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sinistra

Elezioni europee, gattopardismo in salsa fiorentina e nuovo partito di massa del capitale

Domenico Moro

“Non eravamo esattamente d’accordo con l’incentivazione degli 80 euro, ma non mi sono azzardato ad avanzare alcun tipo di critica, ho compreso la necessità del governo di bloccare un voto anti europeo.”
Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo

index1. Il quadro europeo: crisi del bipolarismo e del bipartitismo e ascesa degli euroscettici

Negli ultimi mesi i mass media annunciavano e le forze politiche principali temevano la “tempesta perfetta” del voto euro-scettico. Il 22 maggio il Sole24ore titolava: <<Il voto europeo preoccupa i mercati>>, e il 25 maggio, giorno delle consultazioni, aggiungeva: <<Europa alle urne: mercati e riforme appese al voto>>. Invece, martedì 27 lo stesso quotidiano tirava un sospiro di sollievo: <<Piazza affari vola dopo il voto, Milano (+3,61%) miglior listino d’Europa>>. Anche le altre borse non se la sono cavata male: Madrid +1,22 per cento, Francoforte +1,28 per cento, persino Parigi cresce pur con un modesto +0,75 per cento.

La borsa è uno dei termometri che misurano l’opinione del capitale rispetto all’andamento della politica. Quindi, tutto bene per i circoli dominanti dell’establishment economico e politico? No, non proprio tutto bene. L’ondata euroscettica si è manifestata con forza, sebbene non così potente dappertutto come l’establishment europeista diceva di temere. A questo proposito, due sono gli aspetti più interessanti.

Il primo è l’arrestarsi del trend ultratrentennale della disaffezione al voto europeo, che ha portato i votanti continentali dal 62 per cento del 1979 al 43 per cento del 2009 e al 43,1 per cento nel 2014. L’arrestarsi della crescita dell’astensionismo, che pure rimane molto alto, è però da collegarsi all’affermazione dei partiti euroscettici.

Il secondo è la conferma che il sistema bipolare - e ancor di più la sua declinazione bipartitica - è in crisi in tutta Europa, anche se in alcuni Paesi lo è di più e in altri meno. I due principali gruppi al Parlamento europeo, il Partito popolare europeo (Ppe) e il Partito socialista europeo (Pse), calano complessivamente dal 63 per cento al 54 per cento dei seggi totali. La contrazione dei voti e dei seggi non è però uniforme. È molto forte per i Popolari che crollano da 274 a 213 deputati e minima per i Socialisti che calano da 196 a 190. Anche i due raggruppamenti che solitamente rappresentano gli alleati naturali a livello nazionale e europeo di Ppe e Pse appaiono in difficoltà. I liberali subiscono una forte flessione, scendendo da 83 a 64 seggi, e i verdi più modestamente calano da 56 a 53 seggi.

Contrariamente alla prassi costante in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e affermatasi anche in Italia negli ultimi venticinque anni, i voti e i seggi si spostano dal “centro” verso le “ali estreme” dell’arco parlamentare. La destra radicale (Libertà e democrazia) cresce da 31 a 38 seggi. La sinistra radicale del Gue-Ngl avanza dal 4,6 al 6 per cento dei voti ovvero da 35 a 42 seggi, grazie all’Irlanda e al Sud dell’Europa, soprattutto a Italia, Spagna e Grecia. Ci sono poi ben altri 105 seggi, composti prevalentemente di partiti che, in modo molto generico, possiamo definire euroscettici, come l’M5S di Grillo e il Fronte Nazionale di Le Pen.

