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Moderazione salariale e produttività in Europa

di Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas

Sul sito del Institute for New Economic Thinking, un importante contributo di Heiner Flassbeck e Costas Lapavitas chiarisce in maniera definitiva la questione se la forza esportatrice tedesca provenga dalla concorrenza sleale della compressione salariale o dalla mitica produttività germanica. Porre la questione in questi termini è infatti fuorviante, in quanto significa non voler comprendere che in una unione monetaria l’accordo dovrebbe essere di mantenere i salari nominali in linea con la produttività, tenuto conto del tasso di inflazione concordato

un euro in equilibrioDi recente, la nostra analisi è stata messa in discussione da Servaas Storm, che ha affermato che l’accusa a carico della Germania di avere spaccato l’eurozona con il suo neomercantilismo è insostenibile. [1]Qui dimostriamo che la critica di Storm ha un certo aplomb, ma manca di sostanza.

La maggior parte dei macroeconomisti in Europa ha probabilmente ormai accettato che la persistente moderazione salariale tedesca è la causa centrale degli squilibri fondamentali nell’Unione Monetaria Europea. Gli estensori di questa nota hanno dimostrato che questi squilibri sono responsabili della crisi dell’Eurozona nel senso più ampio, dal momento che hanno provocato lo strapotere tedesco nei flussi commerciali (esportazioni), l’esportazione di disoccupazione dalla Germania, scarsi investimenti e bassi incrementi di produttività all’interno dell’Unione, fino ad arrivare alla deflazione. [2]

 

Gli squilibri nell’ Unione monetaria europea

La posizione di Storm è chiara e vale la pena citarlo per esteso:

In secondo luogo, come mostrato in figura 1 [nell’articolo di Storm], non vi è alcun segno evidente di una compressione dei salari nominali dei lavoratori tedeschi se confrontiamo la Germania con la zona euro nel suo insieme (Germania esclusa). Negli anni ’90 i salari nominali tedeschi sono aumentati rispetto alla zona euro e il salario nominale relativo tedesco è rimasto più o meno piatto durante il periodo 1999-2007 (nel corso di questi otto anni c’è stato un calo trascurabile di 0,7 punti percentuali).

 Nonostante questo, è vero che il costo del lavoro per unità di prodotto in Germania è sceso rispetto a quello del resto della eurozona (come illustra la figura 1), ma questo non è stato il risultato della moderazione salariale: è stato interamente dovuto alle eccezionali prestazioni di produttività della Germania: tra il 1999 e il 2007 la produttività media del lavoro tedesco (per ora lavorata) è aumentata di quasi 8 punti percentuali rispetto al resto della zona euro, il che spiega pienamente il calo di 7,8 punti percentuali del relativo costo unitario del lavoro in Germania nello stesso periodo. È stata la grande capacità ingegneristica tedesca, non la moderazione dei salari nominali né le “riforme” Hartz a ridurre il costo del lavoro unitario. Qualsiasi discorso su una Germania che deliberatamente faccia concorrenza sleale ai suoi vicini della zona euro è quindi fuori argomento.“

In sintesi, Storm ammette che la moderazione salariale in Germania c’è stata, ma ritiene questo fatto relativamente poco importante. La sua idea è che ciò che ha fatto la differenza, nella zona euro, è stata la superiore produttività tedesca, e la conseguente diminuzione del relativo costo unitario del lavoro. Accusare la Germania di avere deliberatamente messo in condizioni di inferiorità i suoi partner attraverso la moderazione salariale nazionale significherebbe non cogliere il punto.

Una posizione stupefacente. Storm, che ha scritto una quantità di articoli sull’eurozona, semplicemente non capisce il funzionamento delle unioni monetarie e le loro conseguenze per le nazioni che ne fanno parte.

Un’unione monetaria è, in sostanza, un accordo per avere un obiettivo di inflazione comune unito alla volontà di trasferire la gestione della politica monetaria a una singola banca centrale. Poiché i costi unitari del lavoro sono strettamente correlati con l’inflazione, un’unione monetaria implica la necessità di un accordo perché i salari nominali in ogni Stato membro aumentino in proporzione agli aumenti della produttività nazionale sommati all’obiettivo di inflazione stabilito (nel caso della UEM appena al di sotto del 2%). Se questa regola fosse seguita, naturalmente si verificherebbero comunque differenze nella produttività tra gli stati membri, ma questo non comporterebbe divergenze nella competitività nazionale all’interno dell’unione monetaria. I divari di competitività tipicamente emergono da divergenze nel costo unitario del lavoro correlate a divergenze dell’inflazione.

