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blackblog

La rivoluzione comincia dai corpi

Note su Apocalisse e Rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu

di Lundimatin

novellocesaranoA partire da giovedì scorso, si può trovare nelle librerie Apocalisse e Rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu, appena rieditato in lingua francese dalle edizioni La Tempête. Questo libro è stato scritto nel 1972, in risposta alla pubblicazione del rapporto del Club di Roma sui Limiti dello Sviluppo. Commissionato dal MIT e finanziato dalla Fiat, il rapporto preconizzava una «crescita zero» ed un limite al capitalismo. Alla sua pubblicazione, Cesarano e Collu reagirono con un'analisi tempestiva e sottile di quello che è il modo in cui il capitalismo stava cambiando in quegli anni: le sue nuove armi erano diventate il millenarismo religioso, la colonizzazione dell'individualità e lo sviluppo di un'economia del debito. Allo stesso tempo, veniva proposto anche un rinnovamento dei concetti e dei modi dell'antagonismo rivoluzionario, che non sarebbe più stato il conflitto tra le classi, ma piuttosto la lotta dei corpi della specie umana contro il loro essere messi a morte da parte del processo capitalistico. A tutto ciò che mette in discussione la sopravvivenza stessa della specie, questo libro oppone una certezza: la rivoluzione comincia dai corpi. Giorgio Cesarano, a quel tempo, è stato un autore vicino alla critica situazionista. Egli ha anche partecipato alla fondazione del Gruppo Ludd, del quale, in quest'ambito, ha parlato Anselm Jappe.

I pochi iniziati agli scritti di Giorgio Cesarano formano una comunità segreta. E questo perché sicuramente questo autore ha prodotto un pensiero totale e senza compromessi, profondo e dialettico, scritto facendo uso di una prosa infuocata che non si lascia penetrare con facilità, e che continua, per quanto sotterranea, ad affascinare da quasi cinquant'anni.

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filosofiainmov

In mezzo al guado: socialismo o barbarie

di Vittorio Giacopini

http://www.castelvecchieditore.com/prodotto/cosa-vuol-dire-socialismo-nel-xxi-secolo/

unnamed9762y81) In filosofia, e in politica, c’è questo vecchio problema – il “cominciamento” – ma, a volte, conviene andare per le spicce e farla corta. Come avrebbe detto il Coniglio bianco ad Alice, “se non sai dove cominciare, inizia dal principio, che non sbagli”. Nancy Fraser parte da un haiku di sfida – “socialism is back” – e qui, e da subito, mi sembra che abbia ragione e torto: mixed feelings (l’aggiunta: ma il nodo vero è capire cosa intendiamo o cosa dovrebbe significare oggi socialismo è naturalmente il problema cruciale del saggio, e del presente). In via preliminare, partirei dal rovescio, storicamente. La ritornata dicibilità della parola socialismo nell’ordine del discorso politico attuale è il sottoprodotto di uno shock culturale che forse abbiamo sottostimato. Da una ventina d’anni a questa parte, più o meno (dai tempi di Seattle o di Genova, per capirci) è caduto un interdetto mentale decisivo. Dopo la stagione di Reagan e Thatcher e Bush siamo tornati a parlare, più che di socialismo, di capitalismo e quello che sembrava l’unico orizzonte possibile è letteralmente saltato, imploso, esploso (intendo come grande quadro o ricatto mentale, ipnosi mistica: nei fatti i padroni sono ancora e sempre loro, l’1%). La Grande Crisi Economica Mondiale del 2008 ha aperto gli occhi persino ai gattini ciechi della globalizzazione trionfante postmoderna: il capitalismo – adesso lo vediamo – non è l’unico scenario possibile, né auspicabile per la vita dell’uomo sul pianeta terra (e pure per il pianeta terra stesso, ca va sans dire) e conviene (non è solo bello e idealistico e poetico, ma… conviene) trovargli un’alternativa, e rapidamente. All’orizzonte altrimenti ci saranno soltanto crisi e ancora crisi e disastri, devastazioni, irrazionalità dilagante, catastrofi di ogni tipo, pandemie (nei corpi e nelle menti), e morte e lutti. Con tutto il rispetto per Bernie Sanders o Alexandra Ocasio-Cortez “socialism is back” nel senso che un’alternativa al capitalismo tocca trovarla, e se vogliamo chiamarla ‘socialismo’ (o comunismo) va bene, però – adesso che siamo al guado – bisogna agire e pensare velocemente; adesso, subito.

