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cambiailmondo

Fuori dall’Euro c’è l’Europa (e la democrazia)

di Rodolfo Ricci

euro crollo1Per tentare di comprendere meglio cosa stia accadendo con la questione greca e quindi le reali sfide che abbiamo di fronte, è necessario tornare all’introduzione dell’Euro; e su alcuni elementi che negli eventi convulsi degli ultimi giorni rischiano di perdersi in un rumore di fondo fatto di tifoserie varie che rende difficile una valutazione razionale; di essa abbiamo invece fortemente bisogno se non si vogliono fare passi falsi o attardarsi su posizioni moralmente accettabili, ma fuori tempo massimo, in un momento decisivo per l’Europa e per l’Italia.

 

Il punto essenziale da comprendere è cos’è l’Euro tecnicamente e le sue implicazioni e conseguenze politiche

L’Euro è la prima importante moneta della storia che non viene emessa da uno stato sovrano, ma che riassume un paniere di monete nazionali in un rapporto di cambi fissi, le cui percentuali nazionali sono individuabili nella percentuale di controllo della BCE da parte delle rispettive banche centrali dei singoli paesi.

E’ cioè una moneta che rappresenta e fotografa lo stato – più o meno effettivo  – delle relazioni economiche dentro l’area che la utilizza, datate al 2000 e, allo stesso tempo, si presenta, al resto del mondo, come valuta scientemente e manifestamente sciolta da ogni intervento politico (intendendosi per “politico”, ogni intervento che non sia di natura tecnica devoluta ai mercati e alla BCE, la quale c’è solo per difendere il suo valore e le relazioni da cui è nata) .

Essendo prodotto di un patto di cambi fissi (stabilito 15 anni fa), il suo valore interno all’eurozona è stabilito in modo ferreo da queste percentuali. Il suo valore esterno invece, come per ogni altra moneta, è legato all’oscillazione dei rapporti tra le varie valute, cioè dipendente dalla fiducia dei mercati nella sua stabilità. Più questa fiducia è alta, più viene considerata una sorta di metallo nobile che si apprezza, come è avvenuto fin dal momento del suo varo, stabilito in una iniziale parità col dollaro, e che dopo una piccola discesa, raggiunse il suo apice rivalutandosi fino a quasi il 50% rispetto al dollaro.

La differenza fondamentale rispetto ad altre monete, è che su tale oscillazione non può intervenire un paese sovrano, per cui tassi di interesse e relazioni intermonetarie sono (o dovrebbero) essere determinati esclusivamente dalle dinamiche dei mercati. Non dalle decisioni di un paese o di un’ unione di paesi, cosa che come sappiamo, non c’è. C’è stato solo, meno di un anno fa, il QE di Draghi (per un ammontare che è comunque una frazione di quanto fatto dalla Federal Reserve negli anni precedenti negli USA) che ne ha fatto perdere una quota di valore negli ultimi mesi, ma che non ha sortito alcun significativo cambiamento rispetto alla sua natura fondamentale di essere sciolta da vincoli politici.

Siccome resta fermo che il valore di una moneta è legato alla capacità produttiva dell’area che la assume come mezzo di scambio, più è alta questa produttività o la fiducia diffusa che questa produttività resterà stabile o crescerà in futuro, più vi sarà richiesta di tale moneta sul mercato internazionale, sia per effettuare pagamenti per le importazioni da quest’area, sia come mezzo di investimento finanziario privato o di riserva valutaria forte.

Se l’area di riferimento dell’unità monetaria manifesta debolezze, il valore della moneta, come per le altre, è destinato a scendere; mentre ciò può stimolare in parte un aumento delle esportazioni, stimola tuttavia, allo stesso tempo, una diminuzione degli investimenti dall’estero, indispensabili per lo sviluppo dell’area stessa.

