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quaderni s precario

Finanza globale e Europa

Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli intervistano Christian Marazzi

3Pubblichiamo la seconda parte (qui la prima) dell’intervista a Christian Marazzi, a cura di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli. I temi trattati riguardano essenzialmente la situazione economica e politica dell’Europa. In vista del convegno sulla Moneta del Comune del prossimo 21-22 giugno, organizzato da Effimera a Milano.

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Stefano Lucarelli: a Davos, Axel Weber, ex governatore della Bundesbank e attualmente  presidente di UBS (Unione delle Banche Svizzere, una delle 10 multinazionali della finanza più potenti, ndr.), ha rilasciato una dichiarazione un po’ fuori dal coro che è tuttavia significativa: “L’Europa è sotto scacco. Sono ancora molto preoccupato. La situazione dei mercati è migliorata, ma non l’economia reale della maggior parte dei paesi. I mercati stanno ora sottovalutando i rischi, specialmente in periferia. Mi aspetto che alcune banche non riescano a passare i test nonostante la pressione politica. Non appena ciò diventerà evidente, ci sarà una reazione finanziaria nei mercati”. Questa affermazione va di pari passo con quella frase che è scappata alla Merkel a dicembre, ripresa solo da Le Monde e da Jacques Sapir: “Presto o tardi, senza la coesione necessaria, la moneta esploderà”: Sapir commenta sul suo blog: “Tutto ciò che la Germania propone ai suoi partner sono dei ‘contratti’ che li portano a sostenere la totalità dei costi d’aggiustamento necessari per la sopravvivenza dell’euro, mentre essa sola trarrà profitti dalla moneta unica. Ma tali contratti non faranno altro che spingere l’Europa del sud e la Francia verso una recessione storica”.

 

Quindi il problema  della calma apparente è ben presente nella testa di chi si trova a ragionare sul tipo di assetto che bisogna dare per governare un’instabilità che in Europa è comunque un’instabilità politica. E in tal senso la frase di Weber stava tenendo conto di quello che diceva Christian Marazzi, nei giorni in cui i dati sull’export tedesco di novembre erano ancora in rialzo e ciò sembrava incoerente con la rivalutazione dell’euro stesso, con il rischio che si sviluppasse una bolla dell’euro. Ora con il calo dell’export tedesco a partire da dicembre 2013 e di quello italiano, si verifica un’inversione che (guardando ai dati di febbraio e marzo 2014, ndr) appare un segnale proprio di un processo più strutturale che congiunturale.

