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economiaepolitica

Brexit come crisi dell’Uem e della globalizzazione 

di Domenico Moro

london exit 640x427Contrari e favorevoli alla Brexit

L’uscita del Regno Unito dalla Ue, la cosiddetta Brexit, è stata universalmente giudicata come un fatto di notevole rilevanza. Tuttavia, non c’è accordo né sulle cause né sulle implicazioni politiche generali. A parere di chi scrive, la Brexit ha a che fare non solamente con la Ue, ma anche e soprattutto con la Uem, l’unione monetaria europea, essendo una conseguenza della divaricazione dei contrasti tra paesi che appartengono all’area euro e paesi che non appartengono all’area euro. L’allargamento di questa contraddizione è dovuta all’accelerazione del processo di integrazione europea, che si fonda sul suo nocciolo centrale costituito dai 19 Paesi dell’euro.

In effetti, Brexit appare essere il risultato non di una sola causa, ma di molteplici e diversi fattori intrecciati tra loro. Quindi, è necessario individuarli, valutandone il peso e l’importanza relativa. In primo luogo è necessario capire quali classi e settori di classe hanno sostenuto Brexit e quali gli si sono opposti. Contro Brexit era la City di Londra, che, insieme a New York, è una delle due maggiori piazze finanziarie mondiali e che rappresenta il 12% del Pil britannico. Secondo un sondaggio, tra le imprese appartenenti alla CBI, la confindustria britannica, l’80% era contrario all’uscita dalla Ue, il 15% incerto e solamente il 5% favorevole1.

Nella Federation of small business, associazione di lavoratori autonomi e Pmi incentrati sul mercato domestico, la situazione appariva più equilibrata, il 47% era per rimanere, il 41% per lasciare e l’11% incerto2. Insomma, ad essere contrario alla Brexit era soprattutto il grande capitale internazionalizzato, cioè la City, le grandi banche e le imprese più grandi e multinazionali. Viceversa, come si è visto dopo il voto, favorevoli alla Brexit erano, oltre a diversi settori di piccola borghesia (tra cui una quota importante di Pmi), soprattutto i settori più difficoltà delle classi subalterne e del lavoro salariato delle aree più povere dell’Inghilterra, quelli che sono stati colpiti maggiormente dalle trasformazioni economiche degli ultimi decenni.

A questo punto, visto che i settori economicamente dominanti della società britannica erano contrari alla Brexit e visto che i conservatori sono tradizionalmente espressione politica di questi settori sociali, bisognerebbe chiedersi perché Cameron, nel corso della campagna elettorale del 2013, promise il referendum sull’uscita dalla Ue.

 

Le trasformazioni della struttura economica del Regno Unito

Per capire le ragioni di questa apparente contraddizione, dobbiamo guardare al contesto in cui è maturata la proposta di referendum, a partire dalla struttura economica del Regno Unito. Il Regno Unito è un tipico esempio di società capitalistica nella fase più avanzata di sviluppo, che l’economista britannico Hobson, definiva già all’inizio del 900, con il termine di imperialista3. Questa caratteristica si è accentuata molto più che nelle altre economie avanzate nel corso degli ultimi decenni, a partire dall’avvento della Thatcher e soprattutto a seguito della globalizzazione, quando si è realizzata una forte deindustrializzazione combinata con estese privatizzazioni e delocalizzazioni. Nel Regno Unito contano molto di più le esportazioni di capitale, sotto forma di investimenti diretti all’estero (Ide), che le esportazioni di merci. Lo stock degli Ide in uscita britannici è passato dal 22,5% sul Pil nel 1990 al 74,4% nel 2013, vale a dire molto al di sopra delle altre economie europee occidentali di pari dimensioni, come la Francia, la Germania e l’Italia che arrivano rispettivamente al 59,7%, al 47,1% e al 28,9%, e molto più di Usa e Giappone, che arrivano al 37,5% e al 20,1%4. Al contrario, nel 2014 l’export di merci arriva al 17,1% sul Pil, meno di quanto accade in Germania, Francia e Italia, le cui incidenze sul Pil raggiungono rispettivamente il 39,1%, il 20,5% e il 24,5%5. Oggi, il Paese che un tempo era definito la fabbrica del mondo ha una produzione manifatturiera ben al di sotto non solo della Germania, ma anche dell’Italia e persino della Francia, che pure ha subito un processo di deindustrializzazione molto forte. Gli addetti alla manifattura britannica sono addirittura inferiori a quelli della Polonia.

