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conness precarie

Questa non è Sparta, questa è Salamina

Eurogruppo, eurocentrismo, nomadismo

Akis Gavriilidis

20abg5xLa congiuntura attuale, in Grecia e oltre la Grecia, è segnata dai tentativi di dare senso a quanto avvenuto con le negoziazioni di febbraio all’interno dell’Eurogruppo. Fonti vicine al governo greco cercano di presentarne i risultati come una «vittoria» mentre altri, tanto fuori quanto dentro SYRIZA, affermano che si tratta invece di una «sconfitta» o di una «capitolazione». Quest’ultima impressione a me pare presupporre una concezione della strategia eurocentrica e maschilista (o fallologocentrica, per usare il neologismo di Derrida); una concezione organizzata attorno all’immagine della battaglia finale nella quale uno deve dimostrare coraggio e avere la meglio sull’avversario. Per le ragioni alle quali ho accennato, non condivido l’idea che una «vittoria» consista in questo. Cercherò allora di leggere la strategia (ammesso che ci sia) applicata dal governo greco nelle negoziazioni e ciò che ha ottenuto (ammesso che ci sia) attraverso le lenti di due assiomi strettamente legati tra di loro:

— Il potere non è una cosa, né una sostanza, ma è la capacità di agire sulle azioni (Foucault)

— Una buona strategia consiste nel non cercare di schiacciare le forze del tuo avversario ma nell’usarle, specialmente quando quelle forze sono drasticamente superiori alle tue (precetto tradizionale delle arti marziali asiatiche).

 

Atene brucia

Nell’estate del 480 a.C., una forza tradizionalmente classificata come «orientale», i persiani, ha invaso un luogo tradizionalmente considerato come parte dell’«Occidente», addirittura il suo luogo di nascita. Provate a indovinare quale: la Grecia. Quest’invasione ha portato a una battaglia che, nella tarda modernità, è stata elevata allo status di icona pop: la battaglia delle Termopili, durante la quale 300 spartani hanno fronteggiato con coraggio l’esercito persiano e hanno resistito eroicamente, prima di morire tutti quanti «come veri uomini». È piuttosto curioso che l’evento che ha invece spinto il re Dario ad abbandonare i suoi piani e tornare in Asia, la battaglia navale di Salamina, abbia ottenuto una fama minore rispetto a questa gloriosa sconfitta.

La battaglia si è combattuta in mare, dopo che gli ateniesi avevano seguito il rischioso consiglio di Temistocle di non difendere affatto la loro splendida città. L’oracolo di Delfi aveva infatti predetto che sarebbero stati salvati da «muri di legno». Mentre alcuni, prendendolo alla lettera, avevano cominciato a tagliare la legna, Temistocle riuscì a interpretare correttamente i segni: i muri di legno erano le navi. Il punto di forza di chi è più vulnerabile non è la chiusura, ma la fuga verso lo spazio aperto, verso l’elemento liquido.

Così, l’intera popolazione, civili inclusi, abbandonò Atene, che fu occupata e ridotta in cenere dall’esercito persiano. La flotta persiana, allora, inseguì le triremi in fuga, ma fu obbligata ad abbandonare la battaglia una volta giunta allo stretto di mare tra l’Attica e l’isola di Salamina, dove il suo vantaggio numerico era non solo inutile, ma persino svantaggioso. Fu così che, alla fine, i persiani furono sconfitti.

Nell’immaginario occidentale, questo conflitto è stato considerato come il primo, fondativo scontro tra la «civiltà occidentale» e la «barbarie asiatica». Si tratta di un dualismo che in qualche misura si trova già nella storiografia greca antica, in particolare in Erodoto. Proprio in Erodoto, però, troviamo un piccolo dettaglio, un terzo fattore che fa in modo che questo dualismo non si chiuda e che non diventi davvero universale. Si tratta del nomadismo o, più precisamente, del popolo nomade degli Sciiti.