Andrea Fumagalli:  sull’eventuale convergenza o meno della politica monetaria statunitense e quella della Bce, Draghi da un anno e mezzo si comporta in modo opposte alle sue dichiarazioni, a differenza della politica monetaria americana (che lancia messaggi “performativi”), che (come abbiamo discusso nella parte I di questa chiacchierata, ndr.) , in modo apparentemente contraddittorio, si prefigge invece di mantenere  basso il tasso di interesse e allo stesso tempo diminuire il tasso di crescita della moneta. Draghi, invece, fa una serie di annunci del tipo:  “la crisi non è finita, c’è una situazione di stallo, una situazione critica, bisogna continuare con le politiche di stabilità del debito pubblico”, ma in realtà da un anno e mezzo, e in maniera contraddittoria con le sue stesse dichiarazioni, ha iniettato dai 1200 ai 1400 miliardi di euro in maniera indiretta sui mercati secondari. Solo recentemente Draghi ha ufficializzato tale strategia, iniziata già nel 2012, parlando di interventi “non convenzionali” di politica monetaria. La svolta è avvenuta a inizio 2014, una volta ottenuto il placet della Germania, quando, guarda caso, per l’economia tedesca il traino dell’export è diminuito. Tuttavia, tale iniezione indiretta di liquidità non è andato a sostenere la crescita e il finanziamento alle imprese ma è stato sostanzialmente incapsulato dallo steso sistema creditizio finanziario, in particolare dalle banche francesi e tedesche, per rifarsi delle perdite subite dai crediti inesigibili relativi ai bond greci. Parallelamente, tale liquidita risulta estremamente utile, da un lato, in vista degli stress–test e degli esami che la costituzione dell’unione bancaria europea impone sulla struttura patrimoniale delle banche, e, dall’altro, per favorire l’acquisto dei titoli del debito sovrano, al fine di dimnuire lo spread (come è avvenuto in questi mesi). Obiettivo di Draghi in questi ultimi due anni è stato di mantenere quella coesione monetaria che impedisse all’euro di implodere, sotto l’egida del comando finanziario. È una coesione monetaria alla quale non corrisponde una coesione sociale e politica. Quindi di fatto la politica monetaria europea è stata in linea con quella della FED. L’unica contrapposizione, indicata dalla governatrice della FED, è il rischio che si entri in competizione tra area dollaro e area euro per accaparrarsi i capitali che vengono dai paesi emergenti. Tale rischio è basso fintanto che il flusso dei capitali in entrata è cospicuo. Finora il flusso dei capitali che è andato negli USA è di gran lunga superiore a quello che è andato nell’euro, però le borse dell’area euro hanno potuto beneficiare  di circa 600 miliardi. Credo che si entri in una competizione che si può sviluppare proprio perché si persegue la stessa di politica monetaria, in un contesto di forte divergenza della politica fiscale. Da questo punto di vista, ciò che chiamavo convenzione monetaria si sposa con le convenzioni finanziarie. Chiederei a Marazzi se vi è la possibilità che si sviluppi una bolla speculativa sull’euro, legata all’eccessiva rivalutazione dell’euro. Ciò che mi pare di vedere dietro al rischio che ci sia un eccesso di attenzione sull’euro è il fatto che, fuori dall’Europa e fuori dagli Stati Uniti, nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi finanziaria degli ultimi anni, si stanno sviluppando fenomeni di forte instabilità: crisi e tensioni valutarie in America latina (vedi il real brasiliano e soprattutto il peso argentino), in India, (rupia), in Indonesiana, in Turchia e pure in Russia.

A ciò si aggiunge un crescente rischio di insolvenza, quindi una situazione di potenziale “panico”, in Cina per quanto riguarda il mercato creditizio di quel paese, con un forte sviluppo negli ultimi anni del mercato ombra cinese, in seguito anche al ruolo che hanno avuto molti strumenti monetari innovativi come i Bitcoin. Inoltre, l’aumento dei tassi di interesse in Cina e in India crea il rischio di insolvenza nei flussi interbancari di quei paesi. Il rischio è maggiore in India che in Cina per il semplice fatto che c’è la gabbia della Banca centrale cinese (che non a caso ha bloccato la circolazione “ufficiale” dei Bitcoin, ndr). Ma se lo sviluppo del mercato ombra creditizio cinese, in seguito alla dinamica economica cinese, fuoriesce dal controllo, il rischio che scoppi una bolla creditizia in Cina è abbastanza elevato. Già alcuni segnali, relative a alcune compagnie di assicurazioni, sono in atto. A fronte di questa situazione, è chiaro che in una finanza globale, caratterizzata da una concentrazione che vede una quindicina di grandi finanziarie multinazionali gestire e spostare ingenti flussi di capitale con la gestione dei propri portafogli, questo favorisce ulteriormente il flusso di capitale verso l’Europa, malgrado la propria economia reale non brilli, e verso gli USA. E’ un bilanciamento che, tuttavia, non crea stabilità. Se può nascere una bolla sull’euro, è in seguito allo scoppio di una situazione di forte instabilità fuori dall’euro, i mercati latinoamericani e i mercati del sudest asiatico…

SL: Se l’euro si rivaluterà ancora di più, ciò però non garantisce l’esplosione della bolla, garantirebbe un flusso di capitale che paradossalmente potrebbe persino…

