragione, invocare i trattati e il loro rispetto. E non parliamo del "mero" fiscal compact, che è solo uno sviluppo naturale della strategia di Maastricht (e della ideologia politico-antropologica di von Hayek).
Basti pensare che la Germania, tanto più accettando acriticamente il monetarismo imposto alla BCE da Bundesbank, ha ragioni da vendere sulla censura dell'OMT di Draghi: e anche ben al di là della questione della mission BCE ex artt.123 e 127 TFUE (quelli della mera finalità della stabilità dei prezzi e del divieto di acquisto dei titoli sovrani, per farla breve). Gli artt.124 e 125 del TFUE, infatti, recitano:

Articolo 124(ex articolo 102 del TCE)
È vietata qualsiasi misura, non basata su considerazioni prudenziali, che offra alle istituzioni, agli organi o agli organismi dell'Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri un accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie.

Articolo 125
(ex articolo 103 del TCE)
1. L'Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico. Gli Stati membri non sono responsabili né subentrano agli impegni dell'amministrazione statale, degli enti regionali, locali o degli altri enti pubblici, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese pubbliche di un altro Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico.


8. Allo stesso modo, ci pare puramente formalistico dire che nei trattati originari e negli atti e regolamenti conseguenti a Maastricht si fosse fissata una possibilità di fare "deficit" pubblico al 3%, per consentire la "crescita". Questo limite è già di per sè una rigidità insostenibile, e come tale si è rivelata, drammaticamente in questi ultimi anni, a fronte della esistenza dei cicli economici. Acutizzati, per intrinseca prevedibilità - segnalata fin dall'inizio dagli economisti più prestigiosi-, dai meccanismi di squilibrio competitivo innnescati dalla moneta unica.

Il fatto è che la stessa "de-negativizzazione" del manifestarsi dei cicli - considerati, per dogma, sempre imputabili in sè all'intervento statale nell'economia, la loro risoluzione facendone carico esclusivamente sul fattore lavoro e sulla sua versione imprenditoriale "unfit", la piccola e media impresa, gli alberi deboli del bosco della evoluzione darwinista che considera oligopoli e monopoli quali naturali "manifestazioni" dell'evoluzione della "grande società" del mercato globale-, è l'essenza della neo-macroeconomia classica che governa l'UE.

E quindi "annotare" analiticamente le clausole dei regolamenti sulla "stabilità e la convergenza" culminati nel fiscal compact, evidenziadone la incompatibilità con le superiori norme dei trattati (e quindi la inefficacia-nullità), non riesce a nascondere il vero problema: l'originaria incompatibilità del disegno di Maastricht coi principi fondamentali della democrazia costituzionale. Invocare, pertanto, una ripresa della solidarietà tra Stati, una volta che una ventennale applicazione, ha portato alla affermazione consolidata del paradigma opposto, significa "wishful thinking" accoppiato a una mancanza di prospettiva storico-politica che si scontra con rapporti di forza la cui realtà è evidente in ogni atto e in ogni prevedibile direzione che assume oggi l'azione delle istituzioni UE e degli Stati che, nella logica degli "assetti di fatto prevalenti", che vale nel diritto internazionale, impongono alle prime la propria convenienza.


9. Certamente il sistema, basato sulla irrealistica correzione degli squilibri per forza "naturale" delle leggi del mercato del lavoro sempre più liberalizzato, è destinato al collasso.

Per le ragioni sopra evidenziate, ma non solo qui; eloquentemente dimostrate dai dati esposti da Brigitte Granville, dalle sempre più stringenti angolazioni di vari economisti italiani, al primo posto del quali, in ordine di tempo e di nitidezza inequivocabile dell'analisi, non possiamo non porre Alberto Bagnai.

In questo senso, la "solidarietà nel quadro dei Trattati" attuali, fondata sulla prospettazione della "continuità evolutiva" rispetto alla realtà del "mercato comune" originariamente concepito, è semplicemente una "non soluzione". Non c'è un "euro buono", come non c'è un Maastricht collegabile alla solidarietà, tra Stati e in qualunque altra proiezione che ne rifletta il senso accolto dalle costituzioni democratiche, pluriclasse, successive alla seconda guerra mondiale.


10.C'è solo lo stretto pertugio di europei, che credendo in una forma oggettiva e "primigenia", di dialogo e di reciproca trasparenza, non inficiata dalle formule stantie che dissimulano l'essenza normativa effettiva dei trattati, ricomincino a dialogare sulla base del riconoscimento delle rispettive diversità e della legittimità dei rispettivi interessi nazionali. Democratici e sanciti dalle Costituzioni.

Intanto che qualcuno trovi un altro e migliore modo di garantire il livello di diritti umani e sociali che, in Europa, ha contrassegnato una stagione di civiltà avanzata che si vuole con troppa fretta liquidare per sempre.

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