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sinistra

Nichilismi

di Salvatore Bravo

0 15453Derealizzare l’io

Ci siamo condannati a vivere in un mondo alogico ed irrazionale. Si susseguono messaggi contradditori, governano le potenze del dicitur, dinanzi alle quali si resta inermi, senza categorie per filtrare e selezionare i flussi di informazioni ed immagini. La menzogna assomiglia alla verità, l’una è simile all’altra, in un tale contesto il soggetto ricade su se stesso, non crede nel logos, nella possibilità di discernere la verità dalla sua copia, il bene dal male. Il caos regna, l’effetto immediato e duraturo è la sfiducia nell’umano e nelle sue istituzioni. Vivere in un universo storico alogico forma creature irrazionali che convertono la sfiducia nella ragione in adorazione idolatrica per la nuda vita, per la sola biologia pulsionale, la quale diviene la misura del vivere. Vi è dunque un’assenza metafisica, pertanto non vi è dialettica, non vi è tensione tra il polo della verità e del nichilismo, ma si confrontano nichilismi differenti che si autorappresentano come verità. Si derealizza il reale, si incide sul principio di realtà per sostituirlo con il principio non di piacere, affinché esso vi sia, è necessario avere contezza della pluralità delle emozioni e delle percezioni del reale. Il piacere, invece, è pulsione unica speculare all’irrazionale vigente. “Piacere” non per tutti, vi è l’aspirazione utopica ed infantile ad esso, raggiungibile solo per pochi, ma i più vivono guardando il mondo dei vip, i loro eccessi, partecipano alle loro tristezze in assenza di vita propria. La nuda vita devitalizza, derealizza, assottiglia la percezione del proprio “io” fino a renderlo evanescente, nullo, per cui il soggetto deve compensare il vuoto spiando la vita degli altri, vivendo di luce riflessa del nuovo olimpo mondano dei vip. L’io minimo è il vero fine del sistema capitale all’apice della sua estensione ed intensità.

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sinistra

Astratto e concreto

di Salvatore Bravo

Giallo rosse e blu di KandinskyL’astratto e il concreto sono sincretici, in quanto l’astratto è il movimento di astrazione dal concreto. Ogni teoria è elaborata secondo un doppia movimento: il concreto è analizzato nelle sue innumerevoli variabili in movimento, ma vi è la necessità di astrarre da esse gli elementi principali riconfigurati in strutture stabili, in tale maniere sono sistematizzati. Le categorie che un autore ci offre e dona non sono applicabili in modo pedissequo al concreto, ma devono essere curvate alle diverse condizioni socio-storiche, in cui si è situati e che differiscono dal contesto dell’autore. Vi è sempre uno scarto tra l’autore ed il lettore, il quale dev’essere attraversato con la fatica della riconcettualizzazione.

Costanzo Preve nella lettura di Marx si è posto l’obiettivo di approssimarsi all’autore giudicandolo come autore classico della storia della filosofia. Le categorie e scoperte marxiane non riassumono l’intero del reale, ma consentono di utilizzare paradigmi interpretativi astratti dal reale concreto, i quali devono essere mediati dalle contingenze, e specialmente, devono fungere da forza plastica per elaborare nuovi processi dialettici e di significato. Non pochi marxisti, rileva Preve, nel loro dogmatismo hanno trasformato la parola di Marx in formule da applicare al reale concreto con l’effetto inevitabile di sclerotizzare la pluralità dei modelli organizzativi viventi nella storia in categorie insufficienti alla lettura del reale, la conseguenza è stata una scissione tra partito e storia reale, tra intellettuali e popoli, tale contraddizione adialettica ha favorito il fallimento dell’esperienza comunista:

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poliscritture

Louis Althusser: «Filosofia per non filosofi»

di Donato Salzarulo

althusser1. Un manuale per non filosofi

La filosofia non appartiene ai professori di filosofia. Tutti gli uomini sono filosofi. Lo diceva Gramsci, Lenin e anche Diderot. Adolescente, ho imparato questa verità sui Quaderni dal carcere e non l’ho dimenticata più. È ovvio che non sarà la filosofia di un Platone o di un Aristotele, di un Kant o di un Hegel. Non sarà neanche quella di un professore. Si tratta di una filosofia “naturale”, di un modo di “vedere le cose” sull’origine del mondo, ad esempio, o sulla morte, sulla sofferenza, sulla politica, l’arte, la religione. È una filosofia che serve al singolo da orientamento per la propria esistenza. Combina un certo sapere (più o meno fondato) sulla necessità delle cose con un suo certo modo di servirsene nei vari momenti della vita, cioè con una certa saggezza. Per dirla col filosofo statunitense Wilfrid Sellars: «capire come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stanno insieme, nel senso più ampio possibile del termine» e comportarsi di conseguenza.

Chi può negare che queste non siano già idee filosofiche?… Non lo nega sicuramente Louis Althusser che, partendo da queste filosofie “spontanee”, nel 1975, progettò un suo originalissimo manuale di iniziazione dei non filosofi alla filosofia. Rimasto inedito, è stato pubblicato postumo in Francia nel 2014 e tradotto in Italia nel 2015 dalle Edizioni Dedalo col titolo di «Filosofia per non filosofi».

Come Gramsci, il filosofo marxista francese, è stato uno dei miei amori giovanili. Non appena si presenta l’occasione, mi è difficile rinunciare alla lettura delle sue pagine. Difficile non provare a reinterrogarmi sui pensieri con cui in parte penso oppure ho pensato.

 

2. Contraddittorietà e paradossalità delle filosofie “spontanee”

Perché non si può rinunciare all’assunto del “tutti gli uomini sono filosofi”? Perché senza di esso non si capirebbe neanche la nascita della filosofia dei filosofi.

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poliscritture

«Il mestiere di pensare» di Diego Marconi

di Donato Salzarulo

image 187fe1.- «Povera, e nuda, vai Filosofia »

Qualche anno fa, un progetto ministeriale prevedeva di ridurre da tre a due anni l’insegnamento di filosofia nei Licei e di eliminarla dalle tabelle disciplinari di vari corsi di laurea perché – questa la singolare motivazione – trattasi di disciplina troppo specialistica. Mentre la matematica, la chimica, la fisica, ecc., per i cervelli di certi consulenti ministeriali, non lo sono.

Pur non facendo il filosofo di professione, ma rivendicando per me e per tutti gli uomini (e donne) la facoltà di pensare, ragionare, argomentare e conoscere, sia pure antologicamente, il patrimonio dei classici della filosofia, condivisi la levata di scudi che ci fu, quando il progetto fu reso noto. Anzi, fu proprio uno di loro a rivelarlo con un articolo su “La Repubblica” del 15 febbraio 2014.

Si tratta di Roberto Esposito che, per argomentare la necessità dell’insegnamento della filosofia, tra l’altro, scrisse: «La filosofia, oltre che indispensabile di per sé, lo è nei confronti degli altri saperi […] perché definisce le loro differenze, misura la tensione che passa tra i vari linguaggi. In quanto sapere critico, la filosofia impedisce la sovrapposizione di questioni eterogenee, delinea i confini dentro i quali esse assumono significato.»