AF: Tutto ciò, poi, si innesta in un processo deflattivo: in una situazione di tassi di interesse molto bassi, il valore reale del tasso di interesse tende comunque a aumentare, con l’effetto di aumentare e creare una redditività sui titoli di stato, a parità di inflazione. Ma se il tasso di interesse rimane invariato, come sta accadendo, ma contemporaneamente l’inflazione a livello europeo passa da 2,4 all’1,2 %, si guadagna un 1% netto in termini reali sul possesso di bond del debito sovrano. E’ quindi possibile mantenere elementi di redditività sull’attività finanziaria sui titoli sovrani anche con bassi tassi di interesse.

CM: Sono d’accordo con quanto dite, ma credo che comunque dobbiamo cercare di reinquadrare questo famoso problema della governance o meno di questa crisi. A me sembra che per i prossimi mesi e forse anni, questo tentativo di gestire l’uscita dalla crisi, o comunque la crisi, in termini monetari, in termini di creazione di liquidità, sia destinato a perdurare. Quindi vedo con molta difficoltà un tentativo di uscita dalla crisi sulla base dei soli dati reali: assistiamo a un flebile aumento del PIL in Spagna, in Germania (ma non in Italia).  Ciò dovrebbe portare a una restrizione nelle politiche creditizie, e questo non credo proprio che succederà.

Però, secondo punto, mi sembra che sia evidente che la politica monetaria non è in grado di innescare un’uscita dalla crisi, svolge meramente una funzione di tappabuchi. Il trickle–down, questo sgocciolamento non c’è, quindi siamo in una situazione che possiamo chiamare di trappola della liquidità, per dirla in termini classicamente keynesiani, che di fatto impedisce di uscire dalla crisi, anche perché le diseguaglianze si stanno ampliando a dismisura. Il paradosso di queste politiche monetarie è che più l’economia reale va male, più i mercati finanziari vanno bene. Se si considera la politica monetaria della FED, ogni qualvolta si parla di riduzione del tasso di disoccupazione che nell’immaginario dei mercati finanziari dovrebbe significare un miglioramento dell’economia reale – il che non è sicuramente certo (come abbiamo già discusso, ndr.)  –ci si aspetta una restrizione della politica monetaria. E questo destabilizza i mercati finanziari. Essi, infatti, funzionano fintanto che l’economia reale va male, perché il fatto che vada male significa che le autorità monetarie inietteranno liquidità, e la liquidità iniettata è funzionale ai mercati finanziari. Quindi il paradosso attuale – mi riferisco ai dati che Fumagalli riportava su questi record degli indici Dow Jones e di tutti i mercati finanziari del mondo, è che quest’ultimi funzionano nella misura in cui non funziona l’economia reale.

In questo mancato “sgocciolamento” di liquidità dai mercati finanziari all’economia reale, l’unica effetto che si può constatare è un aumento della povertà, difficile vederne un altro. Le politiche di riduzione dei salari, dell’occupazione, delle prestazioni sociali, del welfare sono all’ordine del giorno ancora oggi in Europa (vedi approvazione del Jobs Act in Italia, ndr.). E ciò non fa che aggravare queste disuguaglianze che, non a caso, sono aumentate in modo pazzesco negli ultimi 5/6 anni: gli stessi Financial Time ed Economist, dal loro punto di vista, si preoccupano di questa tendenza che porta all’esplosione della povertà. Ed è in questo scenario che ci si avvicina alle elezioni europee, un momento credo importante anche se non so fino a che punto.

 

AF: Quanto l’appuntamento elettorale europeo può rappresentare un momento di riflessione e di analisi, per avviare un cambiamento di rotta rispetto alle politiche economiche che sono state perseguite negli ultimi cinque anni, (caratterizzate da una serie di diktat basati sulle politiche di risanamento pubblico, privatizzazione e riduzione più o meno efficiente o selvaggia della spesa pubblica, aumento dei livelli di tassazione, con effetti negativi sul livello della domanda aggregata e sulla dinamica dei consumi e di aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito come effetti della politica di austerity)? Quanto questo appuntamento elettorale può rappresentare, o può essere un momento in cui queste politiche possono essere messe in discussione o almeno creare le premesse per un loro allentamento? Oppure ribadiscono una continuità?