La crisi del bipartitismo si è tradotta in tracollo dei partiti principali nel Regno Unito e soprattutto in Francia, nazioni dove, per la prima volta1 in una competizione elettorale è prevalsa una terza forza estranea al normale bipolarismo. Nell’Esagono il Fronte nazionale della signora Le Pen è passato dal 6,3 per cento del 2009 al 24,9 per cento del 2014. Il Psf, partito del presidente in carica Holland, ha raccolto appena il 14 per cento dei voti mentre l’Ump, il partito di centro-destra dell’ex presidente Sarkozy, si è fermato al 20,8 per cento. Risultati simili si riscontrano nel Regno Unito, dove il partito euroscettico Ukip è primo con il 27,4 per cento davanti ai laburisti con il 25,4 per cento e ai conservatori del primo ministro Cameron con il 23,9 per cento. Sebbene in modo meno eclatante, anche in Spagna il bipolarismo esce male dalle elezioni europee. I due principali partiti, pur conservando i primi due posti, perdono ben cinque milioni di voti. Il Partito popolare del premier Rajoy è primo con il 26,1 per cento ma aveva il 42,72 per cento nel 2009, Il Partito socialista è secondo al 23 per cento ma aveva il 39,33 per cento nel 2009. Viceversa, la sinistra radicale si posiziona al terzo posto, passando dal 3,77 per cento del 2009 al 10 per cento del 2014. Al quarto posto si posiziona con l’8 per cento un nuovo partito, Podemos, che raccoglie sul piano elettorale le istanze del movimento degli “indignados”. La Germania è l’unico grande paese europeo dove sembrerebbe che il bipolarismo e il bipartitismo abbiano tenuto. La CDU-CSU della Merkel perde il 2,5 per cento (-8 seggi) ma la Spd guadagna il 6,5 (+4 seggi) per cento. I verdi perdono l’1,4 per cento (-3 seggi) e la Linke rimane stabile come percentuale di voti al 7 per cento ma perde un seggio. Tuttavia, l’affermazione di un nuovo partito, l’euroscettico Afd, che raggiunge il 7 per cento e 7 seggi, è significativa del fatto che anche nell’unico (o quasi unico) Paese che ha beneficiato dell’unificazione europea soffia un vento nuovo.

 

2. La situazione italiana: differenze e somiglianze con l’Europa

L’Italia si presenta come un caso a parte tra i maggiori Paesi dell’Europa e dell’area euro. Qui, contrariamente al resto d’Europa, il principale partito di governo ottiene un successo schiacciante, ottenendo quasi il doppio dei voti del partito secondo classificato. Il Pd è in termini di voti assoluti (11,2 milioni) il principale partito europeo e in percentuale (40,8 per cento) tra i primi quattro. Un’altra differenza è l’aumento consistente dell’astensionismo. Tuttavia, anche in Italia il bipolarismo classico è saltato, con l’M5S che si conferma al secondo posto mentre Berlusconi e il centro-destra sono in piena crisi, che è politica ancor prima che elettorale. A dispetto del calo della partecipazione al voto (58,7 per cento) non solo rispetto alle politiche del 2013 (75,20 per cento) ma anche rispetto alle europee del 2009 (66,47 per cento), il Pd aumenta i suoi voti assoluti di oltre 2,5 milioni rispetto al 2013 e di 3,2 milioni rispetto al 2009 (Tab. 1 e 2). Tutte le altre forze politiche perdono voti in termini assoluti, con l’eccezione di due formazioni di destra. Fratelli d’Italia ottiene un buon risultato guadagnando 339mila voti, ma non riesce a superare lo sbarramento e non elegge nessuno. La Lega guadagna 297mila voti rispetto al 2013, ma perde 1,4 milioni e 4 punti percentuali rispetto al 2009.

La maggiore emorragia di voti è registrata dal Movimento cinque stelle che perde, rispetto al 2013, quasi 2,9 milioni di voti. Forza Italia, se considerata da sola, perde in confronto al Pdl del 2013 2,7 milioni e, se considerata insieme con Ncd-Udc, perde 1,5 milioni, ma l’Udc in realtà nel 2013 correva con Monti e quindi si può stimare una perdita reale, rispetto al Pdl del 2013, di circa 2 milioni. Se, invece, facciamo il confronto tra europee del 2013 e del 2009 appare con maggiore evidenza il rovesciamento dei rapporti di forza tra Pd e (ex) Pdl, e il tracollo di Berlusconi e del centro-destra (Pdl+Udc), che perde quasi la metà dei consensi assoluti, ovvero quasi 6 milioni di voti, e 16,9 punti percentuali.

tab.1

tab.2

Più difficile è stabilire dei confronti a proposito della sinistra radicale, perché in quest’area la scomposizione e ricomposizione delle sigle e delle alleanze politiche e elettorali è stata molto complessa. Comunque, se inseriamo in quest’area il Prc e le sue scissioni maggiori cioè Sel e PdCI, più verdi e Idv osserviamo che rispetto al 2013 si riscontra una perdita assoluta di 314mila voti pur in presenza di un lieve aumento percentuale (+0,2 per cento), che consente alla Lista Tsipras di superare lo sbarramento. Più impressionante il confronto con il 2009, con una perdita di quasi 2,9 milioni di voti. Però, la stragrande maggioranza di questa perdita è dovuta all’Idv, che perde da sola quasi 2,3 milioni di voti. Al netto dell’Idv rimane una perdita di circa mezzo milione di voti.