Indispensabile di per sé vuol dire un sapere capace di ritagliarsi durante la sua storia secolare i propri oggetti di conoscenza che si chiamano “metafisica”, “gnoseologia”, “ontologia”, “logica”, “retorica”, “etica”, “estetica”, ecc. Oggi questi saperi sono diventate cattedre universitarie di “Storia della filosofia antica”, “medievale”, “moderna” e “contemporanea”, di “Filosofia della scienza”, “del linguaggio”, “del diritto”, “della politica”, “della storia”, “della morale”, “della religione”, e via elencando, a seconda delle Università.

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il rasoio di occam

Scienza, storia, società. Riflessioni su epistemologia e politica

di Giorgio Matteoli

Tanto nel senso comune quanto tra gli specialisti si tende a considerare la scienza e la politica come due sfere indipendenti dell’attività umana, e gli scienziati come sostanzialmente immuni da qualsivoglia ideologia. Negli ultimi anni tuttavia è sorta da più parti, all’interno dei science studies, l’esigenza di ripensare la relazione tra la concretezza storico-politica della scienza e le sue fondamementali pretese di universalità, all’interno di un discorso che fosse al contempo epistemologico e politico. Il libro di Pietro Daniel Omodeo, Political Epistemology. The Problem of Ideology in Science Studies, uscito per Springer nel 2019, fornisce un utile quadro di riferimento per orientarsi in questi dibattiti recenti, e più in generale per riflettere criticamente sulle ideologie scientifiche e sul ruolo che la scienza occupa, o potrebbe occupare, all’interno della società

POLITICAL EPISTEMOLOGY 499Sono stati molti i dibattiti che negli ultimi anni hanno riportato in primo piano la questione del rapporto tra scienza e politica: da quello sulla “post-truth” (parola dell’anno nel 2016 secondo gli Oxford Dictionaries) e la cosiddetta “post-truth politics”, al problema degli effetti di una diffusione più o meno controllata di “fake news” nella sfera dell’opinione pubblica; dalle discussioni intorno all’opportunità o alla presunta preferibilità di una democrazia diretta contro gli spettri tecnocratici della democrazia rappresentativa, fino al ruolo politico effettivamente assunto dagli scienziati, tanto nei mezzi di comunicazione di massa quanto all’interno dei comitati tecnico-scientifici, rispetto alla gestione della crisi sanitaria attuale.

Il problema del legame tra la scienza (e più in generale, la conoscenza) e la politica è ovviamente molto più antico di questi dibattiti, e costituisce di fatto uno dei rompicapo più complessi e persistenti, soprattutto a partire dall’età moderna, nella storia della cultura occidentale.

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filosofiainmov

Crisi sociale e pandemia

Riflessioni sulla barbarie del capitale

di Anderson Deo

unnamed9589«So che nulla sarà come questa
mattina o dopodomani
resistendo nella bocca della notte un gusto di sole»
(Nulla sarà come prima/ Milton Nascimento e Beto Guedes)

Una frase è stata ripetuta esaustivamente dalle grandi corporazioni dei media su scala mondiale: Nulla sarà come prima! Come una specie di mantra, tale espressione indica che la pandemia del nuovo coronavirus produrrà cambiamenti significativi, anche profondi, in diversi livelli della vita e, pertanto, delle relazioni sociali in tutta l’umanità.

La prima questione che vorrei affrontare è che la storia ci insegna che nessuna formazione sociale, nessun modo di produzione è mai entrato in collasso senza che ci fossero forze sociali organizzate a spingere tali processi. Trattandosi del modo di produzione capitalistico, nel corso del XX secolo, di fronte ai vari momenti di manifestazione della sua crisi strutturale e sistemica, questa forma sociale si è ristrutturata su nuove basi e contraddizioni, per riprodurre gli elementi fondanti della sua socialità. Pertanto, per quanto ne capisca, la pandemia di per sé non dà origine a nessuna forma di rivoluzione che punti al superamento del capitalismo o a una possibile forma di transizione socialista. Al contrario, la COVID-19/SARS 2, sembra essere l’espressione radicalizzata della barbarie, alla quale è sottomessa l’umanità, e che si approfondisce, sempre più, di fronte all’autocrazia del capitale finanziario mondializzato sull’umanità.

