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Maledetti tedeschi!

La Germania accerchiata dagli “amici”

di Sebastiano Isaia

Essendo la guerra lo stato normale dell’Europa era d’uopo che la Francia si garantisse, diminuendo il territorio e la potenza economica della Germania. Perciò la sola pace possibile era una pace cartaginese
(L. Einaudi, Corriere della Sera, 15 febbraio 1920).

Prima l’ennesimo taglio dei tassi di cambio deciso da Mario Draghi, il nuovo idolo dei «Paesi periferici» (Francia declassata inclusa), poi la procedura di infrazione per il surplus delle partite correnti. Con una terminologia bellica tutt’atro che fuori luogo potremmo dire che i Paesi “amici” della Germania stanno tentando una manovra di accerchiamento ai suoi danni, per costringerla in una posizione dalla quale essa potrebbe venire fuori solo indebolendosi sul piano sistemico. Una manovra che a tutta prima appare  abbastanza azzardata e tutto sommato poco realistica.

L’ultima trovata degli “amici” di Berlino si chiama lotta al nazionalismo economico della Germania. Bruxelles, sulla scia di Washington, accusa il governo tedesco di non fare abbastanza per aiutare i partner dell’eurozona a uscire dalla crisi economica, innescando un circolo vizioso di portata globale. Si imputa al Capitalismo tedesco un eccesso di potenza economica, e si finge di prendere di mira il modello economico della Germania, basato sulle esportazioni e sui bassi salari, dalla prospettiva della costruzione di «una vera Federazione Europea». La Germania, sostengono i Paesi “amici”, non collabora alla riduzione degli squilibri economici (industriali e finanziari) regionali che indeboliscono l’edificio europeo, ma piuttosto fanno di tutto per accentuarli.

«Dov’è finito lo spirito europeista della Germania?» La tanto osannata «economia sociale di mercato» tedesca sembra essere diventata di colpo una mostruosa macchina che semina disoccupazione, precarietà e miseria. «Più che all’Europa, la Germania di oggi sembra appartenere al mondo asiatico». L’ipocrisia degli “europeisti” in questi giorni sta toccando livelli prossimi al parossismo.

Il premier italiano ha colto l’occasione della «sculacciata alla culona» per esternare le solite banalità intorno alle responsabilità politiche che deriverebbero alla Germania dal suo ruolo di locomotiva europea. «Occorre un bilanciamento tra onori ed oneri». Pare che appresa la folgorante battuta lettiana la Merkel si sia prodotta in una teutonica risata che ha surclassato le sue risatine ai tempi di Berlusconi premier. Lo scialbo Hollande non sa che dire, talmente palese è la crisi sistemica nella quale versa la Francia, che trova una puntuale espressione anche nella personale débâcle politica del premier socialista. Solo un raid militare in Africa o in Medio Oriente potrebbe arrestare la sua inesorabile caduta di popolarità nei sondaggi.  Sempre che nel caso tutto fili liscio, beninteso.

Persino un portoghese, che secondo la retorica antitedesca di questi giorni dovrebbe avere il dente particolarmente avvelenato con i tedeschi, è in grado di capire la magagna “europeista”: «Con il rischio di essere accusato di scarso patriottismo, non penso che la soluzione migliore passi attraverso un aumento delle spese in Germania. In primo luogo chi dovrebbe spendere di più: le imprese o lo stato? È difficile, se non impossibile, imporre alle imprese tedesche aumenti salariali che metterebbero in crisi la loro competitività» (A. Costa, Non prendiamocela con le esportazioni tedesche, Diário Ecónomico, 13 novembre 2013). Si pretende dai competitori che non piacciono perché troppo forti che essi gareggino con l’uso di un solo piede e di un solo braccio: troppo comodo, non vi pare? Comunque sia, difficilmente la Germania accetterà di obbedire ai diktat di Washington e di Bruxelles.

«Alcuni economisti sostengono che la riduzione dello squilibrio dovrebbe partire proprio dalla Germania che, a questo punto della storia, dovrebbe aumentare le importazioni verso i paesi dell’area valutaria in difficoltà oppure aumentare i propri salari […] Ma pare che la Germania non stia intraprendendo questa strada. Un recente sondaggio del Wall Street Journal, condotto su 19 blue-chip tedesche industriali attesta che queste stanno spingendo su un trend partito già da tempo: puntare su un mercato di sbocco alternativo a quello europeo, che finora è valso circa la metà del surplus commerciale» (Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2013).

Secondo quanto riporta oggi il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, anche il governo di grande coalizione tedesco in gestazione non prevede per il futuro dell’eurozona alcuna condivisione del debito. In particolare, il rifiuto degli eurobond e dei fondi di riscatto è dato per sicuro. Piegare il «nazionalismo economico tedesco» non sarà un’impresa facile.

