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Lo stimolo fiscale: decentralizzato o centralizzato?

di Rodolfo Signorino*

crisieuropaIl prof. Rodolfo Signorino, docente di Economia presso l’Università di Palermo, ci ha inviato questo articolo in cui avanza alcune critiche al paper di Thomas Fazi e Guido Iodice “Why further integration is the wrong answer to the EMU’s problems: the case for a decentralised fiscal stimulus”, regentemente premiato dal think tank Progressive Economy di cui abbiamo già parlato.

Segue in fondo al testo la risposta di Fazi e Iodice.

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“The Eurozone looked like a wonderful construction at the time it was built. Yet it appeared to be loaded with design failures. In De Grauwe (1999) I compared the Eurozone to a beautiful villa in which Europeans were ready to enter. Yet it was a villa that did not have a roof. As long as the weather was fine, we would like to have settled in the villa. We would regret it when the weather turned ugly” (De Grauwe 2013).

Come mi capita di dire ai miei studenti, scherzando ma solo fino ad un certo punto, anche nel dibattito macroeconomico esistono le fads.

In particolare, quando a Wall Street imperversa il Toro, le imprese private macinano profitti e distribuiscono ricchi dividendi e la disoccupazione è a livelli socialmente accettabili, siamo (quasi) tutti economisti classici e l’ ‘unico gioco in città’ è proporre versioni inter-temporalmente sempre più raffinate della Treasury View. Quando la ruota macroeconomica gira in direzione inversa, diventiamo (quasi) tutti all’improvviso Keynesiani/Minskyani – i più audaci di noi riscoprono perfino il Kaldor di The Scourge of Monetarism – e non mancano in letteratura i mea culpa per aver sottostimato, ovviamente in buona fede, il valore del moltiplicatori fiscali o per aver perfino cambiato di segno al moltiplicatore keynesiano, se abbiamo in passato sostenuto una qualche variante della tesi della austerità fiscale espansiva.

Il punto è che le fads nel dibattito macroeconomico passano; mentre quelle che restano sostanzialmente immutate sono le visioni a priori del mondo, visioni che indirizzano la ricerca teorica ed empirica e che ispirano i contributi che verranno pubblicati sui fascicoli delle riviste scientifiche di prossima pubblicazione.

In estrema sintesi e violentemente semplificando, la visione a priori del mondo che giustifica la costruzione di una villa senza tetto, per riprendere la metafora di De Grauwe, è quella che ritiene che esista un tasso ‘naturale’ di disoccupazione che dipende (secondo Milton Friedman) unicamente dalle caratteristiche strutturali del mercato del lavoro e delle merci e che non può essere significativamente o permanentemente modificato da politiche fiscali o monetarie espansive: allora la curva di Phillips di lungo periodo è verticale in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione ovvero del PIL di pieno impiego non inflazionistico e dunque non esiste alcun trade-off utilizzabile sistematicamente da parte dei policy-maker fra inflazione e disoccupazione. Corollario: la moneta nel lungo periodo è neutrale, poco più che uno scalare nominale del sistema economico. Se la moneta nel lungo periodo è neutrale, allora il Banchiere Centrale si deve occupare quasi solo di garantire la stabilità dei prezzi nominali delle merci. D’altra parte, in assenza di rigidità reali, una “divina coincidenza” assicura il Banchiere Centrale che non esiste alcun trade-off fra stabilizzare l’inflazione e stabilizzare l’output gap. Ovviamente, oltre al tasso naturale di disoccupazione, questa visione a priori del mondo prevede che esista un tasso di interesse ‘naturale’ di wickselliana memoria, per cui il compito specifico del Banchiere Centrale è quello di gestire opportunamente il tasso di interesse monetario a breve termine al fine di evitare che divergenze fra i due tassi, quello monetario e quello naturale, inneschino spirali inflattive/deflattive che a loro volta determinerebbero instabilità nella parte reale dell’economia.