Come alcuni degli autori classici successivi, Erodoto considerava il nomadismo come una strategia militare piuttosto che come un modo di vita opposto alla stanzialità greca. I suoi Sciiti erano inaccessibili – in greco, aporoi. Anziché difendere le mura della città o della capitale dall’invasore, gli Sciiti semplicemente si disperdevano. Non avevano città, non avevano neppure l’idea di un «centro», e i loro unici luoghi stabili erano nella distante periferia del regno. Dario I di Persia, che in seguito avrebbe invaso la Grecia, era entrato per la prima volta in Europa nel 512 a.C. per una spedizione punitiva contro gli Sciiti. Aveva attraversato prima il Bosforo, poi il Danubio e aveva infine marciato lungo il fiume Don nel vano tentativo di spingere i nemici in battaglia e conquistarli. Alla fine, frustrato, fu costretto a ritirarsi lasciando gli Sciiti imbattuti. Così, questi ultimi, che in modi diversi sono stati considerati il polo opposto rispetto agli ateniesi, all’improvviso diventano in un certo senso come loro – perché anche loro hanno sconfitto i Persiani. Ma non è solo questo: lo hanno fatto comportandosi come gli ateniesi avrebbero fatto in seguito, almeno secondo la descrizione delle Guerre persiane offerta da Erodoto. Gli ateniesi si sono affermati sui propri avversari non cercando di difendere il proprio territorio, ma prendendo il mare e diventando aporoi (Neal Ascherson, Black Sea. The Birthplace of Civilisation and Barbarism, Vintage, London, 2007, pp. 54-5).

 

Perdite e responsabilità

Ovviamente non assicuro a nessuno – né sarei in grado di farlo – che una vittoria gloriosa come quella di Salamina sia dietro l’angolo, ancor meno che abbia già avuto luogo. Penso però che le tattiche che Varoufakis ha seguito in queste negoziazioni possano essere considerate parallelamente al nomadismo sciita. Piuttosto che attaccare frontalmente una forza di gran lunga superiore e morire eroicamente, Varoufakis ha optato per una de-territorializzazione; ritraendosi e avanzando, è entrato in campo e ha cercato di prendere all’amo Schäuble e i suoi soci per farli uscire in mare aperto e dichiarare di fronte a tutti la loro contrarietà alla risoluzione di una crisi umanitaria; ha cercato di spingerli a mostrare pubblicamente che mettono il profitto prima della gente e prima della democrazia e ad assumersene la responsabilità politica, anziché invocare le «forze oggettive» del mercato. Così facendo, il negoziatore greco si è esposto, ma d’altra parte non è una novità visto che la Grecia era già esposta in molti modi; tuttavia, adesso lo sono anche i «creditori».

Alcuni, in Grecia e altrove, hanno accusato Varoufakis di agire «narcisisticamente», come un performer. In effetti, la sua è stata una performance, ma questo non ha niente a che fare con il vezzoso particolarismo del suo carattere e neppure con un’accidentale debolezza; questo è piuttosto il centro e la forza della sua azione. Il suo discorso è stato performativo e non era indirizzato soltanto agli altri ministri in maniera dualistica, ma presupponeva un terzo elemento: un insieme di ascoltatori/spettatori. Per meglio dire, egli ha cercato di introdurre, di produrre questo pubblico e di metterlo in gioco attraverso l’azione stessa – esponendo ciò che prima era segreto. Per questo, il risultato contiene un’«ambiguità costruttiva».

Qualunque giudizio in merito al risultato di questa triangolazione dipenderà, allora, da ciò che chiunque altro farà di questa esposizione, dalla reazione di questo pubblico, una reazione che non è scontata. Può essere che agli altri popoli europei vada bene la gerarchizzazione di Schäuble. In questo caso, forse altri tipi di performance sarebbero preferibili e proprio per questo non possiamo ancora dire se quella di Varoufakis sia stata una performance «appropriata», come direbbero i linguisti. Quel che invece è certo, almeno per il momento, è che questa esposizione comporta una perdita. A volte, però, ci sono perdite inevitabili, definitive, e non vale perciò la pena spendere forze per colmarle perché non è più possibile farlo. Alles was besteht, ist wert, daß es zugrunde geht ‒ tutto ciò che esiste merita di perire. Nel 480 a.C. Atene è bruciata, ma una nuova polis è stata costruita, poi, sulle sue macerie.