Possiamo fare qualche ipotesi sui flussi di voti, in primo luogo sui flussi verso il Pd. Il primo comandamento di una forza politica e di un leader è quello di conservare i propri consensi e poi di conquistare i consensi altrui. Secondo una indagine del Cise della Università Luiss e relativa al voto in cinque grandi città italiane (Venezia, Parma, Firenze, Torino, Palermo)2, il Pd avrebbe il più alto tasso di riconferma del voto e catturerebbe da tutti gli altri partiti i consensi espressi nel 2013. Il Pd prende dal Pdl, dalla Lega, da Sel e dal M5S ma soprattutto da Monti, la metà del cui elettorato passa nel Pd. Fi, M5S e Rivoluzione Civile sono quelli che cedono di più all’astensionismo. L’M5S perde a favore dell’astensionismo a Parma (dove esprime il sindaco Pizzarotti) e a Palermo rispettivamente il 45 e 46 per cento, a Torino il 28 per cento. Il Pdl raggiunge punte di astensionismo del 61 per cento a Palermo e del 58 a Venezia, cedendo, fra i partiti, soprattutto a Fratelli d’Italia e a Parma l’11 per cento alla Lega. Per quanto riguarda la sinistra, i voti raccolti nel 2013 da Rivoluzione civile vanno nel 2014 in primo luogo all’astensionismo (dal 58 per cento di Venezia al 18 per cento di Palermo) e solo come seconda scelta a Tsipras (dal 30 per cento di Venezia al 13 per cento di Palermo). Sel riesce a traghettare solo una parte (anche se maggioritaria) dei voti in Tsipras (dal 58 per cento di Firenze al 41 di Palermo), disperdendo il resto prima verso l’astensionismo e poi verso il Pd.

Da questi confronti si conferma, in primo luogo, che la caratteristica del sistema politico italiano è l’alta infedeltà degli elettori, che si traduce nell’estrema variabilità del voto e nel travaso continuo di consensi da una formazione all’altra. Rispetto al quadro del 2009 e soprattutto rispetto al periodo storico che sta tra le vittorie di Berlusconi del 1994 e del 2008, la situazione è molto mutata e soprattutto è diventata più incerta, nonostante la schiacciante vittoria di Renzi, a dimostrazione di come le leggi elettorali maggioritarie (sbarramenti compresi) non abbiano nulla a che fare con la stabilità, che è concetto diverso dalla governabilità. Infatti, mentre il primo concetto implica l’eliminazione della instabilità economica e degli squilibri socio-economici, la governabilità implica il mantenimento di una certa coerenza nella linea prevalente a livello economico e sociale. Nonostante tutto, negli ultimi anni le linee di politica economica generali, in Italia e in Europa occidentale, sono rimaste abbastanza uniformi, a prescindere dalla coalizione o dal partito di maggioranza. L’Italia con la affermazione di Renzi si dimostra, come avvenuto già con Monti e Letta, il Paese più allineato alle direttive della Bce e della Commissione europea. Non è un caso che l’elettorato di Monti sia migrato in massa verso il Pd renziano. Infatti, il Pd fu il maggiore sostenitore del premier Monti, il cui governo è stato il più allineato alle politiche europee degli ultimi anni. Tuttavia, il successo di Renzi presenta delle debolezze e dei limiti che, nel caso in cui si acuissero, potrebbero mettere a rischio tutto il progetto di Renzi e di chi gli sta dietro.

 

3. Le cause della crisi del bipolarismo e dell’ascesa del Pd renziano, ovvero del progetto di partito di massa del capitale

La crisi economica strutturale sta colpendo da sei-sette anni l’economia dei Paesi più sviluppati, senza che se ne veda la fine. Questa crisi è più grave in Europa occidentale, a causa delle politiche restrittive praticate dai singoli governi in base alle direttive europee. Tali politiche pubbliche restrittive, unite agli effetti del crollo degli investimenti privati e della delocalizzazione delle attività industriali, hanno un impatto devastante sulla società europea. Infatti, mentre si creano una disoccupazione e una sottoccupazione di massa, il welfare viene ridotto e l’intervento statale nell’economia gravemente limitato dalle normative europee. Di fatto, il combinato disposto della crisi e della unificazione economica e valutaria europea sta facendo saltare il patto sociale tra capitale e lavoro salariato su cui si reggeva la società europea dalla fine della Seconda guerra mondiale. Alla fine del patto sociale post-bellico corrisponde anche la modificazione della legislazione e dei meccanismi di funzionamento della democrazia rappresentativa, che porta al prevalere degli esecutivi nazionali e delle articolazioni sovrannazionali non elettive controllate del capitale finanziario europeo (dalla Bce alla Commissione europea) sui parlamenti nazionali. La crisi del bipolarismo è un effetto di queste trasformazioni. I partiti maggiori sia di centro-destra sia di centro-sinistra, sui quali si fondava il bipolarismo, sono stati puniti dall’elettorato perché non sono più garanti del patto sociale e vengono identificati con la gestione bipartisan il processo di unificazione europeo.