Poiché i trattati vietano l’intervento pubblico tramite indebitamento (oltre il famoso 3% del PIL del trattato di Maastricht), dal punto di vista dei mercati l’Euro continua a costituire una valuta di riferimento molto ambita, poiché mantiene integre le promesse di ridotto intervento pubblico e cioè la ampia disponibilità di attività produttive, commerciali e di servizi (anche attraverso le note privatizzazioni attuate per restare dentro i parametri) sulle quali si possono liberamente esercitare le manovre di investimento o disinvestimento della enorme massa monetaria in circolazione a livello globale. Come si vede, l’eurozona è architettata in modo tale da venire pienamente incontro alla logica del capitale globalizzato. Una sorta di monumentale area di porto franco.

Il risultato della stabilità dell’Euro è che viene privilegiato il potere di acquisto della moneta (in mano a chi ce l’ha), il valore dei patrimoni definiti in Euro, le opportunità che l’eurozona offre ai mercati della rendita: in questo senso è una moneta conservativa, che privilegia il valore di ciò che esiste, rispetto al valore futuro che può essere prodotto dallo sviluppo di attività economiche incentivate da interventi pubblici (tipiche del capitalismo renano, per intenderci). Tali interventi ne farebbero scendere il valore e quindi l’appetibilità, poiché inevitabilmente orientati ad una crescita futura finanziata dal presente (che è la classica funzione capitalistica per cui il capitale di rischio si mette in gioco scommettendo su un profitto futuro). Ma il presente, non intende perdere valore. Intende mantenere integro il valore attuale senza correre alcun rischio e rilanciare su guadagni che non sono tecnicamente profitti, ma rendite; rendite finanziarie).

E’ chiaro che da questo punto di vista, l’Euro è una moneta “di classe”, cioè è destinata per sua stessa natura e più di altre importanti monete, a privilegiare la salvaguardia di valori esistenti piuttosto che fungere come catalizzatore di sviluppo e quindi di realizzazione di valore futuro, che nelle dinamiche economiche dei 30 anni gloriosi ha significato una relativa socializzazione degli utili e di trasferimento allargato dei redditi. Ed è una moneta di classe anche rispetto ai piccoli e medi produttori e imprenditori ancorati alla logica dell’investimento e del profitto dentro l’economia reale.

Ogni intervento esterno (cioè politico) che dovesse cambiarne la natura, ne distruggerebbe il suo carattere di classe e conservativo e ne sancirebbe la fine. Ovvero l’Euro si trasformerebbe in una moneta qualsiasi, legata, più che al presente, alle opportunità che offre, o meno, di modificare, in positivo, il futuro, utilizzando – e quindi scaricandovi i rischi – sul capitale presente.  Perderebbe cioè la sua singolare natura che incorpora in se stessa l’ideologia e la tecnologia dei parametri neoliberisti. E tornerebbe inevitabilmente ad essere un valuta influenzata dalla politica, cioè un oggetto che sarebbe da valutare rispetto alla capacità politica espressa dall’eurozona, cosa che, l’Euro, in sé, non prevede. In tutto questo si potrebbe leggere anche una singolare coscienza dell’eurozona, di non essere all’altezza della situazione, o se si vuole, di sapere di non poter esprimere una politica adeguata alle circostanza storiche, in quanto aprirebbe spazi di frizione interna ingestibili. (L’Euro come coscienza dell’impossibilità dell’Europa unita).

Dunque l’Euro è una fotografia della situazione in cui versava l’Europa al momento della sua introduzione. Impossibilità (o non volontà) di unione politica ed escamotage tecnico per superare questo handicap, devolvendo direttamente la funzione politica ai mercati.

Si potrebbe dire dell’Euro, che è una creatura asintotale, unica, il tentativo sperimentale di potenziare senza alcun vincolo politico la capacità di mantenere valore, una cristallizzazione dello status quo. Un’arma della rendita. Per questo il suo destino è di essere una creatura dogmatica e ideologica, anche se usa, come suo abito e lingua, la presunta oggettività dei processi economici e la presunta libertà dei mercati.

