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Il destino dell’Europa fra retorica sovranazionale e antipolitica populista

di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli

templari-256x200La crisi dell’euro ha generato e continua a generare disoccupazione, povertà e de-industrializzazione nei paesi cosiddetti periferici (periphery countries) dell’Eurozona, come Grecia, Spagna e Italia. Per quanto riguarda l’Italia in particolare, i dati economici peggiorano di mese in mese, in maniera sempre più drammatica. In tutta l’Eurozona, la crisi ha accelerato lo smantellamento dei sistemi di protezione sociale e la de-regolamentazione del mercato del lavoro.

Nei paesi cosiddetti centrali (core countries) dell’unione monetaria, e in particolare in Germania, la crisi ha garantito stabilità alle élite politiche dominanti. Queste élite germaniche e nordiche si son rese responsabili di politiche di svalutazione interna, e quindi di repressione salariale. Questi politici si vantano di riforme del mercato del lavoro – incluse quelle del socialdemocratico Schröder – che vanno contro gli interessi dei lavoratori e di coloro che il lavoro lo cercano, indicando ai propri elettori la necessità di queste riforme per evitare lo sciagurato destino dei paesi periferici, e nascondendo come le politiche mercantilistiche perseguite a livello domestico dai paesi centrali abbiano pesantemente contribuito ai problemi dei paesi periferici.

In Germania e in altri paesi centrali, la classe politica e i media (persino quelli progressisti!) hanno contribuito a diffondere e amplificare sentimenti di sospetto e odio verso i cittadini e le società del sud Europa. Secondo questa retorica la crisi sarebbe il risultato delle arretrate strutture economiche e politiche, se non addirittura delle manchevolezze antropologiche, delle genti mediterranee. Le élite politiche dei paesi del sud Europa – e in particolare quelle italiane – hanno in molti casi adottato lo stesso tipo di atteggiamento e di retorica nei confronti delle “moltitudini” del proprio paese, additando la Germania a modello virtuoso e nascondendone le politiche mercantilistiche. Lo hanno fatto con motivazioni ideologiche e con lo scopo di portare avanti la repressione dei salari e lo smantellamento dello stato sociale. Di fronte a questi eventi occorre chiedersi non come sia possibile salvare il progetto europeista e le forze politiche che ne sono responsabili, ma piuttosto come si possano rilanciare politiche inclusive che garantiscano benessere, occupazione e una vita dignitosa ai cittadini.

Molti osservatori di area socialdemocratica, ma ormai anche molti popolari-conservatori, auspicano un cambiamento di rotta nelle politiche economiche fin qui perseguite nell’eurozona. Secondo questi euro-riformatori, bisognerebbe terminare le politiche d’austerità, rilanciare politiche industriali d’investimento, elaborare nuove forme di protezione sociale a livello europeo, tutto questo senza rinunciare al progetto europeo e alla moneta unica. A coloro che fanno proposte di questo tipo si contrappongono quelli (come ad esempio Alberto Bagnai nei suoi due libri Il Tramonto dell’Euro e L’Italia può farcela) che denunciano l’illusorietà e l’inutilità di soluzioni e appelli di questo tipo all’interno delle costrizioni imposte dalla moneta unica, dalla sua governance e dai rapporti di forza esistenti in Europa. Secondo questi osservatori, è necessaria una rapida uscita dall’Eurozona. In risposta a queste critiche, gli euro-riformatori rivendicano il “primato della politica” sull’economia, paventano catastrofi in caso di rottura dell’Eurozona, e sostengono – a nostro avviso senza un adeguato supporto empirico o argomenti convincenti – che il progetto di integrazione europeo sarebbe più adeguato a metterci al riparo dalle forze anti-egalitarie scatenate dai processi di globalizzazione.

Queste posizioni euro-riformatrici si accompagnano a una critica alla governance attuale dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Un esempio è la raccolta di articoli di Jürgen Habermas, Nella spirale tecnocratica. Gli euro-riformatori ammettono che le politiche interventistiche, espansive e pro-welfare che sarebbero necessarie sono difficili da attuare all’interno della struttura istituzionale corrente. La proposta istituzionale alternativa che vien fuori da questa prospettiva è però poco convincente. Gli euro-riformatori propongono la trasposizione della democrazia elettorale e rappresentativa dalla scala nazionale a quella europea per colmare il cosiddetto “deficit democratico” dell’Unione. Questa proposta di trasposizione viene talvolta accompagnata da riferimenti nostalgici al “capitalismo benigno” degli anni cinquanta e sessanta, un capitalismo il cui superamento (non scordiamocelo) ha permesso l’uscita dalla povertà di molte persone nei paesi emergenti.