Le scelte che i cittadini europei hanno fatto nell’urna dipendono in larga misura dalla loro interpretazione delle cause della crisi e del peggioramento delle loro condizioni di vita generali. Le interpretazioni sono essenzialmente di due tipi. La prima attribuisce il peggioramento al ceto politico e al sistema dei partiti, e quindi agli sprechi e ai costi della politica, alla corruzione e alla incapacità gestionale. La seconda attribuisce le difficoltà al processo di integrazione europea. Questa seconda tesi si presenta in molte gradazioni ai cui estremi ci sono due posizioni opposte. Una è quella secondo la quale la crisi dipende da una “insufficienza” di Europa e richiede il rafforzamento dell’integrazione, fino a prefigurare gli Stati uniti d’Europa. Un’altra è quella secondo cui la crisi dipende da un ”eccesso” di Europa e richiede una più o meno ampia marcia indietro, che arriva fino alla fuoriuscita dall’euro. Inoltre, ad influenzare il voto c’è anche una diffusa insofferenza nei confronti dell’aumento dell’immigrazione, cui da una parte dell’elettorato più povero viene attribuita una corresponsabilità nella crisi del welfare. La questione della corruzione e dell’inadeguatezza della classe politica è una tematica interclassista. In Italia la questione della “casta dei politici” è alimentata dai mass media controllati dai grandi gruppi economici (Corriere, la Repubblica, il Sole24ore, la stampa, ecc.) ma è sentita in tutti i settori sociali. La questione dell’Europa è invece percepita in modo diverso. Il grande capitale, ovvero le imprese multinazionali e la finanza, sono favorevoli all’Europa e, se la criticano, lo fanno per pretendere una maggiore integrazione. Le piccole e medie imprese, fortemente penalizzate dalla crisi e dai processi di unificazione europea, sono molto più critiche e spesso invocano un recupero della sovranità nazionale economica e monetaria.

Le varie interpretazioni della crisi si presentano insieme in un mix ideologico-politico in cui la prevalenza dell’una o dell’altra varia da Paese a Paese e da partito a partito. L’affermazione dei nuovi partiti cosiddetti euroscettici e populisti così come l’affermazione di personalità “nuove” o percepite in questo modo nei partiti tradizionali, come Renzi, dipende da questo mix. I partiti euroscettici e populisti sono, però, quasi sempre egemonizzati dalla piccola borghesia, anche se riescono a egemonizzare grosse fette di classe operaia e di salariati, che percepiscono il ruolo devastante del processo di unificazione economico e valutario sulle loro condizioni. Il Fronte nazionale, ad esempio, si è affermato al di fuori delle sue aree tradizionali di insediamento nel Sud della Francia proprio fra la classe operaia nelle aree di ex insediamento del Pcf devastate dalla ristrutturazione e dalla delocalizzazione, come il Nord-Pas-de-Calais. L’Ukip britannico di Farage, l’M5S, la Lega, e il Fronte nazionale della signora Le Pen hanno una base di classe ed esprimono sentimenti popolari simili anche se non possono essere messi tutti sullo stesso piano politico-ideologico.

In Italia, il quadro politico risulta scompaginato dai risultati delle elezioni europee. La vittoria di Renzi appare come il trionfo del “nuovo che avanza”, un refrain, per chi lo ricorda, degli anni ’90, di cui si sono visti i risultati. L’ex sindaco di Firenze, però, non è esattamente qualcosa di nuovo. Certo, Renzi rappresenta una importante novità, ma non nel senso che molti auspicano. Renzi è anch’egli, come Berlusconi, un arci-italiano, rappresentando un classico esempio di quel gattopardismo (o trasformismo) che è tipico della storia del nostro Paese: cambiare tutto affinché nulla cambi. Nello stesso tempo rappresenta (o potrebbe rappresentare) una novità: il Pd renziano è la risposta ad una carenza storica del nostro Paese, la mancanza di un partito di massa del capitale. La Dc assolse in parte a questo compito, ma era un partito troppo dipendente dal patto sociale e dalle mediazioni di un epoca caratterizzata da altri equilibri interni ed internazionali. I veri partiti del capitale durante la Prima repubblica erano quelli repubblicano e liberale, che infatti ricoprivano un ruolo di potere superiore alla loro limitatissima forza elettorale. Il nuovo partito democratico è, per usare una categoria politologica, un partito “pigliatutto”, cioè un partito che raccoglie consensi da tutti i settori sociali, ma riconducendoli sotto l’egemonia dei settori dominanti del capitale. In questo, forse più simile a un blocco sociale (in senso gramsciano) che a un partito. In questo il Pd è simile alla Dc, con la importante differenza che nel Pd l’egemonia del settore di vertice del capitale è indiscussa, mentre nella Dc il suo carattere consociativo e corporativo garantivano un maggiore margine di manovra alle altre classi sociali.