E’ per queste sua caratteristiche che anche per le classi medie impoverite dell’Europa, che tentano di mantenersi stretti i pochi risparmi e patrimoni che le sono rimasti ma realizzati essenzialmente dalle precedenti generazioni nel corso del ‘900, essa risulta molto gradita e una sua cancellazione temuta come una catastrofe. Lo vediamo anche nell’esempio greco, in cui la contraddizione tra restare nell’euro e uscire dall’austerity, caratterizza le dinamiche schizofreniche a cui si assiste. Dinamiche che attraversano l’intera Europa e che costituiscono uno dei punti di forza della sua architettura in quanto capace di acquisire consenso anche nei settori popolari che intenderebbero contrastarne gli effetti e combatterla.

Sul versante interno dell’eurozona, quindi, per consentire che questa qualità unica dell’Euro non venga messa in dubbio (la famosa irreversibilità), c’è bisogno di mantenere sufficientemente alto e positivo il giudizio dei mercati; siccome però i mercati non ragionano solo sullo status quo, ma anche sulle prospettive di sviluppo che consentano di massimizzare la redditività a breve e medio termine degli investimenti finanziari, l’eurozona è destinata ad accentuare ogni elemento interno di competitività in grado di vincere le sfide del mercato globale dei beni di consumo e di investimento; poiché questi obiettivi non sono possibili, né conseguibili, per statuto, attraverso interventi di natura politica (investimenti pubblici a deficit in attesa di recuperare gli interessi attraverso la crescita), resta solo la possibilità di riduzione dei costi di produzione e l’ottimizzazione degli elementi organizzativi sistemici dei singoli paesi (funzione pubblica, servizi, ecc.).

Il risultato di questa impostazione è che ogni possibilità residua di aggiustamento in mano alle autorità centrali (Commissione, BCE, ecc.) e agli stati nazionali, concerne esclusivamente misure di massimizzazione dell’efficienza produttiva (e cioè della possibilità di realizzare profitti da parte degli investitori, da cui discenderebbe l’attrazione di capitali verso l’eurozona). Ma in una situazione di incertezza e di crisi come quella in cui ci troviamo, può risultare soddisfacente, se non fare profitti, mantenere stabili gli stock di capitali investiti, o addirittura accontentarsi di piccole perdite. Come mostra l’esempio dei grandi flussi finanziari verso la Germania, pur con tassi negativi di interesse. (E qui ci troviamo di fronte al più classico esempio di come ragiona la rendita).

Dunque le cosiddette riforme strutturali servono a contrarre al minimo i costi di produzione e a rendere più fluida possibile la capacità di intrapresa, ad alleggerire i costi dei servizi pubblici e del welfare, a ridurre o ad azzerare, in prospettiva, i costi e la funzione pubblica in sé. Anche la riduzione dei costi della politica (motivata da buone e condivisibili ragioni morali) rientra in buona parte in questa tipologia di riforme: poiché non vi è necessità di mantenere una diffusa classe politica se, come accade, si tratta solo di amministrare l’esistente secondo parametri preordinati. La democrazia, da questo punto di vista, è solo un costo, un’inefficienza. (E deve essere sostituita dalla cosiddetta governance).

A ciò solo, in questo quadro, deve servire la residua politica; una volta realizzata pienamente questa funzione, la politica può trasformarsi serenamente in funzione di controllo amministrativo e, ove necessario, in comando dei dispositivi di contenimento e repressione degli spiacevoli effetti sociali collaterali. Quindi, gli stati nazionali non si estinguono, ma in questo piano, devono restare in piedi per garantire nei rispettivi territori che questa dinamica vada a buon fine. (E i parlamenti pure).

