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L'Euro preso sul serio

di Mimmo Porcaro

La questione dell’uscita dall’euro non può più essere esorcizzata. E così, opportunamente, Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo (due studiosi delle cui analisi ci siamo sempre giovati) hanno discusso in un denso articolo le tesi di Alberto Bagnai, che della moneta unica è lucido e tenace avversario. L’hanno fatto senza esorcismi, appunto, e senza eccessive semplificazioni (anche se, per dirne una, né dal libro dal blog di Bagnai si può dedurre che questi creda che la svalutazione risolve tutto o quasi), ma anche senza convincere chi, come noi, vede nelle tesi di Bagnai un importante contributo alla definizione di una strategia che liberi i lavoratori ed il paese dal giogo che da tempo è stato loro imposto. Vediamo meglio.

Bellofiore e Garibaldo ritengono che Bagnai ben descriva gli squilibri tra le economie dell’Unione europea ed il ruolo in essi giocato dalle bilance dei pagamenti, ma non credono che siano questi squilibri ad aver generato la crisi europea – che è piuttosto una conseguenza della crisi del capitalismo anglosassone e quindi del modello neoliberista in quanto tale – né credono che il recupero della sovranità monetaria e dunque della possibilità di svalutare possano risolvere i problemi dell’innovazione produttiva e della redistribuzione del reddito. Anzi: come l’esperienza italiana dimostra la sovranità monetaria e la svalutazione possono ben essere compatibili con politiche economiche pro-business; ed in più le svalutazioni di oggi (in un ambiente mondiale assai turbolento, conflittuale e segnato dalle incognite derivanti dalla crisi di un intero modello economico) possono avere esiti del tutto imprevedibili.

A nulla serve quindi che Bagnai ci tranquillizzi mostrando (ed in maniera non convincente, secondo i due critici) come le svalutazioni di ieri non siano affatto state catastrofiche: quelle di oggi lo potrebbero essere.

Bagnai, se crede, saprà senz’altro rispondere molto meglio di noi a queste critiche. Qui ci limitiamo a dire che, da punto di vista di chi propende per l’uscita dall’euro, esse non sembrano risolutive. E’ infatti ben probabile che la crisi europea, nei suoi peggiori aspetti, sia un effetto di quella statunitense: ma il punto è che l’Unione europea – nata anche, nelle illusioni di qualcuno, per temperare il potere di Washington e quello dei mercati finanziari – non è riuscita a far muro contro l’onda lunga della crisi atlantica (ed anzi alla fine l’ha usata per disciplinare i paesi del sud). Il punto è che sono stati proprio gli squilibri trai paesi europei (lasciati volutamente irrisolti dai vertici dell’Unione) ad aggravare gli effetti della crisi esponendo la parte debole del continente alla speculazione. Essendo una “moneta senza stato”, ossia non essendo l’espressione di un vero stato unitario, l’euro ha infatti lasciato sguarniti gli stati più deboli: è servito a suo tempo a togliere sovranità monetaria (e quindi strumenti di manovra) a quegli stati ma non è servito, al momento del bisogno, a sostituirla con la garanzia dell’appartenenza ad una forte comunità economica.