L’evoluzione del Pd e del quadro politico non sarebbe comprensibile se non considerassimo l’evoluzione della struttura economico-sociale del Paese. Negli ultimi vent’anni la struttura, ancora prevalentemente nazionale, del capitalismo italiano è stata attraversata da un processo di forte modificazione. Le imprese italiane sia quelle pubbliche, che sono state privatizzate, sia quelle già private sono sempre più partecipate dai capitali esteri, soprattutto nord americani e europei occidentali, e sempre di più imprese operanti con investimenti su scala globale. L’entrata del capitale estero e l’internazionalizzazione sono state accompagnate dalla disgregazione delle reti e degli equilibri di potere preesistenti, coincisa con la fine del ruolo dei patti di sindacato e della centralità di Mediobanca nel controllo delle imprese maggiori (Telecom e Rcs in primo luogo). Oggi, in Italia si afferma il modello anglosassone della public company e il capitale italiano è molto più integrato con il capitale estero occidentale e caratterizzato da nuovi equilibri di potere. L’integrazione europea e in particolare quella valutaria sono funzionali alle esigenze del capitale passato dalla fase nazionale alla fase transnazionale, così come lo è il rafforzamento del rapporto tra Europa occidentale e Usa sul piano sia militare (rafforzamento della Nato) sia commerciale (TTIP).

Berlusconi storicamente ha rappresentato il tentativo di limitare le conseguenze di tale trasformazione, iniziata con “Mani Pulite”, il cui scopo era la distruzione di Dc e Psi, all’ombra dei quali erano cresciute determinate concentrazioni di potere economico e che erano riluttanti a disfarsi delle partecipazioni statali. Tramite Berlusconi le forze sociali che stavano dietro quei partiti (borghesia di stato, piccola e media impresa, grande impresa poco o nulla internazionalizzata, ecc.) hanno cerca to di salvare almeno in parte gli equilibri di potere preesistenti. Invece, il Pds-Ds-Pd e più in generale il centro-sinistra prodiano si sono rivelati i migliori interpreti delle istanze innovatrici dal punto di vista della frazione del capitale più internazionalizzata (ma regressive dal punto di vista dei lavoratori), allineandosi in modo più coerente alle politiche di integrazione valutaria, di deregulation del mercato del lavoro, di privatizzazione e di severità di bilancio dell’Europa e a quelle militari della Nato. Tuttavia, il Pd, nato con l’aspirazione veltroniana a essere partito maggioritario, non è riuscito a raggiungere quel livello di consensi che gli consentisse di svolgerne il ruolo. C’era bisogno che l’equilibrio politico della Seconda repubblica si deteriorasse maggiormente. Due sono stati gli aspetti determinanti a questo proposito: la minaccia di default e le pressioni europee, che hanno trovato sponda in Napolitano e che hanno condotto alla defenestrazione di Berlusconi e all’insediamento di Monti, e la continua campagna contro il sistema dei partiti gestita dai mass media controllati dai gruppi economici maggiori.

La critica al ceto politico è un aspetto specifico dell’Italia, che, almeno in questa intensità, non si riscontra altrove, e che richiama alla mente la situazione dell’epoca di “Mani pulite”. La rabbia popolare per il peggioramento delle proprie condizioni di vita viene canalizzata verso il ceto politico in quanto tale, nascondendo nello stesso tempo le responsabilità di fondo della crisi del modo di produzione e delle scelte neoliberiste giustificate con le direttive europee. Del resto, la critica alla politica rimane ad un livello di superfice, e non entra nel merito della maggiore delle responsabilità dei vertici politici, ovvero l’adesione ai trattati e alle scelte neoliberiste dell’Europa. Quel che è ancora più importante notare, però, è che la critica al ceto politico presuppone la necessità del suo “rinnovamento”. Un rinnovamento che ovviamente, per i circoli economici dominanti, si traduce nell’avvicendamento di un ceto politico ormai “bruciato” con un nuovo ceto politico più adatto e disponibile a mettere in atto quelle controriforme che sono necessarie alla riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica nella fase transnazionale.