Le conseguenze normative di questa architettura sono che ogni paese adotti gli stessi principi orientativi di riassetto economico e sociale, in modo che l’intera eurozona funzioni come l’unico spazio del pianeta in cui, la “direzione politica” della moneta sia definita pienamente dalle libere dinamiche dei mercati. Ciò dovrebbe consentire, dentro l’involucro neoliberista, il massimo di competitività di sistema dell’eurozona, la capacità di attrarre capitali e la capacità di riportarla ad una egemonia globale rispetto alle altre aree, o quantomeno, di contenimento dell’emergenza di nuove aree continentali, come i BRICS; (ma anche come gli USA): mettendoci nelle mani invisibili dei mercati, i mercati privilegeranno necessariamente l’eurozona, un’area depurata da ogni intervento esterno al libero movimento fisico delle transazioni finanziarie e di una contrattazione allargata che dovrà essere sempre più, statutariamente, vincolata a doppio filo ai risultati contabili che il sistema esige e che gli stati nazionali aderenti sono in grado di dimostrare.

In questo ambiente sistemico, non vi è, a rigore, alcuno spazio per i cosiddetti diritti (quelli del lavoro), ma solo per prestazioni commisurate alla efficacia contabile che producono e alla sostenibilità finanziaria da cui provengono: non possono in ogni caso produrre perdite, né appesantimenti, poiché il sistema è chiuso e non prevede novità endogene che possano cambiarne le caratteristiche. Neanche grandi innovazioni tecnologiche o la scoperta di enormi giacimenti di oro, per fare qualche esempio, possono o debbono metterne in discussione la natura e la specificità, la sua singolarità. L’unico spazio per i diritti è quello dei cosiddetti diritti umani (i quali, a parte quelli dei migranti, non costano e possono invece costruire ulteriore consenso per le elites).

Quindi, secondo gli insegnamenti di Von Hayek, moneta buona scaccerà moneta cattiva e l’Europa riconquisterà la centralità perduta. A cascata, se il progetto riesce, la grande capacità produttiva e tecnologica dei suoi paesi più avanzati si tradurrà in un recupero del benessere delle classi medie europee e quindi a mantenere il sistema in equilibrio dal punto di vista sociale, a spese dei paesi periferici, delle aree emergenti del pianeta e magari degli USA, i quali ultimi mantengono la propria forza essenzialmente per la funzione di grande mercato di sbocco e di gendarme globale che esercitano, non certo per la propria capacità produttiva (a parte quella del settore militare), o alla sua efficienza, che rispetto a quella europea è una frazione ridotta.

Questo è il progetto Euro, il cui interprete più coerente e di successo è oggi, oggettivamente, la Germania. Ora bistrattata in quanto eccessivamente coerente (o rigida) con l’impostazione iniziale, ma che prima della crisi interna in atto, ha ricevuto la piena condivisione degli altri membri dell’eurozona, convinti che il vincolo esterno, come in effetti in buona parte è accaduto, consentisse lo sbaragliamento dei “lacci e lacciuoli” in ogni paese e l’indebolimento di lobbies e corporazioni nazionali posizionati, come si continua a dire, su scenari arretrati e a bassa produttività. Il cosiddetto vincolo esterno, poi, proprio perché esterno, non può essere nazionale, il che si traduce nell’accettazione in sé (vedi pareggio di bilancio in costituzione) di una normatività che attacca i tessuti economici e sociali dei singoli paesi, costruiti a suo tempo, nell’epoca del conflitto organizzato e dai processi democratici consolidatisi nel dopoguerra.

Questo meccanismo intangibile e inattaccabile dal punto di vista logico, si è inceppato esclusivamente per un motivo: il differenziale di produttività tra cuore dell’eurozona e periferia, invece che riequilibrarsi o rimanere stabile, si è invece accentuato e, parallelamente, i mercati, alla ricerca di occasioni sempre più raffinate di speculazione, hanno individuato la debolezza del disegno nella possibilità di privilegiare non l’eurozona nel suo complesso (cosa che era tra l’altro impossibile dal punto di vista tecnico), ma solo alcuni dei suoi paesi; sono allo stesso tempo cresciute le resistenze sociali e quelle delle borghesie nazionali che venivano tendenzialmente e progressivamente escluse dai vantaggi illustrati: ne sono emersi quei paesi che strutturalmente presentavano caratteristiche ottimali e sono stati penalizzati gli altri. Dentro gli anni della crisi, questa opzione si è intensificata ed accelerata e il risultato è quello odierno.