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tempofertile

Circa “Una domanda” di Giorgio Agamben. Cronache del crollo

di Alessandro Visalli

un uomo e una donna a londra indossano una mascherina che copre naso e bocca disegnata per prevenireil contagio 2652f95e 800x621Il noto filosofo Giorgio Agamben, reso molto noto ben oltre i lettori dei suoi libri dalle sue radicali posizioni negazioniste sulla pandemia in corso, ha nuovamente scritto una invettiva sul tema. E’ una domanda, e dunque è cortesia rispondere.

Avvia il suo testo con un pezzo di Tucidide (II, 53) che dalla mia traduzione di Pietro Rosa suona assai diverso; diverso in modo indicativo: “e nessuno era pronto a soffrire per ciò che veniva considerato degno, dal momento che non poteva sapere se sarebbe morto prima di raggiungerlo”, recita il mio testo[1]. “Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché credeva che poteva forse morire prima di raggiungerlo”, dice la traduzione di Agamben. Qui cambia il soggetto che esprime la forma verbale composta. Mentre nella mia traduzione è un ente collettivo quello che considera “degno”, in quella di Agamben è l’individuo che considera “il bene”.

L’individuo.

E’ più di un mese che, nella solitudine della sua casa che immagino confortevole, il buon Agamben “non cessa di riflettere” su una domanda. La domanda è: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” Domanda soppesata, dice, parola per parola. Il paese, è per lui ‘crollato eticamente e politicamente’, e, segue spostando inavvertitamente, l’abdicazione ai principi etici e politici è “propria”[2]. Si abdica, per come scrive, ai “propri” principi. E lo si fa precisamente quando si supera il limite oltre il quale non vi si può rinunciare. Ovvero oltre il quale, se vi si rinuncia, si è “barbari”.

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sinistra

Coerenza del materialismo: variazioni filosofiche sullo stato di cose presente

di Eros Barone

edward hopper 003La morte rappresenta per il pensiero un oggetto necessario e impossibile. Necessario perché tutta la nostra vita ne è segnata; impossibile perché non vi è niente, nella morte, da pensare. Accade perciò che, quando la realtà e le immagini della morte giungono ad occupare interamente la nostra percezione – è questo il caso delle conseguenze psicologiche prodotte dall’attuale pandemia -, un unico sentimento giunge a dominare il nostro animo.

Mi riferisco, in primo luogo, al problema del male, poiché, come scrive il Manzoni nei capitoli dedicati alla peste, «noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile». 1

E, a proposito del silenzio uniforme che caratterizza la quarantena, sempre nei Promessi Sposi troviamo una ‘espressione che si attaglia perfettamente al nostro stato attuale, là dove l’autore evoca, per descrivere gli interludi fra gli orrori della peste e gli orrori della guerra, il subentrare di “una quiete spaventata”... 2 la stessa che esala in queste settimane dal profondo silenzio dei nostri centri urbani, rotto soltanto dalle sirene delle autoambulanze.

Si dirà: è un grande scrittore che paga il suo debito all’ideologia religiosa. Eppure si tratta di descrizioni e di narrazioni che raggiungono non solo i vertici dell’arte letteraria, ma anche quelli di un realismo asciutto, potente, aspro (non indegno di quello che innerva le descrizioni delle pestilenze in Tucidide o in Lucrezio). 3