La fortuna dell’M5S nasce dalla capacità di Grillo di inserirsi in questa campagna “antipolitica”, sfruttando un terreno reso già fertile dai mass media controllati dai gruppi monopolistici e proponendosi come fustigatore dei mali della politica. Del resto, è di più immediata comprensibilità una spiegazione della crisi con le critiche al ceto politico che non con il ricorso a spiegazioni sul funzionamento dell’economia, magari più sostanziali ma meno facilmente comprensibili a livello di massa, specie dopo una campagna ideologica di trent’anni sulla bontà del libero mercato, termine “neutro” per definire il capitalismo. Grillo, dunque, svolge alle elezioni politiche del 2013 una funzione “positiva” per il capitale, nel senso che accelera la crisi del sistema partitico e apre la strada al “rinnovamento”, drenando voti anche dal centro-destra e contribuendo alla messa all’angolo di Berlusconi. Allo stesso tempo Grillo rappresenta, però, per il capitale anche un pericolo. L’M5S è, infatti, un movimento interclassista e la sua direzione politica è piccolo-borghese. Malgrado Grillo, nel suo tentavo di fare il pieno di consensi, usi in modo spregiudicato argomenti anche di destra (ad esempio l’immigrazione) e recentemente si sia avvicinato all’Ukip di Farage, una larga fetta dei parlamentari e degli attivisti dell’M5S si caratterizza spesso per posizioni democratiche in senso classico (come la difesa del ruolo del parlamento), riecheggiando non di rado temi tipici della sinistra. Inoltre, l’M5S ha assunto anche un atteggiamento di opposizione al processo di unificazione europeo, compreso quello valutario, che è invece essenziale per il capitale. Dunque, se va bene il ruolo “sfascista” di Grillo e dell’M5S nei confronti del sistema politico, va molto meno bene per i vertici del capitale che questa formazione acquisisca posizioni di potere politico.

L’uomo destinato a cogliere i frutti della spinta al “rinnovamento” non è Grillo bensì è Renzi. Renzi ha in comune con Grillo l’avversione contro il vecchio ceto politico, ma è molto diverso. Anzi, come si capisce bene dalle parole di Squinzi da noi citate in apertura, è la risposta del capitale a Grillo. Nasce, infatti, come “rottamatore” della vecchia classe dirigente del Pd, ma proviene dalle file di una delle sue componenti e soprattutto è in linea di continuità con vent’anni di evoluzione della sinistra moderata dal Pds (e dal Partito popolare) fino al Pd di Veltroni del 2008. Il successo di Renzi, non è spontaneo, è stato costruito con molta attenzione dai media controllati dai gruppi principali, facendolo apparire nello stesso tempo un innovatore radicale e un politico moderato. Con un’abile regia, dopo che Bersani e il vecchio gruppo dirigente avevano dimostrato di non essere capaci di prevalere neanche su di un ormai logoro Berlusconi, Renzi viene prima condotto al vertice del partito, scalzando il vecchio gruppo dirigente, non solo ex Pci ma anche ex popolare, e poi, al momento opportuno, viene posto al governo, eliminando senza tanti riguardi il premier Letta (un altro popolare), incapace di imprimere alle controriforme quella velocità richiesta dal capitale. Nel corso di questo tempo, Renzi ha costruito legami e rapporti con chi conta in Italia e fuori, mantenendo contatti in Vaticano e recandosi anche negli Usa e, dove si è accreditato. Renzi è l’uomo giusto al posto giusto. Ciò vuol dire che è l’uomo in grado di rappresentare il “rinnovamento” all’interno del partito che più coerentemente ha espresso una linea europeista, che meglio ha assecondato le trasformazioni delle strutture del capitalismo italiano, e che soprattutto ha la forza elettorale e politica potenziale per gestire il proseguimento di queste trasformazioni. È in questo modo che si è realizzato un “rinnovamento” nella continuità, come si sarebbe detto in altri tempi e in altri partiti.