Il punto di debolezza, come è noto, può essere risolto solo rimettendo in equilibrio le relazioni tra le aree interne con adeguate riforme strutturali che consentano di aumentare la competitività di quelle in ritardo attraverso la contrazione ulteriore dei costi di produzione (versione tedesca), oppure secondo l’ipotesi keynesiana del Bancor (cioè di una moneta di compensazione e di riequilibrio tra paesi in surplus e quelli in deficit commerciali). E’ chiaro già nei nomi usati, che il Bancor è l’opposto speculare dell’Euro. Le caratteristiche della moneta miracolosa di Keynes sono politiche, quella dell’Euro, no, o per meglio dire, escludono la politica.

Siccome nella soluzione tedesca, attualmente in atto, non tutti possono produrre le stesse cose, vi è un corollario necessario nel perfezionamento del riequilibrio che viene ora proposto: i paesi periferici debbono tendenzialmente e per forza di cose, contribuire in modo prioritario a ottimizzare la funzione tecnologicamente più avanzata del centro dell’eurozona, attraverso una nuova divisione interna del lavoro e dei settori di investimento. Al nord spettano le produzioni più avanzate, al sud le funzioni di subfornitori e di riproduzione allargata della forza lavoro continentale: per l’Italia, ad esempio, è prevista una crescita di settori come il turismo e delle famose produzioni made in Italy, nell’agroalimentare, nella moda, nel design, e il perfezionamento della funzione di subfornitore per l’ampio tessuto di piccola e media impresa, nei beni strumentali e in ciò che resta del manifatturiero; se in questo modo viene ristabilito un equilibrio tra nord e sud Europa, secondo i tedeschi, il gioco è fatto, poiché la riforma delle riforme strutturali è quella di una organizzazione continentale sistemica che ottimizzi i flussi e i processi di produzione come in una ampia e inquietante fabbrica-territorio che comprende l’intera eurozona e che, per i tedeschi, già comprende tutta l’Europa orientale fino all’Ucraina, passando per i Balcani, pur essendo molti di questi paesi, fuori dall’Euro.

Ma questo fa parte della logica sistemica, non è una novità nè una contraddizione, ed anzi, risulta in perfetta coerenza con le caratteristiche strutturali dell’Euro.

La leadership tedesca del progetto è un dato ovvio e naturale e la coerenza espressa dal ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble, è ferrea. Se la Grecia (o altri) non è in grado di sostenere questo progetto deve uscire dall’eurozona e riposizionarsi, al massimo, come spazio di ricreazione dei produttori del nord, magari fuori dall’eurozona, ma sempre dentro la sua orbita; comprensibile che i greci oppongano resistenza, ma l’alternativa, come dimostrato empiricamente è solo quella di adottare i ricorsivi memorandum esterni e di perdere anche formalmente la loro residua sovranità.

Analogamente dovranno fare gli altri paesi che per loro caratteristiche strutturali e storia, non sono in grado di tenere il ritmo o si attardano a rivendicare alternative, come quella di un’Europa solidale, o di un governo democratico dell’Unione, o l’emissione di bond, ecc.ecc.. Tutte queste strade sono praticabili, ma non dentro l’Euro, cioè non dentro il sistema dogmatico che dice che proprio queste strade non sono percorribili. Quando ascoltiamo questi auspici, sembra a volte di ritrovarsi nella favola della volpe e l’uva di Esopo. Si anela alla luna, perchè è così lontana che prima di arrivarci passerà così tanto tempo che ci dimenticheremo del dito. Il ministro in carrozzella, novello dottor stranamore, è invece più rigoroso e sostiene, rispetto alla Grecia, che se vuole, può uscire.