Inoltre, se è certamente vero che la sovranità monetaria e la possibilità di svalutare possono tranquillamente essere messe al servizio di politiche che fanno aumentare le esportazioni e i profitti senza indurre investimenti (e quindi senza creare lavoro, domanda interna, ecc.) è altrettanto vero che nella situazione attuale entrambe si presentano ormai come condizione necessaria, anche se certamente non sufficiente, per qualunque tipo di politica economica che voglia anche solo moderatamente intervenire sui meccanismi di formazione del capitale, e poi sulla sua destinazione. Per quanto male si possa dire della svalutazione (ma Bagnai ci ha spiegato con sufficiente chiarezza in che senso essa possa essere considerata un meccanismo fisiologico, e non un atto criminale) è evidente a tutti che un paese che è ormai in deficit commerciale permanente, come il nostro, non può essere condannato in eterno ad avere la stessa moneta di un paese in surplus. Anche perché, corrispettivamente, il paese in surplus ha la stessa moneta di un paese in deficit: insomma l’euro è sopravvalutato rispetto all’economia italiana e sottovalutato rispetto a quella tedesca, e così inibisce le esportazioni di chi dovrebbe aumentarle e favorisce quelle di chi già esporta. Se a ciò si aggiunge che gli squilibri commerciali sono anche e soprattutto squilibri tra crediti e debiti (cosa essenziale, a cui Bellofiore e Garibaldo non danno qui sufficiente risalto) e che questi implicano che il denaro costi di più nei paesi più deboli, appare chiarissimo anche a chi economista non è che l’euro funziona come un meccanismo che fa star peggio chi sta male e fa star meglio chi sta bene, rendendo impossibile ai primi di accumulare capitale da investire e consentendo ai secondi di attrarre capitale nei propri confini. Funziona come un vantaggio competitivo permanente per le economie già forti, aumenta necessariamente gli squilibri, rende molto difficile saldare i debiti e quindi condanna alcuni paesi alla subordinazione costante. Ed in questi paesi condanna soprattutto i lavoratori: perché se non si svaluta la moneta e se la carenza di domanda e di capitali deprime l’innovazione, la competitività può essere cercata solo svalutando i salari.

L’uscita dall’euro si presenta quindi non certo come la salvezza, ma come la condizione preliminare di ogni tipo di politica economica e di ripresa produttiva. Bellofiore e Garibaldo insistono sul fatto che la bilancia commerciale non fa che registrare i rapporti tra le imprese, e che i problemi di questi rapporti non si risolvono agendo sulla bilancia stessa, ma intervenendo direttamente sulla produzione industriale, sull’innovazione ecc. . In tal modo si connettono a quel particolare modo di eludere la questione dell’euro che consiste nel dire, con Marx, che la moneta è frutto dei rapporti sociali, e che quindi prima si devono trasformare tali rapporti e solo dopo, semmai, si parlerà della forma monetaria che ne è espressione. Ma in tal modo non si capisce, a differenza di Marx, che la moneta non è soltanto espressione, bensì anche forma concreta di funzionamento di determinati rapporti sociali: rapporti che non possono essere modificati se non si modifica anche la moneta stessa. Cosicché, intervenendo sull’euro, in realtà si interviene direttamente (anche se non conclusivamente) sulle relazioni tra classi e tra Stati di cui l’euro è espressione e modalità di esistenza. E, nel nostro caso, si offre alla nostra economia quel po’ di respiro che consente di intervenire sui nodi effettivamente cruciali della formazione del capitale (che oggi deve tornare ad essere in buona misura pubblico), dell’innovazione (che richiede un forte e centralizzato intervento statale), del salario (che deve crescere grazie a nuova occupazione e grazie al riconoscimento del ruolo imprescindibile del lavoro nella gestione dell’innovazione stessa). Tutte cose impossibili se non c’è (o se non si può creare) denaro.

Ma, avvertono i due critici, uscire dall’euro e svalutare ci esporrebbe, oggi, ad incertezze e rischi molto maggiori di quelli di ieri, e di quelli che Bagnai sembra immaginare. Questo è un punto di analisi importante, su cui concordiamo: nell’attuale situazione di turbolenza mondiale un’operazione di riconquista, anche parziale, della sovranità monetaria, comporta conseguenze e controeffetti che devono essere assolutamente presi in considerazione. Vuol questo dire che si debba perciò rinunciare all’exit? No: vuol dire che la cosa deve essere affrontata sapendo che l’uscita non è la soluzione definitiva ma l’apertura di nuovi problemi, problemi che potranno essere affrontati solo grazie ad un programma economico e politico assai serio, capace di attrare a sé un forte consenso popolare. E che essa implica, per avere un significato di sinistra, misure radicali quali: indicizzazione dei salari, controllo dei prezzi e del movimento dei capitali, nazionalizzazioni, forte politica industriale, e – last but not least – sganciamento del nostro paese dal riferimento preferenziale al capitalismo atlantico e conseguente apertura al sud europeo, al mediterraneo, ai Brics. Non quindi, come temono Bellofiore e Garibaldo, un semplice ritorno alla nazione, ma la creazione di un nuovo spazio internazionale. Un passaggio molto radicale, certo, che proprio per questo fatica ad essere proposto e tentato. Un passaggio ricco di incognite, nel quale ci impegneremo solo quando la situazione sociale diverrà insopportabile. Ma nel restare fermi non ci sono incognite: c’è piuttosto la certezza di andare verso il completo impoverimento del paese.