Storm non nega che in Germania c’è stata una svalutazione reale, dal momento che ammette che i salari tedeschi sono aumentati meno della produttività tedesca. Ma afferma che i salari tedeschi sono aumentati meno rispetto a quelli dei partner della Germania mentre è la produttività tedesca che è aumentata fortemente rispetto a quella dei partner della Germania, pensando che questo in qualche modo sostenga la sua tesi. In realtà questo argomento non è null’altro che una riformulazione con altre parole della nostra tesi di fondo: i salari nominali tedeschi sono aumentati troppo poco in rapporto all’obiettivo di inflazione del 2%. È notevole che Storm non ne colga le implicazioni. E questo anche senza menzionare il fatto che semplicemente non è vero che le prestazioni di produttività tedesche sono state nettamente superiori a quelle dei paesi concorrenti; infatti, nel caso della Francia è del tutto falso.

C’è, tuttavia, un più ampio significato nella critica mossa da Storm, che rivela alcuni dei malintesi che si sono via via accumulati nella definizione della teoria e delle politiche economiche. In particolare, c’è una profonda incapacità di cogliere i meccanismi della concorrenza nel commercio tra le nazioni e le sue implicazioni sui tassi di cambio.

Nella parte che segue, dimostriamo brevemente che la sovra- e sottovalutazione dei tassi di cambio impliciti in una unione monetaria non può essere causata da crescite divergenti della produttività, ma solo dal fatto che i salari nominali crescono in misura superiore o inferiore all’aumento della produttività nazionale. L’unica misura valida per gli aumenti dei salari nominali può essere l’obiettivo di inflazione concordato.

Il concetto più importante, in questo senso, è che la concorrenza tra le nazioni sui mercati internazionali è qualitativamente diversa dalla concorrenza tra le imprese. Tenendo ben fermo questo in mente, si capisce che il destino dei sistemi di cambi fissi, nonché delle unioni monetarie, è determinato da un costante aggiustamento dei salari nominali alla produttività nazionale di ciascuno stato membro.

In Europa, fino a quando la Germania continuerà a mantenere le attuali politiche nazionali e a imporre l’austerità al resto dei suoi partner, la barca dell’Unione monetaria europea continuerà a dirigersi a tutta velocità contro gli scogli.

 

Competitività dei paesi e competitività delle imprese[3]

Durante gli anni della “globalizzazione” è diventato un luogo comune ritenere che le nazioni si facciano concorrenza tra loro in modo simile alle aziende. Di più, si è spesso ritenuto che le nazioni dovrebbero essere proprio strutturate per competere in questo modo. Si è postulato che la ricchezza delle nazioni dipenda dalla loro abilità di adattarsi in modo efficace alle sfide create dai mercati aperti di merci e capitali: le nazioni con una elevata dotazione di capitale sarebbero state messe sotto pressione dai partner commerciali con standard di lavoro bassi. In particolare l’esistenza di un enorme bacino di lavoro disponibile nei paesi in via di sviluppo – come la Cina e l’India – avrebbe presumibilmente alterato il rapporto capitale/lavoro in tutto il mondo a favore del capitale, costringendo i salari bassi e alti a trovare un equilibrio in qualche punto nel mezzo.

La realtà sembra aver confermato questa teoria, visto che i salari in molti paesi del Nord caratterizzati da stipendi alti sono stati infatti messi sotto pressione, e il lavoro ha drasticamente perso nei confronti del capitale, lasciando che fosse questo ad appropriarsi dei benefìci derivati dalla crescita della produttività. [4] La quota salari è scesa e la promessa fatta dai sostenitori del libero mercato che tutti avrebbero pienamente goduto dei frutti del progresso della società sta rapidamente svanendo. Tuttavia, l’attuale declino della quota salari non implica che le forze che guidano questo sviluppo siano quelle previste nella teoria neoclassica del mercato del lavoro.

Inoltre, e contrariamente al pensiero neoclassico, l’analisi della concorrenza tra le imprese non si applica alla concorrenza tra le nazioni – né a quelle con valute indipendenti, né a quelle appartenenti a un’unione monetaria.

Consideriamo, in primo luogo, i parametri di base della concorrenza tra le imprese, secondo quanto stabilito da entrambe le teorie economiche keynesiana e marxista.