Che tristezza dover vedere un nutrito gruppo di intellettuali, alcuni dei quali progressisti e sostenitori della socialdemocrazia, salutare come vittoria democratica l’elezione alla guida della Commissione europea di un membro delle peggiori oligarchie economico-finanziarie europee come Jean-Claude Juncker! Ammesso e non concesso che l’elezione di Juncker rappresenti un passo verso il superamento della natura tecnocratica dell’Unione Europea, e anche a voler mettere da parte le recenti vicende giudiziarie che lo riguardano, la sua elezione non può certo costituire un passo verso la democratizzazione delle istituzioni europee. O perlomeno non può costituirlo se per democratizzazione s’intende qualcosa di diverso dalla concezione elitistica schumpeteriana di democrazia. Secondo questa concezione, la democrazia è soltanto una lotta elettorale tra élite, un processo di selezione tramite elezioni che non permette e non deve permettere ai cittadini di avere controllo e influenza diretta sulle scelte politiche che li riguardano (dal classico di Joseph Schumpeter Capitalism, Socialism and Democracy). Sia le istituzioni tecnocratiche che quelle elettorali alla Schumpeter sono soggette a forti influenze oligarchiche.

Gli euro-scettici ci trovano d’accordo riguardo alle remote possibilità di una sopravvivenza dell’euro che sia compatibile con la crescita, l’occupazione e il benessere dei cittadini europei. Purtroppo, però, nemmeno il ritorno ai vecchi strumenti della sovranità nazionale (politica, fiscale e monetaria) sembra di per sé poter fornire garanzie sufficienti e sufficientemente stabili. Il recupero di strumenti di controllo popolare delle decisioni politiche tramite il recupero degli strumenti tradizionali della sovranità nazionale può essere strategicamente utile, ma quelli strumenti vanno rivisti e ripensati. Le tradizionali strutture rappresentative nazionali si sono dimostrate inadeguate a limitare efficacemente lo strapotere dei potentati economici (nazionali ed esteri). D’altronde, la politica elettorale di matrice schumpeteriana è spesso uno strumento per perseguire gli interessi dei poteri oligarchici e delle élite burocratiche, e non certo perché indebolita dalla globalizzazione. Questo è vero sia a livello nazionale sia a livello sovra-nazionale. D’altronde, sono proprio le tradizionali strutture rappresentative e i politici che ne sono espressione ad aver gestito il processo d’integrazione europea senza tener conto degli interessi della gente. Si pensi alla firma del trattato di Maastricht, al Fiscal Compact, o a vari altri casi discussi, per esempio, da Luciano Gallino (in Il colpo di Stato di banche e governi). Gli strumenti della sovranità nazionale alla vecchia maniera sono corresponsabili della disastrosa situazione attuale. Per questo vanno rivisti e ripensati.

Per uscire da questa impasse, o almeno per trovare ragioni di speranza e fonti di riflessione per il cambiamento, bisogna provare a elaborare una nuova forma di populismo anti-oligarchico, inclusivistico, e solidaristico. C’è necessità di un populismo che si concentri sul problema dello strapotere dei potentati economico-finanziari (quelli nazionali e quelli esteri, quelli legali e quelli criminali) e di coloro, caste politiche incluse, che ne sono al servizio. Bisogna provare a costruire forme istituzionali che difendano la gente, il cosiddetto 99%, ossia la stragrande maggioranza della popolazione, dallo strapotere delle lobby oligarchiche. Bisogna provare a usare, come hanno fatto il movimento degli indignados e Occupy Wall Street, un nuovo linguaggio che permetta a tutti quelli che non appartengono o non sono al servizio delle lobby oligarchiche di mettere insieme le proprie forze. Si tratta di costruire un’alleanza politica tra lavoratori dipendenti con posto fisso, precari, disoccupati, piccoli imprenditori, commercianti, artigiani, pensionati, casalinghe, professionisti, e così via. Un’alleanza che permetta ai cittadini di difendersi dagli appetiti dei potentati economico-finanziari. Per dirlo con uno slogan: persone comuni di tutto il mondo – voi che non appartenete alle lobby oligarchiche – unitevi!