Scrive Thilo Sarrazin, un progressista tedesco che non ama l’euro:

«Si sente e si legge spesso la seguente opinione: poiché i paesi del Sud dell’eurozona, così propensi a importare, garantiscono attraverso la loro domanda moltissimi posti di lavoro in Germania, hanno quasi un diritto morale a ottenere dalla Germania anche i mezzi con cui pagare le esportazioni tedesche […] Malgrado la moneta comune, l’interscambio della Germania con l’eurozona si riduce. Paradossalmente una delle cause è proprio la valuta unica, che pure avrebbe dovuto favorire l’interscambio […] Evidentemente l’industria tedesca porta via dai Paesi del Sud Europa una parte delle attività che vi aveva esternalizzato, dato che quei Paesi sono diventati troppo cari, e aumenta la quota di esternalizzazione verso altre aree, per esempio la Cina» (T. Sarrazin, L’Europa non ha bisogno dell’euro, p. 41, Castelvecchio, 2012).

D’altra parte, «L’unione monetaria europea richiede, per funzionare come si deve, che le economie reali e le società di tutti gli Stati membri si comportino, più o meno, secondo gli standard tedeschi. Si tratta di un’impresa mostruosamente ambiziosa e difficile, che molti Paesi toccati dalla crisi vedono, non del tutto a torto, come una forma di arroganza teutonica» (ivi, p. 195). Dal canto suo, la Germania concepisce se stessa come un «facile ostaggio di tutti coloro che, nell’ambito dell’eurozona, dovessero avere bisogno di aiuti economici per qualsiasi motivo». Di qui, per Sarrazin, l’urgenza di ripristinare un sano realismo nella politica estera dei più importanti Paesi del Vecchio Continente, cosa che dovrebbe consigliare ai leader di questi Paesi l’abbandono della moneta unica, almeno in questa fase. «La storia recente, non soltanto tedesca, ci insegna che l’idea che nel lungo periodo sia possibile sostenere un’unione economica e monetaria senza un’unione politica è un’assurdità» (ivi, pp. 6-7). E siccome oggi un’unione politica europea non può non assumere i connotati di una germanizzazione dell’Europa, e non certo di un’europeizzazione della Germania, sarebbe opportuno rimandare sine die la concretizzazione del «sogno europeista». Questo sempre secondo il realista Sarrazin.

Checché ne pensino gli “idealisti” dell’Europa Federale, la Potenza, declinata in ogni modo possibile, gioca come e più di prima un ruolo centrale nei processi storici. Quando Umberto Eco sostiene che l’identità dell’Europa è il dialogo e la cultura, «niente che si possa cancellare malgrado una guerra» (L’Espresso), egli mostra tutti i limiti del pensiero progressista, il quale non riesce a fare i conti con la cattiva realtà di una società lacerata da conflitti d’ogni genere. La riscoperta della dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni anche nel cuore del Vecchio Continente ha spiazzato non pochi intellettuali progressisti, i quali faticano sempre più ad arrampicarsi sugli specchi del politicamente – e culturalmente – corretto.

Paul Krugman si è fatto portavoce degli interessi del fronte unico antitedesco:

«I tedeschi sono sdegnati: sdegnati con il dipartimento del Tesoro Usa, che con il suo rapporto semestrale sulle politiche internazionali per l’economia e i tassi di cambio dice cose negative sugli effetti che le politiche macroeconomiche della Germania producono sull’economia mondiale. Esponenti del Governo di Berlino hanno dichiarato che le conclusioni del rapporto sono “incomprensibili”: una definizione un po’ strana, considerando che si tratta di considerazioni assolutamente ovvie. Normalmente ci si aspetterebbe che l’aggiustamento sia più o meno simmetrico, con i Paesi in surplus che riducono l’attivo e i Paesi in deficit che riducono il passivo. Ma la Germania non ha corretto la rotta e il miglioramento delle partite correnti nei Paesi della periferia dell’euro è avvenuto a scapito del resto del mondo. Pessima cosa. Siamo in una situazione mondiale di domanda inadeguata, con il paradosso della parsimonia (le persone risparmiano danneggiando l’economia) che la fa da padrone. Tenendo in piedi un’eccedenza nel saldo con l’estero sproporzionata, la Germania sta penalizzando crescita e occupazione a livello mondiale. Forse i tedeschi lo troveranno incomprensibile, ma è l’Abc della macroeconomia» (P. Krugman, Berlino danneggia l’economia globale, Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2013).