bilancia con estero

Grafico 1 - Bilancia dei conti correnti con l'estero (2005-2015; in miliardi di euro)

 

Di conseguenza, il Regno Unito presenta un costante deficit della bilancia commerciale e dei conti correnti, che per dimensioni relative è il maggiore tra i Paesi avanzati. Anche se è vero che il deficit commerciale con l’estero non è una novità per il Regno Unito, risalendo già all’Impero, va osservato che il suo deficit commerciale è aumentato dall’introduzione dell’euro e, in particolare, la bilancia dei conti correnti (scambio di beni e servizi) negli ultimi anni si è gravemente deteriorata. Il passivo della bilancia dei conti correnti con l’estero è salito da 31,6 miliardi nel 2011 a 132,6 miliardi nel 2015 (Graf.1)6. Tale passivo dipende in gran parte dal deficit nell’interscambio di beni, che in proporzione è persino superiore a quello degli Usa, mentre nell’interscambio dei servizi il Regno Unito presenta un attivo. Infatti, nel 2014 il deficit nell’interscambio di beni arrivava a 185 miliardi7, pari al 6,3% del Pil, mentre quello Usa raggiungeva il 4,5%. Come già sottolineato da Realfonzo e Viscione, il deficit commerciale britannico è riconducibile alla guerra commerciale scatenata dalla Germania grazie all’euro8. Infatti, una parte importante del deficit britannico è nei confronti della Germania, per la quale il Regno Unito rappresenta il secondo maggiore surplus commerciale, 51 miliardi, di soli quattro miliardi inferiore a quello nei confronti degli Usa, che pure hanno una economia di quasi sei volte più grande del Regno Unito. A questo proposito non bisogna dimenticare che la Germania, dopo aver realizzato una sottovalutazione del cambio con l’introduzione dell’euro, tra 2011 e 2015 ha tratto ulteriormente vantaggio dalla svalutazione della valuta unica nei confronti della sterlina9.

Di fatto, il Regno Unito si è trasformato da Paese prevalentemente industriale e manifatturiero in Paese prevalentemente finanziario10, reggendosi soprattutto sugli enormi flussi di capitale in entrata verso la piazza finanziaria di Londra e sui servizi che questa è in grado di fornire a livello internazionale. Proprio nel 2015, come sottolinea Eurostat, il Regno Unito ha riportato livelli molto elevati di incremento netto delle passività relative agli investimenti di portafoglio (349,7 miliardi di euro pari al 13,6% del Pil) per via delle nuova attività di emissione sui mercati obbligazionari locali che ha finanziato l’acquisizione (netta) di altre attività quali la concessione di prestiti al resto del mondo11. Il ruolo finanziario mondiale di Londra si basa però su un delicato equilibrio, fondato sul fatto di essere interna alla maggiore area economica mondiale, la Ue12, facendo parte nello stesso tempo di uno Stato che mantiene la propria sovranità monetaria e ha una delle valute di riserva a livello mondiale. Del resto, la City ha riacquistato il suo vecchio ruolo di centro finanziario mondiale a partire dagli anni ’70, come destinazione degli eurodollari, cioè dei profitti non rimpatriati delle filiali europee delle multinazionali statunitensi e poi delle multinazionali europee, contribuendo alla realizzazione del mercato internazionale dei capitali13. Ad ogni modo, il Regno Unito ha sempre rifiutato di entrare nell’euro. Londra, quindi, è una piazza finanziaria che attrae banche e investitori da tutto il mondo perché è inserita nell’Europa ma nello stesso tempo è in grado di svolgere il suo ruolo in modo autonomo, coerentemente con le necessità dei mercati finanziari.