Elementi di populismo solidaristico si trovano in alcune delle pratiche e delle proposte degli attuali movimenti populisti. È per questo che questi movimenti antipolitici possono costituire un’interessante fonte d’idee e di rinnovato entusiasmo politico. Checché ne dica il Presidente Giorgio Napolitano, l’antipolitica può essere la nobile espressione politica di esigenze e interessi che il sistema rappresentativo tradizionale ignora, soffoca e tenta di annullare in tutti i modi possibili. Certo, alcuni populisti talvolta flirtano pericolosamente con autoritarismi, illiberalismi e xenofobismi vari, e così facendo aiutano le lobby oligarchiche a dirigere la rabbia generata dal disagio sociale verso obiettivi illusori e verso capri espiatori. Questo non deve impedirci di provare a far emergere una forma di populismo genuinamente democratico e inclusivistico, che ci permetta di provare a superare l’attuale crisi delle istituzioni politiche.

Sarebbe sbagliato vedere il successo dei movimenti populisti come l’espressione di un malessere che attende di essere portato nei canali politici tradizionali, magari per mano di partiti investiti del tradizionale ruolo pedagogico e programmatico che infesta la concezione politica dei partiti socialdemocratici. Superando il pedagogismo e l’elitismo, bisogna provare a rifondare il progetto democratico di una politica genuinamente controllata e guidata dalla gente e per la gente. A tal proposito, un problema fondamentale da affrontare è quello della cattura (anche ideologica) del personale politico da parte delle lobby oligarchiche. Queste lobby hanno interesse a dirottare e affondare qualsiasi tentativo redistributivo serio e qualsiasi politica che possa disturbare le loro attività estrattive.

Dall’antica Roma fino ai giorni nostri, grazie alle loro risorse i potentati economici sono sempre stati in grado di attuare una serie imponente di strategie d’influenza politica, facendo così strame dell’uguaglianza politica. Non si tratta, si badi, del semplice tema del conflitto d’interessi o del “denaro in politica”. Regole stringenti su tali temi sono necessarie ma non sufficienti a eliminare le interferenze delle lobby. E non si tratta solamente di deplorevoli casi di corruzione. Grazie alle loro leve d’influenza economica e ideologica, talvolta con mezzi illegali ma spesso con mezzi legalmente riconosciuti, i poteri oligarchici sono riusciti a mettere in piedi una serie di meccanismi che impediscono all’azione politica di perseguire strade che possano andare contro gli interessi delle lobby e a vantaggio della maggioranza delle persone. Più potenti ancora dei ricatti della criminalità organizzata sono i ricatti dei poteri economico-finanziari che controllano i mercati finanziari, i quali agiscono ormai come un secondo elettorato rispetto ai governi e ai parlamenti, aiutati in questo da parametri non discrezionali (come quelli per esempio fissati dal Fiscal Compact) che impediscono politiche a favore dei più.

Bisogna certamente eliminare questi lacci e lacciuoli imposti alla politica, ma bisogna anche darsi un sistema istituzionale che impedisca alle lobby oligarchiche di esercitare la loro influenza negativa sul sistema politico e, dunque, di imporre tali lacci e lacciuoli. Quello di limitare il potere delle oligarchie è un problema difficile, a cui tutte le società politiche, in un modo o nell’altro, hanno cercato di dare risposta. Purtroppo, la democrazia elitista di stile schumpeteriano risponde a esigenze incompatibili con il controllo popolare della politica e con il contenimento dei poteri oligarchici. Lo iato che i meccanismi della rappresentanza crea tra i politici e la gente comune permette, in vari modi, la cattura del personale politico da parte delle oligarchie, sia quelle che si arricchiscono legalmente che quelle che si arricchiscono illegalmente. È per questo motivo che i teorici dell’antichità, incluso Aristotele, consideravano l’elezione dei rappresentanti come uno strumento molto congeniale alle esigenze oligarchiche e poco congeniale alle esigenze popolari.