In un ambiente dinamico, le imprese di un’economia di mercato competono attraverso gli aumenti di produttività. Le condizioni dal lato dell’offerta sono praticamente uguali per tutti, dal momento che le forze del mercato tendono a portare allo stesso livello i prezzi dei beni intermedi, come il lavoro, e il costo del capitale. Di conseguenza, successo o fallimento sono determinati dallo specifico valore aggiunto a livello dell’impresa ai beni e ai servizi ottenuti come contributi al mercato aperto. Le imprese devono pagare il prezzo del lavoro, che si determina sul mercato a seconda della diversa qualità e livello di specializzazione, e coprire il costo del capitale.

Le imprese che sono in grado di generare una maggiore produttività attraverso l’innovazione e nuovi prodotti, produrranno a minor costo unitario del lavoro rispetto alle loro concorrenti, offrendo così i loro prodotti a prezzi più bassi, o ricavando profitti più elevati per prezzi uguali. Nel primo caso, le aziende guadagnano quote di mercato; nel secondo caso possono ottenere vantaggi strategici a lungo termine grazie a maggiori investimenti. Finché i prezzi della manodopera e degli altri prodotti intermedi sono uguali, le imprese concorrenti si adattano adottando le stesse o simili tecnologie, oppure abbandonano il campo e fallendo.

Nella concorrenza tra le nazioni, invece, questo meccanismo non è applicabile, perché normalmente i salari sono fissati a livello nazionale. Sia a causa di una mobilità del lavoro limitata a livello internazionale, sia perché i salari sono stabiliti attraverso procedure istituzionali specifiche in ogni nazione, le nazioni fissano i salari, non devono accettarli. Se la contrattazione dei salari è centralizzata a livello dello stato nazionale, o se il lavoro è mobile solo entro i confini della nazione, è ampiamente applicabile la cosiddetta “legge del prezzo unico”, vale a dire un costo uguale per il lavoro standard. Ne segue immediatamente che una maggiore crescita della produttività a livello di una nazione non aumenterebbe la competitività delle imprese della stessa nazione in rapporto al resto del mondo, dal momento che i vantaggi in termini di produttività normalmente sarebbero tradotti in una maggiore crescita nominale (e reale) dei salari e un immutato costo unitario del lavoro.

Anche se, per qualsiasi ragione, questo meccanismo non funzionasse, una nazione con elevata produttività, ma salari molto bassi – e quindi costi molto bassi per unità di lavoro – non per questo vedrebbe aumentare automaticamente la sua competitività nazionale, né la competitività delle sue imprese. Infatti i prezzi in quella nazione non necessariamente sarebbero inferiori rispetto al resto del mondo, se espressi in valuta internazionale. In un mondo di valute nazionali e di politica monetaria nazionale, un paese che vende i propri prodotti a prezzi molto più bassi guadagnerebbe quote di mercato in molti settori, accumulando così un grande surplus commerciale e delle partite correnti. A questo punto aumenterebbe la pressione economica e politica perché adegui il livello di salari e prezzi espressi in valuta internazionale e prima o poi il paese sarebbe costretto ad adeguare i suoi salari, espressi in valuta internazionale, attraverso una rivalutazione della sua moneta.

Le nazioni accetterebbero di aprire le loro frontiere al commercio e ai flussi di capitale, se potessero essere certe che le loro imprese avrebbero ragionevoli speranze di farcela nella divisione globale del lavoro, e che non sarebbero in pericolo di perdere per sempre contro il resto del il mondo. Questa semplice affermazione è alla base di tutti gli accordi commerciali internazionali dell’Organizzazione mondiale del commercio e di chiunque altro. Se, a livello nazionale, il compenso nominale del lavoro (cioè del fattore immobile a livello internazionale) supera costantemente la sua efficacia (produttività del lavoro) di un margine più ampio rispetto ai paesi concorrenti, il paese finisce nei guai, perché la maggior parte delle sue imprese si trova difficoltà. Infatti, le sue imprese dovrebbero o chiedere prezzi più alti e accettare di perdere quote di mercato, o adattarsi a profitti più bassi per evitare la perdita di quote di mercato.