 

L’integrazione europea mette in crisi gli assetti dell’economia del Regno Unito

Il punto è che questo delicato equilibrio è stato messo a serio rischio a causa dell’accelerazione del processo di integrazione europea, in particolare dalla realizzazione dell’unione bancaria e dalla prossima realizzazione del mercato finanziario unico europeo, passaggi necessari e conseguenti all’integrazione monetaria europea. Nella definizione di nuove regole bancarie e finanziarie, Londra si sarebbe trovata in netta minoranza, all’interno della Ue, rispetto al nocciolo duro costituito dai Paesi dell’euro e in particolare rispetto alla Germania. E si sarebbe trovata in minoranza riguardo alle decisioni relative a un settore, come abbiamo visto, decisivo per l’economia e il ruolo internazionale del Regno Unito. Quindi, la mossa del referendum doveva servire a esercitare delle pressioni sulla Ue in vista della negoziazione di un accordo tra Regno Unito e Ue. L’obiettivo centrale del governo Cameron era salvaguardare gli interessi del Regno Unito in quanto Paese non aderente all’eurozona e deciso a mantenere la sterlina. L’accordo raggiunto il 18-19 febbraio tra il governo britannico e quelli degli altri Paesi della Ue ha offerto maggiori possibilità al Regno Unito e alla City di difendersi nel caso i Paesi della Ue adottino misure, sul piano bancario e finanziario, contrarie ai suoi interessi. Inoltre, la Ue ha riconosciuto al Regno Unito uno status speciale che lo esime dall’applicazione di una “unione sempre più stretta” come previsto dai Trattati europei, garantendogli spazi di maggiore sovranità. Infine, l’accordo ha permesso alcune restrizioni all’accesso da parte di lavoratori migranti di altri stati Ue alle prestazioni dello stato sociale, venendo incontro alle politiche britanniche di taglio alle spese sociali del resto coerenti con l’orientamento generale europeo.

Dunque, grazie agli accordi stipulati a febbraio con la Ue, l’obiettivo di Cameron e del grande capitale britannico era stato in gran parte raggiunto, anche se alcuni dubbi rimanevano sulla applicabilità di alcune decisioni. Tuttavia, il referendum, anche se aveva contribuito al raggiungimento di un accordo favorevole alla City, rimaneva in campo. Probabilmente l’idea Cameron era che, sulla spinta dell’accordo raggiunto, si avesse buon giuoco a ottenere il respingimento della Brexit. Come abbiamo visto ciò non è accaduto e il referendum ha determinato un effetto boomerang. Gli accordi pregressi con la Ue ora sono invalidati e la City e il grande capitale britannico si trovano in una situazione complicata. Che nessuno, fra i conservatori, volesse veramente rompere con la Ue e si aspettasse il risultato è dimostrato da quanto è accaduto successivamente all’esito del referendum, quando si è assistito alla confusione tra le file dei conservatori. L’incarico di primo ministro è stato dato a Theresa May, che si era dichiarata contro Brexit, mentre Boris Johnson è stato fatto fuori dalla corsa alla premiership salvo essere recuperato successivamente come ministro degli esteri. Del resto, prima del voto, lo stesso Boris Johnson aveva evocato la possibilità, in caso di vittoria di Brexit, di riaprire “il negoziato in vista di maggiori concessioni di quelle ottenute da Cameron”14. Inoltre, né Cameron, né il Parlamento né nessun altro ha provveduto a dare seguito alle pratiche per l’uscita, rispetto alla quale si sta prendendo tempo. Già si parla di un periodo di diversi anni per l’attuazione della separazione, durante il quale forse si spera di mettere la classica pezza all’errore commesso, magari rifacendo il referendum o comunque realizzando accordi favorevoli con la Ue. Proprio per garantirsi rapporti di forza adeguati a questo scopo, il responsabile dell’economia, Osborne, si sta muovendo per difendere e allargare gli accordi di investimento che legano la City con gli Usa, la Cina e Singapore. Ad ogni modo, le previsioni apocalittiche seguenti alla Brexit sono ancora tutte da verificare.