Qual è, invece, la soluzione proposta da Bellofiore e Garibaldo? Essi riconoscono, e non è poco che “la sopravvivenza dell’euro nel breve e nel medio termine, in questo quadro, non può che danneggiare il lavoro e le classi popolari, senza per altro che vi sia garanzia alcuna che la moneta unica sia davvero in grado di costituirsi, fuori dalla tempesta, su base stabile”. Prevedono però che, grazie alle OMT di Draghi (le misure che consentono – in forme limitate ed in cambio di duri sacrifici – l’acquisto di titoli di stati in difficoltà da parte della Bce) non vi sarà nessuna precipitazione della crisi della moneta unica. E propongono di puntare non già allo smantellamento dell’euro, ma ad una sua radicale riforma, oppure alla sua sostituzione con una moneta comune, come risultato di una lotta di classe non rinchiusa negli spazi nazionali, ma finalmente dispiegata su scala sovranazionale.

Possiamo parzialmente concordare sul fatto che non sia alle viste alcun crollo imminente dell’euro. Non tanto perché le misure di Draghi abbiano finalmente dato (come pensano i nostri due interlocutori) una dimensione almeno parzialmente sovranazionale alle scelte economiche europee: in realtà gli stati in difficoltà possono ottenere gli acquisti di bond da parte della Bce solo se tutti gli altri stati sono d’accordo sulle loro intenzioni di “risanamento”. Piuttosto conta il fatto che al momento nessuna frazione delle classi dominanti europee ha veramente interesse a rompere la macchina: non la Germania, che ci guadagna, non le classi dirigenti italiane e sudeuropee, che grazie al ”vincolo esterno” sono ormai felicemente dispensate dal render conto ai propri elettori, non i nostri grandi capitalisti, che in Europa trovano se non altro uno spazio consono alle politiche di privatizzazione che li hanno rimpinguati. Nella situazione attuale, e a meno di particolari shock economici, la fine dell’euro può essere provocata solo da una ribellione sociale dei popoli europei e da una direzione politica che sappia indicare con chiarezza sia gli obiettivi che le forme dell’azione.

Quanto agli obiettivi, diciamo subito che l’idea di una “moneta comune” europea non ci convince affatto. Non soltanto perché è difficilmente comprensibile e comunicabile, laddove un secco “no euro” sarebbe molto più efficace. Ma perché questa idea, che nasce per risolvere il problema degli squilibri fra le diverse economie nazionali, presuppone, per essere attuata, che quegli squilibri siano già stati magicamente superati. Nella versione più diffusa (che è quella di Frédéric Lordon) l’euro sarebbe una vera e propria moneta-merce solo nelle relazioni tra economie europee ed estero. All’interno varrebbero le monete nazionali – inconvertibili tra di loro e con la valuta extraeuropea – e l’euro sarebbe solo una moneta scritturale che regolerebbe i rapporti trai diversi paesi europei, rapporti che prevedono la negoziazione continua di svalutazioni e rivalutazioni e/o (ma ciò è più chiaro in altre versioni) meccanismi che impongano il risparmio a chi è in deficit ma anche la spesa a chi è in surplus. Ora, a parte il fatto che, restando intatte le attuali gerarchie tra economie europee, l’obbligo formale alla negoziazione delle svalutazioni favorirebbe inevitabilmente le arre più forti, c’è il fatto macroscopico che, essendo la moneta comune una valuta puramente scritturale e quindi non una merce, essa non è tesaurizzabile e quindi cozza inevitabilmente contro gli interessi del creditore, il quale vive proprio dell’essere il detentore di una merce particolare: il denaro. E creditori sono, in Europa, lo stato più forte e la frazione più significativa del capitalismo, quella bancaria. “Fare” la moneta comune significherebbe quindi aver messo in un angolo Germania e banche, e quindi aver già distrutto l’Unione per quel che oggi è.