Perché bisogna anche dire che se dovesse accadere che uno o più paesi escono dall’eurozona, resta fermo il fatto che il nucleo duro che sopravviverà alle sollecitazioni che dureranno il tempo necessario per la digestione dei mercati, manterrà integre le caratteristiche di punto di riferimento globale per la finanza e il libero mercato. Si tratterebbe di una sorta di amputazione che rende ancor più vigoroso l’animale.

Che esca la Grecia o altri, da un punto di vista qualitativo e funzionale, non vi è una grande differenza: anziché un’area di 300 milioni di persone, la stessa funzione strategica può essere assolta da un’area di 200 milioni di produttori ad alto tasso di organizzazione sistemica. Almeno fino a quando, scomparsa la possibilità di far ricadere le colpe dei loro malesseri su quelli del sud, non si renderanno conto di ricevere un ben magro bottino rispetto all’alto indice di produttività che loro e i loro paesi esprimono e i cui risultati vanno inesorabilmente alle loro elites e a quelle globali.

In modo analogo in cui un piccolo paese come la Svizzera può assolvere con circa 10 milioni di abitanti a funzioni vitali per il sistema neoliberista globale, tanto più può farlo un paese come la Germania o un’area ben 20 volte più grande della Svizzera, che escluda l’intero sud Europa. Considerando che, per citare una caratteristica significativa di quest’area, il surplus commerciale della sola Germania è superiore a quello della Cina, che notoriamente ha una popolazione a sua volta quasi 20 volte più grande.

Allo stesso tempo, i paesi periferici, anche se fuori dall’Euro, anzi, per certi versi ancora più che se stiano dentro, possono fungere, come abbiamo visto nell’est Europa, da miglior supporto ai progetti del nucleo duro. A meno che non siano in grado di elaborare un progettualità strategica alternativa e autonoma e di costruire una propria ampia area di influenza e cooperazione politica ed economica (mentre sul versante monetario la capacità concorrenziale è oggettivamente ardua al momento); per esempio ricompattando l’area mediterranea con la sponda sud e strutturando alleanze strategiche con altre aree, come l’America Latina e la Russia. Ma qui entriamo in un altro ambito di discussione che tentiamo di affrontare brevemente più avanti.

L’esplosione del nuovo antigermanesimo rispetto alle rigidità mostrate in questi ultimi anni e mesi, è quindi comprensibile, ma manifesta anche l’incapacità di cogliere pienamente quale fosse e quale sia il progetto dell’Euro, progetto che le classi dirigenti dei paesi periferici hanno sapientemente nascosto, o, a loro volta, compreso solo in parte, mentre, oltralpe, per diverse ragioni di corrispondenza anche culturale, la natura profonda dell’Euro è stata colta e introiettata molto più correttamente; oltre che sapientemente comunicata attraverso il sempre presente nazionalismo tedesco e la presunta superiorità del nord Europa, opinioni che attraversano il corpo sociale di questi paesi, sia a destra che nelle formazioni socialdemocratiche.

Ciò che quindi va tenuto presente, in conclusione, è che, al di là di qualsiasi giudizio di ordine morale o opportunità politica, ogni ipotesi alternativa alla situazione attuale, può darsi solo fuori dall’Euro, poiché questa moneta non è soltanto un mezzo di scambio, ma equivale ad una rigorosa costituzione materiale corroborata da altri elementi formali – i trattati –. Si tratta delle due classiche facce della medesima medaglia. Euro e trattati sono l’una l’esplicitazione degli altri e viceversa.

 

Il disvelamento degli eventi greci e le prospettive

Queste sommarie riflessioni non sono certamente cosa nuova. Schiere di economisti si sono esercitati sul tema raggiungendo livelli di chiarezza avanzati e direi indiscutibili, sia in Italia, sia in Europa che oltre oceano.