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Quanto sopra è ben noto, in particolare ai cultori della storia dell’analisi economica. Ma, a mio avviso, vale la pena ribadirlo in quanto se la visione a priori del mondo è quella sopra descritta, allora Fazi e Iodice (2016) hanno buoni argomenti per sostenere che 

The European Commission’s proposed ‘fiscal union’ will serve to reinforce the technocratic and undemocratic character of EU governance, while providing little (if anything) in terms of federal-level funding. In fact, if the German finance minister Wolfgang Schäuble’s recent call for a ‘fiscal and political union’ backed by a ‘euro budget’ – echoed by the governors of the German and French central banks, Jens Weidmann and François Villeroy de Galhau – is anything to go by, it is likely to revolve first and foremost around the creation of a European budget commissioner with the power to reject national budgets (Fazi and Iodice 2016)

Ma, e qui sta la mia perplessità nei confronti della tesi principale sostenuta da Fazi e Iodice, se questa è la visione del mondo dominante che ispira l’architettura istituzionale dell’Unione Europea, allora la loro proposta di uno stimolo fiscale decentralizzato e realizzato attraverso una restrizione dei movimenti dei capitali, per cui i cittadini residenti in un dato Stato europeo possono comprare solo titoli del debito pubblico emessi dal loro Stato sovrano, oltre ad essere irricevibile sul piano teorico, rischia di essere potenzialmente contro-finale sul piano dell’applicazione pratica. È irricevibile sul piano teorico in quanto il deficit spending (centralizzato o decentralizzato che sia) e la connessa restrizione alla libertà di movimento dei capitali sono proposte ovviamente incompatibili con la visione a priori del mondo sopra descritta. È potenzialmente contro-finale sul piano dell’applicazione pratica in quanto, anche tralasciando di considerare le non-indifferenti difficoltà insite in una efficace realizzazione della sopra-menzionata restrizione alla libertà di movimento dei capitali intra-euro (difficoltà che, non ho dubbi, sono ben presenti a Fazio e Iodice), uno stimolo fiscale decentralizzato e realizzato in ordine sparso rischia di aggravare gli squilibri commerciali in area intra-euro, a fortiori se la Germania e i paesi della Kerneuropa persistono nelle loro politiche di compressione della domanda interna e di export-led growth. In altri termini, non si può escludere a priori che, per essere veramente efficace, una politica di ri-nazionalizzazione della politica fiscale richieda ben più della semplice limitazione della libertà di movimento dei soli capitali finanziari. Se questo scenario dovesse materializzarsi e politiche neo-protezionistiche dovessero progressivamente prevalere, allora l’idea stessa di Europa finirebbe per essere svuotata di significato.

Che fare, allora? Se interpreto correttamente lo spirito della proposta di Fazi e Iodice, si tratta di una sorta di second-best policy, una proposta di policy condizionata dai vincoli imposti dalla visione a priori del mondo che sottende la struttura istituzionale attuale dell’Unione Europea. Di converso, se si ritiene che la risposta corretta ai problemi dell’Unione Europea consista in una maggiore integrazione, allora la strada da seguire è necessariamente quella di un cambiamento paradigmatico, ossia l’accettazione che le economie possono sovente trovarsi in un regime keynesiano, demand constrained. La villa ha bisogno urgente di un tetto. Mancando il tetto e permanendo il cattivo tempo, non deve sorprendere se la tentazione da parte degli abitanti della villa di abbandonare la stessa risulti irresistibile. In altri termini, una volta accettata l’idea che agenti privati spesso non sono in grado di coordinarsi in modo efficiente attraverso i normali meccanismi di mercato e che l’esito di tale coordination failure è la disoccupazione involontaria o keynesiana, allora esistono ottimi argomenti per sostenere la proposta di Arestis e Sawyer (2012) e ricordata dagli stessi Fazi e Iodice, di una effettiva unione fiscale:

An effective fiscal union would require tax-raising powers at the EMU level in the order of at least 10 per cent of the EMU’s GDP; fiscal transfers from richer to poorer countries; a federal authority with the capacity to engage in deficit spending; the support of the ECB in the operation of fiscal policy; a proportionate transfer of democratic legitimacy, accountability and participation from the national to the supranational level; etc. (citato in Fazi and Iodice 2016)

In questo scenario lo stimolo fiscale avverrebbe in un contesto centralizzato e, nel migliore dei mondi possibili, si avrebbero gli strumenti per internalizzare le esternalità negative derivanti da uno stimolo fiscale decentralizzato.