I risultati delle elezioni europee del maggio 2014 hanno dimostrato che “l’operazione Renzi” ha avuto successo, almeno per il momento. Renzi è riuscito lì dove altri del Pd non potevano riuscire, cioè è riuscito a sfondare in bacini elettorali non tradizionalmente del Pd come quello dell’artigianato e della piccola e media impresa del Nord-Est, che avevano votato Lega per vent’anni e che alle politiche del 2013 avevano subito una estemporanea fascinazione per Grillo. Basti pensare che il Pd registra, rispetto alle politiche del 2013, l’incremento maggiore in Veneto con il +43 per cento, pari a 350mila voti, preannunciato del resto dalla vittoria del sindaco Pd contro la Lega a Treviso qualche mese fa3. Il Pd, quindi, riesce a mettere insieme in un unico blocco sociale il settore di vertice capitale finanziario e transnazionale che è la sua vera classe di riferimento, con settori intermedi (la piccola e media impresa, l’artigianato, la piccola borghesia intellettuale) e ampi settori di lavoro dipendente soprattutto pubblico, attraverso la cinghia di trasmissione sindacale (soprattutto la Cgil), i quali costituiscono la sua base di massa.

Tuttavia, come abbiamo detto, la situazione politica dell’Italia è stata caratterizzata, almeno fino ad ora, da una forte variabilità e rimane aperta a scenari diversi. I concorrenti del Pd oggi sembrano essere in difficoltà, ma non bisogna dimenticare che la competizione europea è ben diversa da quella per le politiche. Il forte astensionismo ha penalizzato Forza Italia, il centro destra e il Movimento cinque stelle, e i milioni di italiani che si sono astenuti possono ritornare in gioco alle prossime elezioni. Berlusconi appare personalmente in declino, ma il centro destra, sommando i risultati alle europee di Fi, Ncd-Udc e Fratelli d’Italia, rimane ancora forte. A patto che riesca a trovare una leadership alternativa a Berlusconi. Il Movimento cinque stelle presenta i limiti che storicamente affliggono i partiti a direzione piccolo borghese: il posizionamento politico contraddittorio, l’ideologia ambigua, e l’incapacità, per la loro stessa natura sociale a metà strada tra classe lavoratrice e classe borghese, di costruire una opposizione e una alternativa al capitale. Inoltre, l’M5S non dispone di una struttura organizzata e di un vero e sperimentato gruppo dirigente, e, essendo un partito “carismatico”, è portato a confidare troppo su un leader troppo innamorato sulla sua abilità istrionica e poco capace di costruire alleanze e delineare prospettive politiche strategiche e tattiche. A causa delle sue contraddizioni interne, l’M5S corre il rischio di andare incontro ad un processo disgregativo. Per il momento, però, nonostante tutti i suoi limiti, l’M5S si è confermato la seconda forza politica, è molto forte tra i giovani e può ancora rendersi punto di riferimento principale se non unico di un’area di malcontento molto ampia, specie in assenza di una proposta adeguata a sinistra.

Renzi è riuscito a presentarsi come un credibile candidato al rinnovamento, ma la sua capacità di confermare la presa del Pd sul composito blocco politico-sociale che ne costituisce l’elettorato è per il futuro tutt’altro che scontata. Molto dipenderà dalla evoluzione della crisi economica e dalle risposte che in sede europea si daranno alle difficoltà italiane. La capacità di Renzi di mantenere il suo consenso potrebbe essere messa in discussione se non riuscirà a mantenere le sue promesse e se la situazione sociale continuerà a peggiorare o non migliorerà in modo sensibile. E, ancora più importante, l’appoggio del grande capitale potrebbe venire rapidamente meno nel caso in cui Renzi non riuscisse a realizzare quelle controriforme che gli vengono richieste. A questo proposito, la partita sulle riforme istituzionali (eliminazione del Senato) e sulla legge elettorale in chiave ultra-maggioritaria (con forti premi di maggioranza e sbarramenti esorbitanti) sarà decisiva, perché potrebbe permettere al Pd di legittimarsi definitivamente come forza “innovatrice” e soprattutto di stabilire i meccanismi per governare anche in condizioni difficili socialmente e con il consenso di una minoranza dell’elettorato. Inoltre, il carattere del progetto renziano di controriforma dello Stato autorizza ad ipotizzare che possa spingersi fino al premierato forte o addirittura al presidenzialismo. In questo modo, Renzi, da una parte, metterebbe all’angolo l’M5S e, dall’altra, svincolandosi definitivamente dalla necessità di alleanze politico-elettorali, ingloberebbe o eliminerebbe definitivamente quanto rimane alla sua sinistra. Se Renzi riuscisse a raggiungere questi obiettivi, il Pd si candiderebbe a essere il nuovo partito “pigliatutto” e l’organizzazione egemone del quadro politico italiano. In esso il capitale troverebbe, per la prima volta nella storia repubblicana, il suo partito di massa, realizzando attraverso di esso, per dirla con Gramsci, la moderna “rivoluzione conservatrice”. Capiremo, quindi, se il successo di Renzi alle europee rappresenta l’ennesima meteora della politica italiana oppure l’inizio di una nuova fase della storia politica italiana, dopo quelle sotto l’egemonia della Dc, del pentapartito e, da ultimo, di Berlusconi.