La novità di oggi è la dimostrazione empirica di tali riflessioni, contenuta negli esiti ancora in corso della vicenda greca. Se l’umiliazione non di un partito o di un governo, ma dei diritti democratici di un intero popolo è diventata una evidenza non più celabile, significa che l’opzione che ci troviamo di fronte è altrettanto chiara.

L’eurozona (e l’Europa) non è riformabile dentro gli assetti descritti. Aut aut. Bisogna quindi evitare di attardarsi ancora per mesi o anni nell’inveire verso il destino cinico e baro costituito dai cattivi del nord e dalla loro incapacità di assumerci come uguali.

Come in una intelligente separazione consensuale, è bene tornare ad equilibrii nei quali ognuno possa giocare la propria partita con tutte le carte a disposizione, ivi inclusa quindi la possibilità di controllare ed eventualmente svalutare la propria moneta in funzione di riequilibrio. Ciò non significa tornare ad uno stadio di pericolose frizioni tra nazioni che fanno intravvedere lo spettro antico delle guerre in Europa, una guerra senza esclusione di colpi c’è già da anni e gli esiti li abbiamo adesso sotto gli occhi. E’ da questa guerra che bisogna uscire. Poi ci si può ritrovare a cena da ex coniugi, discettando cordialmente sul passato e sul futuro. E magari di ritrovare nuove ragioni per stare insieme, ma tra diversi interlocutori.

La possibilità di ricostruire un’alternativa in Europa che salvaguardi democrazia e diritti nell’intero continente passa attraverso il recupero della coscienza popolare di situarsi, ognuno nei rispettivi paesi, dentro un sano conflitto di classe allargato, dove i lavoratori e i produttori nazionali assumano la coscienza di sottostare a dinamiche imposte delle rispettive frazioni nazionali della borghesia globale o se vogliamo delle oligarchie, delle elites della rendita e che quindi, conseguentemente, adottino tutte le misure di resistenza e di possibilità di cambiamento garantiti, ancora per poco, dalle rispettive carte costituzionali e dalla possibilità di procedure democratiche. Caduti gli alibi dei costi dell’Europa e di vincoli esterni, la conflittualità sociale nei paesi del nord (e del sud) potrebbe riattivarsi e ciò darebbe un contributo alla crescita e al riequilibrio tra paesi o tra area nord e sud dell’Europa. Forse anche al recupero di un europeismo che si sta dissolvendo.

L’altro passaggio parallelo è quello di saldare, come si diceva una volta, le lotte nazionali con quelle degli altri paesi e di raggiungere una soglia di mobilitazione che consenta la ricostruzione dell’Europa su nuove basi. Certamente questi passaggi saranno in buona parte diacronici; ma quelli nei paesi del sud Europa possono risultare più imminenti e vicini temporalmente.

Si tratterà di un processo non privo di rischi e di dure sollecitazioni, ma come abbiamo visto, è l’unica strada che può essere percorsa. Ed è abbastanza probabile che prima che le forze sociali e politiche siano in grado di elaborare e operare questa congiunzione, ci penseranno gli stessi mercati (e i paesi del nucleo duro, come si preannuncia in queste ore) a renderla praticabile, perché, la dimostrazione della natura dogmatica e insostenibile dell’Euro nell’attuale eurozona è stata dimostrata dai fatti ed è lampante anche a nord.

 

Alcuni aspetti geopolitici

Si ricorda da più parti che l’introduzione dell’Euro abbia avuto anche delle regioni geopolitiche: Mitterrand l’ha esigita in cambio della riunificazione tedesca e in ciò ha trovato l’accordo di molti altri paesi, a partire dalla Gran Bretagna e dall’Italia.