 

Brexit come critica implicita alla globalizzazione e all’integrazione europea

Dopo aver capito perché si è arrivati al referendum, l’altra questione importante è capire perché, sebbene di misura, Brexit abbia vinto. Le ragioni principali sono due. La prima è riferibile al processo di trasformazione economica di lunga durata, descritto sopra, che ha spostato il baricentro economico dell’Inghilterra e quindi del Regno Unito dalle aree di antica industrializzazione del Nord dell’Inghilterra verso le aree incentrate sui servizi e maggiormente integrate a livello internazionale, Londra e il Sud. Non a caso il Sud e soprattutto Londra hanno votato contro Brexit, mentre il resto dell’Inghilterra ha votato a favore. Né è un caso che la May stia cercando di recuperare l’elettorato operaio e del Nord con la proposta di introdurre la rappresentanza dei lavoratori nei consigli d’amministrazione e Osborne abbia parlato del progetto di un distretto finanziario e industriale tra Manchester e Liverpool per ridurre il divario tra il Nord e Londra. La seconda è riferibile alle politiche di austerity adottate dal governo britannico proprio nel periodo precedente al referendum, e paradossalmente subito dopo il peggioramento di importanti indicatori sociali. Le persone a rischio povertà e esclusione sociale nel Regno Unito tra 2009 e 2014 sono aumentate di 1,8 milioni, pari al +13,4%, un incremento inferiore, all’interno della Ue, solo a quello dei Paesi mediterranei appartenenti alla Uem15. A fonte di tale peggioramento il governo Cameron nel 2015, subito dopo le elezioni, ha messo in cantiere una riforma del welfare, preventivando tagli alla spesa per 12 miliardi di sterline entro il 2017/2018. Il Welfare reform and work act 2016 prevede, rispetto alla legge del 2012, tagli all’ammontare massimo dei sussidi percepibili per famiglia (da 26mila a 20mila sterline all’anno), e la riduzione o l’annullamento dei contributi ai settori più poveri della popolazione, in particolare a chi deve pagare un affitto, all’infanzia disagiata e ai disabili16. Tutto ciò ha pesato sugli esisti del referendum, specie nelle zone del Nord e delle Midlands dove la disoccupazione è più elevata, molto di più del tanto sbandierato aumento dell’immigrazione europea. Riassumendo, il referendum sull’uscita dalla Ue nasce come ricatto del grande capitale britannico contro l’Europa per ottenere condizioni favorevoli alla propria tutela. Successivamente, sfuggendo al controllo del grande capitale e dei suoi rappresentanti politici, si è trasformato oggettivamente in espressione della contestazione delle classi subalterne delle aree del paese più deindustrializzate e dei settori di imprese meno internazionalizzati nei confronti sia della riorganizzazione capitalistica sia delle politiche neoliberiste di contenimento del debito pubblico europee. È in questo quadro che Brexit è diventata anche una condanna politica per la lunga stagione di governo di Cameron.