Quanto alle forme d’azione, infine, qui si manifesta una delle più grandi illusioni ancora accarezzate dalla sinistra radicale: quella secondo cui uno spazio “più grande” sia necessariamente uno spazio più favorevole alla lotta dei lavoratori e dei movimenti civili. Per cui, se c’è la globalizzazione, viva la globalizzazione: tanto la democratizzeremo “dal basso”. E se c’è l’Europa, viva l’Europa: tanto la trasformeremo in Europa “sociale”. Peccato che sia l’una che l’altra abbiano messo in competizione i lavoratori di tutto il mondo, e che l’Europa, lungi dall’essere semplicemente uno spazio “più ampio” e quindi per ciò stesso (chissà perché) migliore, abbia mostrato di essere piuttosto un meccanismo che più funziona più rende impossibile la propria democratizzazione, perché frantuma il soggetto che dovrebbe “migliorarla”. Lo squilibrio, santificato dall’euro, fra economie e stati europei si traduce infatti in una divisione dei lavoratori: tra chi dal mercantilismo ossessivo ottiene almeno qualche briciola e chi paga solo dazio. E tutto ciò non può che aggravarsi.

Vogliamo dire che siamo contro le lotte su scala europea? Tutt’altro. Si facciano, si organizzino. Anzi: i gruppi dirigenti della “sinistra-sinistra” si abituino a passare il 70% del loro tempo in Europa o comunque a dedicarlo all’organizzazione di movimenti continentali. Dimostrino così che il richiamo all’Europa ed al mondo non è più, come a volte è stato per tutti noi, un trucco per non impegnarsi in cose concrete. Si faccia tutto ciò: ma il risultato positivo di questa azione sarà, con le inevitabili eccezioni, un movimento soprattutto sudeuropeo, che sarà infine inevitabilmente indotto a proporre quantomeno un’uscita regolata e consensuale dalla moneta unica, pur nel quadro di permanenti accordi cooperativi.

E si faccia comunque presto, perché altre minacce incombono, forse peggiori dello stesso euro. Fra poco tutta la costruzione europea mostrerà di essere stata solo la preparazione di un’area atlantica di libero scambio, un’area che imporrà alle nostre produzioni gli standard statunitensi, imporrà definitivamente ai nostri stati di privatizzare praticamente tutto, renderà più acuta la concorrenza tra lavoratori. L’esistenza di un’area europea come spazio già predisposto al libero afflusso dei capitali è lo scivolo che ci porta dritti alla TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), e non è escluso che l’insistenza di Draghi a tenere in piedi l’euro ricorrendo addirittura a misure “non convenzionali” sia dovuta anche al desiderio di non far fallire questo grande progetto che, pietra tombale sulla globalizzazione, coinvolgerebbe definitivamente il nostro Paese, ridotto a misera periferia, in un conflitto con quei Brics che invece dovremmo imitare quantomeno sul punto del controllo dei capitali.

Ogni giorno, ogni secondo in più di sopravvivenza dell’euro ci avvicina irreversibilmente alla TTIPP, e quindi alla distruzione integrale delle basi sociali ed istituzionali per l’azione efficace di una qualunque vera sinistra: è bene che gli “amici” dell’euro tengano conto anche di questo.

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