La Germania ha colto questa sfida e in 10 anni dalla sua introduzione, senza i tank, ma solo rivendicando le regole sottoscritte improvvidamente da chi non aveva capito, ha imposto la sua egemonia su tutto il continente. Può trattarsi di casualità, ma forse anche di una qualità della classe dirigente di questo paese che aveva colto meglio di altri verso quali lidi si sarebbe giunti (personalmente ho assistito in quegli anni, a discussioni tra tedeschi e italiani che prefiguravano gli scenari che abbiamo di fronte); è utile ricordare che le famose riforme introdotte all’inizio del 2000 sono state fatte non da un cancelliere della CDU, ma da Schroeder, un socialdemocratico che costrinse alle dimissioni l’allora ministro del tesoro della SPD, Oscar Lafontaine, il quale, precedentemente, si era anche opposto all’unificazione immediata a parità di marco, cioè all’annessione della ex DDR uscendone sconfitto.

Quella battaglia politica vinta dalla destra dell’SPD risulta in perfetta sintonia con quanto questo partito ha espresso negli anni successivi, fino ai due governi di larghe intese, dove gli esponenti dell’SPD non si sono minimamente distinti – e continuano a non distinguersi  – dagli esponenti della CDU-CSU. Anzi, in questi giorni, abbiamo ascoltato in alcune espressione di Sigmar Gabriel, toni addirittura più arroganti e liquidatori di quelli di Schaeuble, sulla questione greca. E abbiamo visto la campagna elettorale di Schulz, in qualità di candidato a presidente della Commissione europea, che ricalcava i peggiori toni di sciovinismo e di ammiccamento gratificante alla superiorità dei tedeschi.

Ciò può corroborare l’ipotesi che la classe dirigente tedesca, nella sua stragrande maggioranza, si comporti da tempo con una visione di medio-lungo periodo e che usa l’Euro come testa di ariete per conquistare l’egemonia nel continente ed emanciparsi progressivamente dalla subalternità tedesca agli USA.

Se il risultato egemonico in Europa è conseguibile, l’abbandono dello stretto rapporto con gli Usa sarà una conseguenza naturale e si aprirebbero scenari di nuove e libere relazioni verso l’oriente russo,nell’ottica storica che la Germania ha sempre privilegiato, cioè da quello di una superiore potenza non solo economica verso i grandi territori centro asiatici. Cosa non proprio auspicabile neanche per la Russia, in questi termini, come insegna la vicenda ucraina. Anche se il Nord-Stream li collega come un cordone ombelicale e Gerard Schroeder siede da anni nel board di Gazprom.

Quindi agli USA non conviene affatto che la Grecia esca dall’Eurozona (al di là del rischio che questo paese cada nell’orbita russa o cinese). Ciò che deve essere scongiurato è una liberazione dell’Europa in generale e a guida esclusivamente tedesca in particolare. O comunque gli alleati atlantici prediligono, in continuità storica, uno status di permanente debolezza del vecchio continente. Anche per questo, il FMI, dopo decenni di rigore assoluto, adesso è pronto a tagliare il debito greco in quanto insostenibile.

Che fine farebbe, in questo scenario, un’opzione di uscita dall’Euro in versione euro-mediterranea ? Può apparire un’impresa di Sisifo, ma andrebbe incontro ad alcuni elementi di riequilibrio che potrebbero far comodo a molti: innanzitutto agli USA e alla Russia, i quali entrambi potrebbero vedere ridotte le ambizioni tedesche di un’Europa egemonizzata dall’aquila imperiale. Un quarto polo del sud Europa cooperante con Africa e Medio Oriente, in cui sia presente la Francia, potrebbe costituire un elemento di riequilibrio e di pace. Un suo patto di cooperazione con l’America Latina e i BRICS, aprirebbe ulteriori spazi.

Le relazioni tra sud e nord Europa non avrebbero che da ristabilirsi su un piano paritario e di reciproco rispetto. La politica potrebbe tornare ad imporsi fuori dagli steccati del neoliberismo e la democrazia potrebbe essere salvata, insieme all’Europa.

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