Si può accusare Cameron e Johnson di superficialità e incapacità, dal punto di vista della difesa degli interessi sociali cui sono organici. Ma in realtà, al di là dei giudizi di valore su questo o quel personaggio politico, Brexit è il prodotto di eventi di più ampia portata, cioè della crisi strutturale e di lunga durata delle economie avanzate – definita da Summers secular stagnation17 - e del processo di riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica indirizzato a risolvere la crisi stessa mediante l’espansione industriale e finanziaria all’esterno e la riduzione del salario e del welfare all’interno. Dal momento che il processo di riorganizzazione dell’accumulazione si fonda da una parte sulla globalizzazione economica e dall’altra sui processi politico-istituzionali di integrazione europea, la Brexit rappresenta un indicatore importante di crisi della globalizzazione e dell’Europa neoliberista. E soprattutto è l’ennesima dimostrazione di come l’euro sia fonte di squilibri e contraddizioni sempre più gravi all’interno dell’Europa, non solo in quella parte d’Europa che ha adottato la moneta unica ma anche nelle aree che non l’hanno fatto. Ne consegue che il superamento della moneta unica rappresenta una condizione necessaria a ricostruire le basi politiche ed economiche per la ripresa degli investimenti domestici in Europa e in Italia e per uno sviluppo più equilibrato che eviti la mezzogiornificazione di ampie aree europee. Ciò, tuttavia, non significa che il superamento dell’euro sia un fattore sufficiente né tantomeno risolutivo in sé stesso, visto che a monte dell’euro ci sono, come detto, i processi di riorganizzazione capitalistica, basati sulla affermazione del settore privato. Di conseguenza la critica e il superamento dell’euro non possono essere separati dalla critica a questi processi generali e dal rilancio di nuove e adeguate forme di intervento pubblico anche nella produzione di beni e servizi.


Note

1 CBI to make economic case to remain in EU after reaffirming strong member mandate,http://news.cbi.org.uk/news/cbi-to-make-economic-case-to-remain-in-eu-after-reaffirming-strong-member-mandate/
2 Law & Business, Labour will campaign for Britain to remain in European Union, https://thomasafrancis.com/tag/federation-of-small-businesses/ 
3 John Atkinson Hobson, L’imperialismo, Newton & Compton, Roma 1996.
4 Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia 2015, Tab. 13.
5 Domenico Moro, Ibidem, Tab. 9.
6 Eurostat, Statistic explained, Statistiche della bilancia dei pagamenti, Aprile 2016, Tav.1.
7 Unctad statistics, merchandise trade balance.
8 Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione, Brexit o remain, ovvero la guerra commerciale anglo-tedesca, Economia e politica 22 giugno 2016. http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-o-remain-ovvero-la-guerra-commerciale-anglo-tedesca/
9 Ben Bernanke, Germany trade surplus is a problem, April 3, 2015. (Pubblicato sul Blog di Bernanke). Il cambio tra euro e sterlina passa da una media di 0,87 nel 2011 a una media di 0,73 nel 2015 (sito Banca d’Italia). Quanto il deprezzamento dell’euro sulla sterlina e le altre principali valute abbia pesato è dimostrato anche dal fatto che la Francia e soprattutto l’Italia nello stesso periodo, a differenza del Regno Unito, riescono a ripianare i rispettivi passivi della bilancia dei conti correnti.
10 Il valore aggiunto dell’industria in senso stretto (manifattura, estrazioni minerarie e utilities) sul totale passa dal 32,1% del 1970 al 14,7% del 2014, mentre, nello stesso tempo l’Italia passa dal 28,8% al 18,6% (Unctad statistics).
11 Eurostat, Ibidem, Tav. 5 e 6.
12
13 Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 1994.
14 Ettore Greco, L’accordo sui nuovi rapporti fra Regno Unito ed Unione europea. Contenuto e implicazioni. Osservatorio di politica internazionale, n.62 – aprile 2016.
15 Eurostat database, Living condition and welfare, People at risk of poverty or social exclusion by age and sex.
16http://www.telegraph.co.uk/news/politics/georgeosborne/10553228/George-Osborne-warns-of-12bn-cuts-in-Government-welfare-spending-after-next-general-election.html http://www.theguardian.com/politics/2016/mar/23/pip-u-turn-billions-of-pounds-welfare-cuts
17 Summers, U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the zero lower bound, in <<Business economics>> vol.49, n. 2, 2014.