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Risposta di Guido Iodice e Thomas Fazi

Seguiamo a ritroso la gentile critica del prof. Rodolfo Signorino alla nostra proposta di stimolo fiscale decentralizzato – vale a dire l’ipotesi di dare ai singoli stati maggiore spazio fiscale sotto la garanzia (implicita ma non troppo) dei debiti pubblici da parte della BCE – contenuta nel nostro paper premiato dal think tank Progressive Economy:

a) il prof. Signorino ritiene che la proposta che abbiamo avanzato nel nostro paper costituisca un second best rispetto a quella di uno stimolo fiscale centralizzato a livello di Unione Europea. Ovviamente, se con questo intendiamo qualcosa di simile a ciò che farebbe un ipotetico stato federale, democratico e keynesiano, il prof. Signorino ha perfettamente ragione. Se invece per stimolo fiscale centralizzato intendiamo qualcosa che viene gestito dalle burocrazie non elette di Bruxelles, magari privilegiando gli amici finlandesi a spese degli avversari mediterranei e stabilendo centralmente cosa è meglio per la Grecia e l’Italia, allora crediamo appaia evidente che la nostra proposta costituisce, non così paradossalmente, un first best.

b) Il prof. Signorino ritiene che la nostra proposta costituirebbe la premessa per una ripresa degli squilibri delle partite correnti tra paesi dell’eurozona e, anche per questo, le vada preferita l’idea di uno stimolo fiscale centralizzato. A tale proposito non cogliamo quale sia la differenza sostanziale: difatti l’esperienza (anche quella italiana) dimostra semmai che i trasferimenti hanno conservato, se non aggravato, gli squilibri tra aree afferenti ad un unica zona valutaria. Diverso sarebbe il caso di politiche industriali mirate, che sono sì uno stimolo fiscale, ma tutto orientato all’investimento, e quindi capace di mutare le condizioni dell’offerta. Il che è esattamente ciò che proponiamo nel nostro paper, con l’unica differenza che tale stimolo sarebbe decentralizzato invece che centralizzato, ma c’è da aspettarsi che produca paragonabili effetti positivi sul lato dell’offerta.

Tuttavia occorre chiarire bene una questione: la crisi dell’eurozona non è stata causata dagli squilibri della bilancia dei pagamenti legati a quelli di competitività reale tra le economie europee. Tali squilibri sono sicuramente da livellare – e noi per questo proponiamo infatti di utilizzare lo spazio fiscale aggiuntivo solo per investimenti produttivi – seguendo quanto ci ha insegnato Tony Thirlwall circa il vincolo esterno della bilancia dei pagamenti, ma questa è questione del tutto differente rispetto alla tenuta dell’area euro in quanto tale. I due piani non vanno confusi, pena cadere nel catastrofismo e nel finalismo storico in salsa noeuro, secondo il quale la moneta unica è destinata a crollare a causa degli squilibri commerciali e di non meglio precisate “contraddizioni interne”. Volendo usare la metafora di De Grauwe, l’euro sarà anche una casa senza tetto, ma le mura non crollano solo perché piove. Come ha sottolineato Marc Lavoie, la crisi dell’euro è da attribuirsi ad un’errata architettura della BCE, che è limitata nel suo ruolo di prestatore di ultima istanza verso gli stati (ma anche verso le banche di stati malmessi, si veda la Grecia). Il nostro paper affronta questo punto con una proposta shock: un nuovo whatever it takes che segni la fine, una volta e per sempre, di qualsiasi dubbio circa l’esistenza dell’eurozona nella sua attuale composizione.