CM: Io penso che sia importante questa scadenza perché mette in moto dei processi di riflessione, di alleanze e di dibattito. Penso che la cosa più importante sia di definire l’Europa come il livello sul quale occorre porsi. Se riusciamo a raggiungere questo risultato, al di là di come andranno le elezioni, ma facendo di questa scadenza un momento di definizione dell’Europa come terreno di elaborazione di strategie e di programmi, mi sembrerebbe già un risultato importante. In sé non credo francamente che queste elezioni saranno in grado non dico di invertire ma di rallentare più di tanto queste politiche di austerità, anche perché il parlamento europeo ha un peso specifico vicino allo zero, come i tassi di interesse. Lì sono altre le dinamiche e le logiche, è la commissione europea, è la BCE, insomma è la trojka che decidono in funzione dei mercati finanziari.

La cosa che va affrontata, ma credo che ne siamo consapevoli tutti, con molta serietà è che dentro questa situazione i potentati oligarchici europei, oggi al potere, hanno veramente un problema. Io lo vivo come qualcosa che sfugge continuamente, dal punto di vista della sua definizione monetaria, dal punto di vista della sua identità, da quello della sua configurazione. Dentro questa difficoltà di pensarsi e di definirsi europei anche a causa dell’aggressività delle politiche monetarie o fiscali, si sta creando un problema di “classe impossibile”, come si diceva una volta, di composizione di classe impossibile, nel senso dell’impossibilità di definirla in base a una sintesi. È vero che siamo nel pieno di una moltitudine, ma una moltitudine che è spuria, che è un crogiuolo di soggetti, di tendenze, di visione dove sembra che sia piuttosto la destra populista ad avere la meglio. Credo che ne vedremo di tutti i colori da questo punto di vista, e in Italia si vedono già, in Francia è forse anche peggio coi sondaggi che riguardano il Front National.

Questo fronte anti–euro ne uscirà rafforzato, ma non porterà al break-up – credo che la spaccatura nell’euro sia stata superata nel momento in cui si è data questa svolta monetaria di fine 2011 –, anche se non si può non vedere che lo stesso rapporto ultimo dell’Unione Europea prevede i prossimi dieci anni come molto problematici, non tanto per l’euro, che viene dato per acquisito, ma per le divergenze che all’interno della zona euro ci sono. Mi sembra che, da una parte, la scadenza delle elezioni è importante e utile per definire il livello europeo come quello adeguato per tutti i problemi che avevamo agitato sul piano locale, il reddito di base, i nodi infrastrutturali, il commonfare, e via dicendo, ma dall’altra parte fintanto che non affrontiamo questo nodo del populismo di destra saremo sempre perdenti.

 

AF: La mia impressione, partendo dalla situazione italiana, è che si stanno sviluppando diverse dinamiche di movimento. L’operare politico dei movimenti si muove non tanto contro ma al di fuori dalle forme rappresentative classiche parlamentari. Negli ultimi anni in Europa si sono date diverse esperienze classiche, dagli Indignados, ai movimenti contro l’austerity in Portogallo, Blockupy, le manifestazioni di ottobre in Italia. Adesso sembra che si sia sviluppata una seconda ondata di movimenti di tipo diverso, molto più ambiguo, che in Italia per esempio si è data in questa forma dei forconi o su un altro livello più spurio del M5S. Qui le forme di movimento, di comunicazione, di aggregazione, hanno dei segni diversi, in parte nuovi, in parte antichi, che non ricalcano il cliché a cui ci eravamo abituati col movimento no-global. E questo pone una sfida sul piano dei movimenti.