Comments

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Claudio
Monday, 01 August 2016 22:08
Mi è capitato varie volte di leggere suoi scritti e di commentarne criticamente alcuni, per cui mi ripeto. Concordo con buona parte dell’analisi fatta, tra l’altro ben documentata, ma trovo contraddizioni di non poco conto ed una classica arrampicata sugli specchi, tipica di quella pretesa sinistra di cui fa parte, fatta apposta per intricare le cose e non far capire, dal punto di vista politico di classe, come stanno veramente le cose. Provo a chiarire.
Innanzitutto a proposito di Brexit e di euro, sostiene tre differenti tesi, che sono allo stesso tempo una forzatura ed in evidente contraddizione tra loro. Infatti, prima scrive che “la Brexit ha a che fare non solamente con la Ue, ma anche e soprattutto con la Uem”, e quindi con l’euro. A tale proposito direi che ha a che fare soprattutto con la politica di taglio delle retribuzioni, col peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro e con l’aumento della disoccupazione, volute della grande finanza, nonché con le numerose contraddizioni insite nell’attuale sistema produttivo e di vita. Ma proseguiamo con le sue tesi. A metà articolo spiega che “il deficit commerciale britannico è riconducibile alla guerra commerciale scatenata dalla Germania grazie all’euro”: mentre nella parte finale conclude che la Brexit sarebbe “l’ennesima dimostrazione di come l’euro sia fonte di squilibri e contraddizioni sempre più gravi all’interno dell’Europa, non solo in quella parte d’Europa che ha adottato la moneta unica ma anche nelle aree che non l’hanno fatto”. Il passo finale è un’evidente forzatura, che serve per poter continuare a sostenere la sua consueta posizione antieuro, che però è costretto ad ammettere che è servito alla Germania, nientemeno che per scatenare una guerra commerciale all’Inghilterra! Se l’euro ha dato forza alla Germania, come fa a sostenere che la stessa moneta unica abbia avuto una funzione opposta negli altri paesi che fanno parte dell’identico club, Italia compresa, che se non erro è il secondo paese esportatore d’Europa. Se pertanto l’euro è uno strumento che consente di scatenare guerre commerciali ai paesi detentori di altre monete, non vedo perché esso dovrebbe essere anche fonte di squilibri e contraddizioni per i paesi detentori della stessa monta, e non invece, dal punto di vista capitalistico, s’intende, portatore di grandi vantaggi.
Più sotto, a proposito del deficit commerciale inglese, spiega: “A questo proposito non bisogna dimenticare che la Germania, dopo aver realizzato una sottovalutazione del cambio con l’introduzione dell’euro, tra 2011 e 2015 ha tratto ulteriormente vantaggio dalla svalutazione della valuta unica nei confronti della sterlina”. Ammesso e non concesso che con l’introduzione dell’euro vi sia stata una sottovalutazione del marco, i vantaggi della svalutazione della valuta unica, tra 2011 e 2015, debbono essere avvenuti nei confronti di gran parte delle altre monete e non soltanto della sterlina; altrimenti dovremmo dire che è stata la sterlina a rivalutarsi sull’euro. Inoltre detti vantaggi debbono essere stati proporzionalmente uguali per tutti i detentori dell’euro, e non solo, quindi, della vituperata Germania.
Conclude con la solita trita tiritera,: “Ne consegue che il superamento della moneta unica rappresenta una condizione necessaria a ricostruire le basi politiche ed economiche per la ripresa degli investimenti domestici in Europa e in Italia…”. Tesi questa smentita dai fatti, come egli stesso è costretto ad ammettere, sia all’inizio che a fine articolo, ed infatti scrive: “Ciò, tuttavia, non significa che il superamento dell’euro sia un fattore sufficiente né tantomeno risolutivo in sé stesso” . Prosegue la frase con la grande arrampicata sugli specchi: “visto che a monte dell’euro ci sono, come detto, i processi di riorganizzazione capitalistica, basati sulla affermazione del settore privato”, (soltanto questo ?), come se il settore pubblico, in cui è stato fatto un uso senza limiti del lavoro precario e sottopagato, per chi ci lavora fosse una cosa diversa...
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