Occorre ripensare la democrazia e affiancare alle strutture elettorali e rappresentative istituzioni non-rappresentative che restituiscano significato all’ideale del controllo popolare e dell’eguaglianza politica. Non deve stupire se i movimenti populisti spesso si scaglino contro il mandato libero dei rappresentanti, propongano forme di democrazia diretta pervasiva, e rifiutino il ruolo pedagogico che la classe politica dominante si attribuisce. E non deve stupire nemmeno se alcuni critici contemporanei della concezione moderna della rappresentanza argomentino che alcune cariche politiche dovrebbero essere assegnate per sorteggio, come si faceva nelle democrazie dell’antichità, proprio per ridurre gli spazi di manovra dei poteri oligarchici e delle élite che ne sono al servizio. Si tratta invece di proposte radicali per superare, anche per via istituzionale, la profondissima crisi politica in cui ci troviamo, proposte che bisogna ascoltare senza pregiudizi, ed elaborare alla luce del contesto attuale. Nadia Urbinati ci rimprovera di portare avanti una concezione arcaica della democrazia e dice che Marx ci accuserebbe di “riformismo ingenuo”. Probabilmente ha ragione su entrambi i punti, ma a nostro avviso l’ingenuità vera sta nelle proposte di Habermas e degli altri euro-riformatori che in difesa di un ideale vuoto di democrazia hanno sostenuto la candidatura di Juncker.

Il progetto d’integrazione europea è un progetto paternalistico, da sempre perseguito dalle élite politiche e intellettuali del continente ignorando i cittadini europei, e spesso contro la loro volontà. Una volontà che è stata espressa in quelle poche occasioni in cui ad alcuni di loro è stato concesso di parlare tramite referendum, non a caso una forma di democrazia non rappresentativa (si pensi per esempio al caso del referendum francese del 2005, che vide la bocciatura della Costituzione Europea). Nel progetto europeo le élite hanno investito molte energie, e forse questo spiega come non si accorgano di quanto sia offensivo e illiberale promuovere programmi di educazione all’europeismo – come la recente campagna pubblicitaria della RAI in occasione del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’UE – per persuadere i cittadini ad accettare la disciplina del progetto europeo, una disciplina che ha portato e continua a portare disoccupazione e povertà.

A questo proposito, occorre fare in modo che gli ideali internazionalisti di pace e solidarietà tra i popoli non vengano strumentalizzati. L’Unione Europea è storicamente asservita ai poteri oligarchici e a quelle élite politiche e intellettuali che, dicendo di voler modernizzare il paese proprio o altrui, portano avanti in nome dell’Europa politiche che vanno contro gli interessi della gente. Non si deve cadere nella trappola di identificare gli ideali di pace e solidarietà con l’attuale versione del progetto europeista, una delle tante forme possibili di cooperazione sovranazionale. Il richiamo a questi ideali è il formaggio di una trappola congegnata per disciplinare i topi dell’esperimento europeista delle élite politiche e finanziarie, un esperimento alla cui causa sono state sacrificate le prospettive di milioni di cittadini europei. Gli ideali di pace e solidarietà sono molto importanti, e proprio per questo è fondamentale evitare che vengano utilizzati in questo modo. Dopo decenni di bombardamento retorico e ideologico, bisogna cominciare a riflettere sul fatto che l’idea di governo sovranazionale, e l’attuale progetto europeista in particolare, potrebbero non essere uno strumento adeguato per promuovere questi ideali. Purtroppo i danni causati dall’europeismo finanziario ed elitario ai sentimenti di solidarietà tra cittadini europei sono gravi. Servirà tempo e coraggio per porvi rimedio.

L’Italia ha un ruolo politico fondamentale da svolgere in questa fase dell’evoluzione dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Occorre pensare attentamente alle condizioni istituzionali perché politiche più inclusive, solidali e, perché no, razionali possano essere attuate. Occorre uscire dalle strettoie dell’alternativa fra tecnocrazia, euro-democrazia elitista di matrice schumpeteriana, e sovranità nazionale alla vecchia maniera. Occorre superare logiche inveterate e pratiche politiche che non funzionano più, anche quelle che in passato possono aver contribuito al progresso del paese. Occorre sforzarsi – con l’aiuto di alcune idee populiste e antipolitiche, ed evitando invece derive autoritarie o xenofobe – di creare nuove forme inclusivistiche e solidaristiche di controllo e di guida popolare dell’attività politica. Questo deve esser fatto sia provando a rielaborare strumenti di sovranità nazionale che riportino i poteri di controllo più vicino ai cittadini, sia costruendo – se e quando ci saranno le condizioni politiche ed economiche per poterlo fare – nuovi e più democratici strumenti di controllo popolare a livello europeo e sovranazionale.

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