La domanda è fino a che punto questa situazione molto ambigua si ponga su un crinale in cui a un certo punto è molto facile cadere da un lato come cadere dall’altro: da un lato, cadere nella retorica nazionalista anti–euro, del nazionalismo sovrano, con forme di leaderismo d’antan, quasi stile anni Venti. Dall’altro, invece, sviluppare una capacità di movimento in grado di posizionarsi solo sullo spazio pubblico europeo, non più come semplice sommatoria de movimenti nazionali, ma innescando un processo del tutto nuovo, in grado di bypassare quelli che sono i confini nazionali degli stati. Da questo punto di vista, le elezioni europee possono essere un primo indicatore di quale crinale sia dominante o meno. Purtroppo anch’io sono abbastanza pessimista, mi pare che la tendenza sia quella di un rafforzamento delle anime revanchiste più populiste e antieuro. Con una difficoltà in più in Italia: quella di mantenere una capacità di movimento, di critica eterodossa, che sposta l’asticella del conflitto e dell’agone politico su un piano propositivo, di costruzione di un nuovo modello europeo, e non semplicemente resistenziale o oppositivo. La domanda è fino a che punto si tratta di un tentativo di creare partecipazione di movimento per un superamento dell’attuale Europa verso una nuova Europa, e non di un superamento dell’attuale Europa per un ritorno a un nazionalismo statuale. Però questo tentativo trova delle difficoltà nel momento stesso in cui si colloca su un piano in cui con i movimenti reali non si è in grado di impattare più di tanto. È più su un discorso di declamatoria teorica, assolutamente condivisibile negli elementi propositivi, ma che non ha forse ancora affinato quegli strumenti di capacità comunicativa e di attrazione che invece i discorsi populisti di destra sono in grado di attuare.

SL: Io vedo che l’inizio di un percorso (europeo, ndr.) presuppone un percorso preparatorio di immaginari e di orizzonti politici che sono più faticosi da disegnare e da illustrare in una situazione in cui il livello di disperazione dei soggetti che sono scesi in piazza recentemente è molto alto e vi è una forte esigenza di urlare la propria rabbia e di fare delle azioni che sono assolutamente mirate al recupero di immagini tipicamente fasciste, nel senso storico del termine. In un paese della bergamasca sono andato a parlare con un signore che dal 9 dicembre sta vivendo in una tenda con una stufa e che fa parte di quello che i giornali hanno chiamato il movimento dei forconi.

Parlandoci ho notato tre elementi. Il primo è la presenza nel linguaggio dell’idea di una marcia su Roma, di un andare a prendersi le istituzioni, occupare le istituzioni. Andare con determinazione non votata a compromessi.

Il secondo è il fatto di ritrovare in una forma quasi infantile tutti gli aspetti più complicati delle dinamiche di movimento. Questo movimento (dei forconi, ndr.), molto fluido, ha già delle spaccature molto evidenti. Mi raccontava che per esempio gran parte di chi si era mobilitato e apparteneva al settore dei trasporti aveva poi di fatto già contrattato autonomamente un anticipo o un pagamento, che era un arretrato della pubblica amministrazione, per evitare di continuare a lanciare l’idea di andare ad assediare i palazzi della politica.

Il terzo elemento è quello più preoccupante, la difficoltà di instaurare un dialogo che recuperi degli elementi del discorso che pure ormai sono presenti nel dibattito di movimento dal 2001. È un altro linguaggio, un’altra esigenza che è più facile che trovi uno sbocco nel linguaggio della destra, entro certi limiti, tuttavia, perché questi soggetti rifiutano l’idea del partito. Quindi l’idea di dover poi convergere in una forza politica che vada a prendere dei voti, o l’idea di farsi rappresentare all’interno delle istituzioni da figure legate a partiti della destra anche non governativa è un qualcosa che probabilmente c’è in modo sotterraneo ma che non rappresenta queste istanze.