Diciamo piuttosto che è l’Abc dell’economia politica keynesiana, la quale, com’è noto, è ossessionata dai meccanismi che regolano la domanda, senza peraltro comprendere l’essenza dell’economia capitalistica, la quale non è un’economia orientata verso il consumo, tanto meno quello “di massa”, ma verso il massimo profitto possibile.  Il sottoconsumismo d’ogni genere deve necessariamente rimanere impigliato nella fitta rete degli effetti, che i sottoconsumisti assumono puntualmente come cause.

Il saggio del profitto come reale regolatore dell’economia capitalistica è un concetto che ai keynesiani deve rimanere necessariamente estraneo, dal momento che la loro attenzione è tutta concentrata sui fenomeni che rigano la sfera della circolazione, da essi concepita come il fondamento dell’economia di mercato.  Di qui il loro disprezzo per le persone che «risparmiando danneggiano l’economia» perché sottrarrebbero al motore dell’«economia reale» il necessario carburante. L’intimo nesso che lega l’investimento di capitali al livello del saggio del profitto rimane escluso dall’orizzonte dei keynesiani; essi non hanno ancora compreso come la stessa quota di domanda generata dalla spesa pubblica dipenda, in ultima analisi, dal livello di redditività del capitale e dalla massa di capitale accumulato sulla scorta di questa redditività. Se la valorizzazione primaria del capitale (ossia la produzione del plusvalore nella sfera industriale) langue, è asfittica o è comunque tale da scoraggiare l’ampliamento della base produttiva ovvero la formazione di nuove iniziative imprenditoriali, la massa di liquidità monetaria messa a disposizione dal sistema creditizio non solo non genera nuovi investimenti produttivi, ma crea piuttosto i presupposti per nuove avventure speculative*.

In un post del 2012 (Scenari prossimi venturi) azzardavo l’«ipotesi politicamente scorretta» che segue: «Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai suoi partner? “Signori, togliamo il disturbo!Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!”. Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’Ue? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista (vedere l’editoriale di Barbara spinelli pubblicato ieri da Repubblica e l’editoriale di Marco D’Eramo sul Manifesto di oggi) ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni».

Una riflessione che a quanto pare trova oggi più d’una conferma. Lo ammetto: immaginare il peggio per il futuro dell’Unione europea non è impresa difficile.

Regina d’Europa…

Scrive Bernard Guetta: «La Commissione non sbaglia quando sostiene che la Germania dovrebbe riequilibrare la sua economia per non mettere in pericolo se stessa e il resto dell’Unione, di cui è la prima potenza economica. Come gli altri stati europei e diversi economisti, anche gli Stati Uniti e il Fondo monetario internazionale sottolineano che il rilancio dell’economia mondiale deve passare necessariamente per la Germania, che si trova nella posizione ideale per favorirla perché può permettersi di aumentare i salari, i consumi e le importazioni» (Il cerchio si strige su Angela Merkel, Internazionale, 15 novembre 2013). Notare il necessariamente. La pressione che gli “amici” di Berlino stanno facendo sulla troppo (sic!) parsimoniosa, competitiva ed egoista Germania lascia immaginare una possibile ripresa in grande stile del nazionalismo politico tedesco. Mutatis mutandis, la Questione tedesca (che è una Questione Europea e mondiale) non smette di produrre storia.

Intanto Barbara Spinelli continua a fare il «Processo alla Germania rimasta senza memoria»: «Esattamente come accade oggi, i dottrinari dell’austerità puntarono tutto sulle esportazioni, trascurando i consumi interni. Stremato, il paese che aveva dato a Hitler il 18,3 per cento nel 1930 gliene diede il ’33 nel ’32 e il 43,9 nel ’33, cadendo nelle mani del demagogo che prometteva lavoro, benessere e sangue. Deutschland über alles: la Germania sopra ogni cosa» (La Repubblica, 15 novembre 2013). Un promemoria davvero coi fiocchi per gli “amici” teutonici. Della serie: Paese avvisato… Forse la Spinelli pensa, come Bismarck, che il tedesco non capisce e non può comprendere null’altro fuorché l’intimidazione. La sindrome di Cartagine è sempre in agguato.
 

*Scriveva Luigi Einaudi nel 1933 (Riforma Sociale) prendendo di mira il sottoconsumismo e la deriva psicologista di Keynes: «Normalmente, il contatto tra fattori produttivi e desiderio di beni è posto da imprenditori in cerca di profitti […] Ma l’imprenditore opera, ossia rischia, quando vede la possibilità di un profitto […] Oggi il contatto non si opera perché l’imprenditore non spera profitti» (L. Einaudi, cit. tratta da Il mio piano non è quello di Keynes, p. 204, Rubettino, 2012).
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