 

Aporie

La ragione per cui è difficile giudicare se la performance abbia avuto successo può essere espressa anche in un altro modo: i negoziatori greci si sono dovuti muovere nello spazio estremamente limitato tra due domande apparentemente contraddittorie, entrambe contenute nel mandato delle ultime elezioni: quella di non cedere al ricatto dei fondamentalisti dell’austerity e quella di mantenere la Grecia all’interno dell’eurozona. Questa situazione potrebbe essere descritta adeguatamente attraverso un termine molto apprezzato da Derrida e che coincide con quello usato da Erodoto in relazione ai nomadi: si tratta di un’aporia – una situazione nella quale non c’è passaggio, nessuna via per avanzare.

Si tratta certamente di un’aporia e non dobbiamo nascondercelo. Oso persino suggerire che l’etica, la politica e la responsabilità, ammesso che ve ne siano, non sarebbero mai cominciate senza l’esperienza dell’aporia. Quando il cammino è chiaro, quando un  sapere precedente indica la strada, la decisione è già presa e si potrebbe anche dire che non c’è alcuna decisione da prendere: irresponsabilmente e in buona coscienza, semplicemente si applica un programma (Jacques Derrida, L’autre cap, Ed. de Minuit, Paris, 1991, p. 43).

Si può dire che la decisione presa dalla squadra di negoziazione greca che si è trovata all’interno di questa aporia sia stata di diventare essa stessa l’aporia (per gli altri), di renderla pubblica e contagiosa. Considerare questo rendersi-inaccessibili «una ritirata» presuppone la nozione di un fronte rispetto al quale si definisce la «retrovia» e, in generale, il senso della direzione. Questa mossa è stata certamente una fuga. Non sono sicuro che con questa fuga «SYRIZA abbia guadagnato tempo e spazio», come il mio amico Sandro Mezzadra ha affermato in un recente articolo scritto insieme a Étienne Balibar. In ogni caso, posso richiamare il fatto che la tradizione italiana del post-operaismo, che include lo stesso Sandro ma anche Paolo Virno, ci ha insegnato che alcune fughe non sono espressione di codardia o passività, ma di autonomia e di azione.

Da questo punto di vista, il successo della lotta contro l’austerità e il neoliberalismo dipenderà dalla nostra capacità di combinare le tradizionali lotte militanti e istituzionali con un rendersi-inaccessibili, come gli Sciiti che «si sono semplicemente dispersi, anziché difendere le mura di una città o della capitale dall’invasore». Forse il terreno di questa lotta «è – non può che essere – l’Europa stessa», come affermano Balibar e Mezzadra. Per me, tuttavia, è altrettanto importante la questione del come ci si muove su questo terreno. A tal riguardo, penso che sarebbe utile ispirarsi a fonti provenienti da altri continenti, come l’Africa che – incidentalmente – è anche il luogo natale di Derrida. Oppure, muoversi tra il due (o più), lavorare con le nostre aporie piuttosto che cercare di eliminarle:

L’ingiunzione sembra doppia e contraddittoria: […] bisogna assicurarsi che l’autorità centralizzatrice non si ricostituisca, […] non bisogna coltivare le differenze minoritarie per se stesse, gli idioletti intraducibili, gli antagonismi nazionali, gli sciovinismi dell’idioma. La responsabilità sembra consistere oggi nel non rinunciare a nessuno di questi due imperativi contradditori. Dobbiamo quindi cercare di inventare gesti, discorsi, pratiche politiche e istituzionali che inscrivano l’alleanza di questi due imperativi, di queste due premesse, di questi due contratti: la capitale [città] e l’a-capitale, l’altro della capitale. È difficile. È impossibile. È persino impossibile concepire una responsabilità che risponda di due leggi o a due ingiunzioni contraddittorie. Certo. Non c’è però nessuna responsabilità che non sia l’esperienza dell’impossibile. […] Quando una responsabilità è esercitata nell’ordine del possibile segue un’inclinazione e sviluppa un programma. Essa fa dell’azione una conseguenza applicata, la semplice applicazione di un sapere o di un saper-fare, trasforma la morale e la politica in tecnologia (Derrida, L’autre cap, pp. 45-6).

Questa concezione aporetica della responsabilità potrebbe essere un utile antidoto contro l’ennesima ripetizione ossessiva del motto «pacta sunt servanda», potrebbe consentire l’emersione della politica nel mezzo del legalismo e della tecnocrazia delle istituzioni europee, che non possono articolare nessun’altra idea di una via per avanzare, nessun progetto migliore per il futuro, che non sia il «dobbiamo attenerci alle regole».

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