CM: Nella complessità politico–sociologica in cui ci troviamo nel definire o anche nel descrivere questi movimenti che hanno queste molteplici forze centrifughe, mi sembra che ci sia un dato innegabile: un elemento di antisistema molto forte e trasversale. È quello che se vogliamo da una parte ci permette di semplificare l’analisi, ma dall’altra è proprio la causa di questa complessità. Sento persone che hanno percorsi simili ai nostri che dicono che voterebbero anche Marie Le Pen pur di far saltare il sistema, o se i grillini dovessero arrivare a un ballottaggio sarebbe la fine di questo sistema europeo che tanto ci deprime.

Di fronte a questo dato molto pericoloso, per quanto possiamo essere d’accordo sull’essere antisistema, credo che sia interessante ragionare sul tema della moneta del comune, perché è un modo di essere contro il sistema. Io mi sento di rifiutare l’aut–aut o euro o fine dell’euro, per quanto io per un certo periodo avessi visto la reale possibilità che l’euro implodesse. E devo riconoscere che non mi è mai stato chiaro quanto non lo auspicassi, e quanto, invece, segretamente, lo auspicassi. La ragione sta proprio negli stessi motivi per cui oggi si è creato questo tensione anti–sistema, perché a un certo punto è chiaro che potrebbe anche non dispiacere l’implosione dell’euro, come a un certo punto sembrava poter accadere, proprio per cambiare le carte in tavola, per far saltare il tavolo. Allora a me sembra che abbia una sua dignità politica il fatto di ragionare sulla moneta del comune perché ci permette di ragionare su un altro modo di essere contro l’euro come sistema, un sistema che certamente non ci piace, tanto quanto non ci piace la sovranità nazionalista monetaria, che sia di destra che di sinistra. Allora a me sembra che bisogna porre politicamente la questione della moneta del comune appunto come rifiuto da una parte di questo aut–aut e dall’altra come definizione di un altro orizzonte di costituzione politica e di movimento.

In realtà siete voi che ne sapete molto più di me, io sono arrivato solo a questo livello del ragionamento attorno alla moneta del comune: da una parte, credo che tutti gli esperimenti che sono stati fatti e su cui voi avete scritto – Bitcoin incluso ma non solo –, siano, riprendendo un titolo di un libro di Paolo Virno, degli esercizi di esodo, degli esercizi nobili peraltro di attivo sottrarsi da quello che è il sistema monetario capitalistico. Quindi c’è questo lato sperimentale che mi sembra molto importante però c’è allo stesso tempo la consapevolezza di un limite di questi esercizi di esodo. Resto pur sempre convinto, alla André Orléan, che la moneta sia un’istituzione che viene prodotta dalla potenza della moltitudine e quindi credo che da questo non si scappi. Qui abbiamo a che fare con delle comunità, di affetto, di lavoro, relazionali, locali, virtuali, che hanno comunque dimostrato che effettivamente si può produrre una moneta sulla base di una fiducia che si può instaurare, sulla base di convenzioni.

 

AF. Concordo totalmente con questa funzione “politica” della moneta del comune. Tertium non datur. Allo stato attuale delle cose, credo che l’alternativa alle politiche di devastazione e saccheggio delle nostre vite, condotte, tramite le politiche d’austerity,  in nome dell’Europa dell’euro, non ci sia la scelta regressiva del ritorno al nazionalismo monetario, ma la pratica costituente di una creazione di un circuito finanziario alternativo, in grado, tramite la creazione di una istituzione finanziaria del comune, di emettere la moneta del comune, non tanto come semplice mezzo di pagamento o unità di conto (attività di scambio) ma soprattutto come mezzo di finanziamento di quella cooperazione sociale (chiamalo general intellect o riproduzione sociale, se vuoi, ma non lavoro cognitivo e riproduttivo) da cui ha origine il comune, in modo da consentirne la riappropriazione. Sono temi da approfondire. Per questo Effimera organizza a Milani il 21-22 giugno un seminario su questi tema. Stay tuned!

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