La politica italiana è da tempo caratterizzata dal forte personalismo che mette in secondo piano i partiti e in primo piano i leader. Del resto, i periodi di crisi strutturale si prestano all’emergere di fenomeni come il “cesarismo” moderno e l’avvento di capi carismatici. Infatti, una delle cui doti principali del leader moderno deve necessariamente essere la maestria comunicativa. In questo Grillo, come uomo di spettacolo, e Berlusconi, come uomo di televisione, si sono dimostrati abilissimi. Al Pd mancava una personalità che fosse all’altezza di questi due e dei tempi e dei modi attuali della politica, e che ora è stata trovata. Una personalità che in più ha a sua disposizione l’apparato e la struttura di quello che forse è l’unico vero partito di massa rimasto in Italia. Una combinazione che può risultare fortissima. Tanto più che la nomina di Orfini a presidente del partito sancisce il compattamento tra le varie correnti di minoranza con la maggioranza di Renzi insieme alla fine delle illusioni di chi ancora pensava che dentro il Pd potesse esserci una minoranza socialdemocratica in grado di portare avanti una opposizione di sinistra. Di fatto, oggi, il Pd rappresenta, per il ruolo che assume e per le forze sociali ed economiche di cui esprime gli interessi, l’avversario principale degli interessi generali del lavoro salariato in Italia.

La fase attuale presenta caratteristiche che è importante cogliere, perché per la prima volta dal ’68 e forse, in questa misura, dalla fine della Seconda guerra mondiale si sta producendo una frattura all’interno dei tipici meccanismi di riproduzione del consenso politico della società capitalistica europea. È vero che questa frattura è stata sfruttata da partiti che esprimono contenuti se non reazionari quantomeno non adeguati ad una trasformazione progressiva della società. Ma è importante riconoscere che tale frattura esiste, che non può essere abbandonata ai partiti populisti e che va sfruttata dalle forze più schiettamente di sinistra ed espressione del lavoro salariato. La fortuna di molti dei partiti euroscettici si è basata sulla loro capacità di individuare il punto critico della situazione attuale delle masse popolari nel processo di unificazione europeo, riuscendo a presentarsi come alternativi ai partiti del bipolarismo europei. La stessa chiarezza è mancata alle forze della sinistra radicale e spesso anche tra i partiti comunisti. L’errore di fondo è stata la incapacità di leggere l’evoluzione del Pds-Ds-Pd come partito espressione delle istanze del nuovo capitalismo, subordinandosi durante questi venti anni, sia pure in forme diverse, al centro-sinistra forse più europeista del continente.

Quindi, la sinistra e i comunisti nel nostro Paese hanno la necessità di definire un posizionamento autonomo e di ricostruire un profilo politico-ideologico adeguato alla fase storica e ai compiti che ne derivano. La definizione di tale profilo non si giocherà tanto su questioni di geopolitica internazionale o mediante un riferimento rituale all’eredità del passato, quanto su punti dirimenti per chi intende fare politica e soprattutto vive qui ed ora, in questa Italia e in questa Europa, cioè non può che basarsi su di una presa di posizione chiara sulle trasformazioni del capitalismo, sulla natura dell’Europa e sul ruolo e la funzione del Pd. Ciò presuppone la pratica dell’autonomia culturale, politica e organizzativa della classe lavoratrice salariata dalle forze del capitale, basata sul principio che le scelte tattiche contingenti devono essere coerenti con la consapevolezza strategica che la crisi del capitale si può risolvere soltanto partendo dalla critica radicale alla Ue e alla Uem e arrivando, in prospettiva, alla trasformazione radicale dei rapporti di produzione vigenti a livello continentale.

 

1 Nel Regno Unito da sempre prevalgono due partiti, in Francia dal successo del Pcf subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
2 Roberto d’Alimonte, “Renzi, alta fedeltà Pd e nuovi voti a 360°”, Il Sole24ore, 28 maggio 2014.
3 Mariano Maugeri, “L’artigiano bianco rompe il tabù Pd”, Il Sole24ore, 28 maggio 2014.

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