c) Infine il prof. Signorino critica l’idea, contenuta nel nostro paper e ripresa da Richard Koo, di imporre una qualche forma di controllo sui movimenti di capitali all’interno dell’eurozona. Certamente si tratta di una proposta piuttosto radicale e noi stessi non pensiamo possa essere realisticamente attuata nella sua forma “forte”, vale a dire proibendo l’acquisto di titoli di stato esteri agli investitori nazionali. Più ragionevolmente si può avanzare la sua forma “debole”, vale a dire un sistema di disincentivi che penalizzino gli acquisti di titoli esteri considerati meno rischiosi. In fondo sarebbe una versione dei tassi negativi proposti da Keynes a Bretton Woods. Secondo il prof. Signorino, questa proposta entra in contrasto con la visione dominante che informa a sé l’architettura dell’Eurozona. E’ così infatti, e nel nostro paper lo esplicitiamo. Tuttavia tale “tabù” è già stato infranto: Cipro e Grecia hanno dovuto imporre controlli sui movimenti di capitali per evitare di essere costrette ad uscire dall’eurozona. In altri termini, la completa libertà di movimenti di capitali, almeno in situazioni estreme di sudden stop and capital flow reversal, si è rivelata incompatibile con la permanenza in un’area valutaria priva di qualche forma di riequilibrio (i trasferimenti fiscali ad esempio). Quindi occorre scegliere quali forme sono le migliori per prevenire il blocco completo dei movimenti di capitale, invece che trovarsi di fronte al paziente già in coma. Queste forme possono essere morbide nel momento in cui scattasse il nuovo “whatever it takes”. Difatti, una volta che la BCE garantisse il debito italiano, non ci sarebbe più pericolo di fughe verso l’estero. A quel punto, il problema sarebbe semmai evitare l’eccessivo afflusso di acquisti da parte di investitori tedeschi alla ricerca di qualche punto base in più di rendimento, afflusso che comunque costituirebbe un pericolo meno incombente perché, grazie alla garanzia della BCE che ipotizziamo, verrebbe meno il motivo principale per il quale fino al 2012 i titoli periferici venivano (s)venduti in massa per acquistare titoli dei paesi core. A quel punto i meccanismi di disincentivo tornerebbero comunque utili: in parte per rispondere all’esigenza di mobilitare il risparmio nazionale, che potrebbe essere attratto da titoli esteri con tassi anche solo lievemente più alti; in parte al fine di evitare un eccessiva dipendenza – e conseguente “cattura” – dei governi nazionali dagli investitori esteri; e infine come politica macroprudenziale.

Infine non possiamo non ricordare, a proposito di visione a priori del mondo, che essa appare in mutamento. L’ultimo sintomo è un recente articolo di Olivier Blanchard sull’insegnamento della macroeconomia che il prof. Signorino ha avuto modo di richiamare in un articolo pubblicato qualche giorno fa su Keynes Blog. Esso segue tutta una serie di revisioni, di cui lo stesso Blanchard è stato spesso protagonista, che vanno dal riconoscimento dell’utilità dei controlli sui movimenti di capitale in alcune circostanze (il che ci interessa particolarmente…), all’autocritica sulla sottovalutazione dei moltiplicatori fiscali, fino alle recenti affermazioni da parte di un Neo Keynesiano moderato come Larry Summers, che la domanda conta anche nel lungo periodo e che, addirittura, è la domanda a creare l’offerta. La legge di Say, per fortuna, è sempre meno mainstream.

Queste novità sul piano teorico ancora stentano a diventare politiche. Non è una novità. Ma la situazione politica europea è in rapido movimento e sarebbe azzardato cimentarsi in previsioni conclusive. In fondo quello che fino a poco tempo fa sembrava proibito – l’acquisto massiccio di titoli di stato da parte della BCE – oggi è realtà. E a breve le elezioni spagnole potrebbero riaccendere, su basi progressiste, quel conflitto tra centro e periferia che auspichiamo nel nostro recente libro “La battaglia contro l’Europa”.

*Docente di Economia Politica, Università di Palermo

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