Una condizione di questo tipo – una sopravvalutazione dovuta a un apprezzamento del “tasso di cambio reale” – non sarebbe sostenibile a lungo. A spanne, se la sopravvalutazione accumulata raggiunge circa il 20% o giù di lì, la crisi diventa inevitabile. Un crescente deficit delle partite correnti è l’indicatore più visibile di questa condizione patologica, non la sua causa. Se i tassi di cambio fossero regolabili, la soluzione sarebbe semplice: la valuta del paese in deficit dovrebbe svalutare, riportando i salari nominali e il costo unitario del lavoro nominale – espressi in valuta internazionale – a un livello competitivo. La svalutazione porterebbe anche a una diminuzione relativa dei salari reali, ma questo sarebbe un effetto secondario e una parte accessoria del processo sottostante. Così in Europa nel 1992 Italia e Gran Bretagna hanno affrontato proprio questo problema, come membri del Sistema monetario europeo; una ha optato per entrare e l’altra per uscire, ma entrambe hanno svalutato.

In un’unione monetaria gli stati membri dovrebbero concordare – esplicitamente o implicitamente – di non imboccare la strada inflazionistica, cioè, di non avere salari nominali superiori alla produttività nazionale in misura superiore a un obiettivo esplicito di inflazione. Se decidono di imboccare questa strada, dovrebbero farlo insieme. Con un obiettivo di inflazione vicino al 2% nell’Unione monetaria europea, l’accordo implicito è che i salari nominali non devono aumentare in misura maggiore della crescita della produttività nazionale, più il due per cento. Questo significa che ogni paese potrebbe e dovrebbe godere dei benefìci dei propri aumenti di produttività, sia che siano dell’1%, come in Germania, o del 2%, come in Grecia. Questi benefìci significherebbero crescita dei salari reali, o riduzione dell’orario di lavoro; o forse una combinazione dei due. Una strategia simile non scoraggerebbe affatto – anzi incoraggerebbe – in ciascun paese dell’Unione l’adozione di misure e l’introduzione di riforme per migliorare la produttività.

Ma il punto più importante è che in un’unione monetaria le deviazioni dall’obiettivo comune di inflazione sono ugualmente pericolose, in entrambi i sensi: sia se il costo unitario nominale del lavoro aumenta più velocemente sia se più lentamente rispetto al target. Nel primo caso si creano rischi inflazionistici per l’Unione nel suo insieme, mentre nel secondo si crea il rischio di deflazione. Se un membro devia dall’obiettivo verso l’alto o verso il basso, ne risulta una situazione insostenibile esternamente, che può anche riflettersi in variazioni dei tassi di interesse a lunga scadenza tra i membri dell’unione.

Fin dai tempi di David Ricardo l’economia politica ha saputo che la concorrenza tra i paesi non può e non deve essere analizzata come si analizza la concorrenza tra le imprese. Per usare la terminologia di Ricardo, nella concorrenza tra nazioni la teoria del valore lavoro non tiene e la teoria dei vantaggi comparati prevale. Per un’unione monetaria come l’Unione monetaria europea, il principio che c’è differenza tra paesi e imprese significa che la competitività nazionale dipende da divergenze rispetto all’obiettivo di inflazione, e quindi dal costo del lavoro unitario.

I tedeschi dovrebbe conoscere meglio di chiunque altro le difficoltà causate dalla divergenze salariali in una unione monetaria. La deviazione dei salari della Germania dell’Est, espresse in valuta internazionale, dopo l’Unione monetaria tedesca del 1990, ha distrutto l’industria della Germania orientale e costretto a una unione con trasferimenti fiscali. Sfortunatamente, per l’Unione europea e l’Unione monetaria europea la possibilità di un’unione che preveda regolari trasferimenti fiscali tra stati membri non è semplicemente tra le opzioni disponibili.

Fino a quando la Germania persiste con la sua politica di moderazione salariale, l’unico futuro per l’Unione monetaria europea è il crollo.

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Note
[1] Vedere qui .
[2] Vedi (Flassbeck e Lapavitsas, 2013 e 2015). Vedi anche Flassbeck (2007).
[3] Per un’analisi più approfondita di questo problema vedere Flassbeck e Lapavitsas (2015).
[4] Cfr Lapavitsas (20013, cap. 7).
traduzione di @Rododak

Comments

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Francescozucconi
Friday, 22 April 2016 22:31
È abbastanza chiaro che lItalia deve velocemente creare un euro di tipo 2. Non capisco come si possa odiare il proprio paese così a fondo da non voler prendere questa decisione ovvia.
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