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autaut

Mettersi in gioco, organizzare le lotte dentro – e fuori – la filosofia

Un appello per la “Fase 2”

di Andrea Muni

romantizacionUna lotta dentro la filosofia. […] Tale scontro andrebbe preso a mio parere molto sul serio, se si vuole ampliare lo sguardo sulle pratiche e avere uno sguardo microfisico sulla situazione […] . Sembra banale osservare che se si parla di filosofia occorre innanzitutto intendersi bene sul ruolo e lo statuto della filosofia stessa e del cosiddetto filosofo. […] Il “filosofo” non è mai del tutto esterno a un dispositivo disciplinare, inteso come disciplinarità storica della filosofia in quanto sapere e come apparato istituzionale,in cui si produce la sua pratica di pensiero. Senza una chiarificazione critica di questo suo stare nel medesimo tempo dentro e fuori dalla disciplina, corriamo il rischio di fare del filosofo una figura mitizzata e magari, proprio per questo, assai vicina alle logiche del padrone.

Pier Aldo Rovatti, da Foucault docet in “The Italian difference”

La Fase Uno della riflessione “culturale” sull’emergenza che tutti stiamo vivendo sta per concludersi. Presto giungerà il momento, grave, di prendere posizioni nette, pratiche e personali, di carattere etico-politico. Posizioni che sveleranno se e fino a che punto molti pensatori sono davvero all’altezza delle proprie parole.

Sta scadendo il tempo per interpretare le cause, per attardarsi in pur raffinate analisi sulle ricadute esistenziali (positive e negative) di una reclusione che ormai – si spera – sta volgendo al termine. Incombe ora piuttosto su ognuno di noi l’obbligo – l’urgenza della cultura e della filosofia “impegnate” – di costruire tempisticamente nuove strategie di lotta e di comunicazione da giocarsi nei mesi e negli anni a venire.

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poliscritture

Felice Cimatti: “Cose. Per una filosofia del reale”

di Donato Salzarulo

Cimatti1.- Questo non è il libro del momento. Non è Spillover. Aspettava di esser letto da più di un anno. Pazientemente in fila, fra tante pile di libri da leggere. Non è del momento ma qualcosa ha a che fare con questo momento. C’è chi vorrebbe dare la parola alle Cose. E il virus cos’è?… Avete notato che ho tirato in ballo “cosa” per cercare di definirlo?…Le cose ci assediano. Sono dappertutto. Usiamo cose (scarpe, pantaloni, occhiali, computer…) e mangiamo cose (pasta, riso, pane…). Noi stessi, in ultima istanza, siamo atomi di cose (acqua, carbonio, azoto, calcio, potassio, fosforo…).

Dare la parola alle cose?!… Come è possibile? Le cose non parlano.

Ci sono scrittori, artisti, poeti che hanno cercato, però, di mettersi dal punto di vista delle cose. In un certo senso di farsi cosa, diventare cosa.

A scuola quasi tutti abbiamo letto quella poesia su Natale di Ungaretti che, avendo tanta stanchezza sulle spalle (era in temporanea licenza dalla guerra), invita i suoi lettori a lasciarlo così «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata». Certo, questa è soltanto una similitudine. Ma la “cosa” è tirata in ballo perché soddisfa il bisogno di solitudine del poeta e il desiderio paradossale di non avere più desideri, voglie, timori. Una pulsione di morte, direbbe forse uno psicanalista, che copre un desiderio di nuova nascita (questa poesia, cielo santo, s’intitola Natale!). Però a me interessa l’uso della parola “cosa” che sembra perdere la sua tradizionale connotazione negativa (come quando diciamo: «non sono mica una cosa!») e si fa, per così dire, oggetto di desiderio.

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il rasoio di occam

“Invocando di vivere, scopro che cerco di morire”. Giorgio Agamben e la pandemia

di Francescomaria Tedesco

Influenza Spagnola 2 1350x1025 1L’autore del frontespizio del Leviatano, Abraham Bosse, disegnò il sovrano nell’atto di unire la moltitudine disunita e sotto rappresentò una città dalle strade deserte. Solo delle guardie e due strane figure dal naso a becco. Sono due medici della peste, ed evocano il virus che più di altri poteva minacciare la città: la guerra civile. Quell’immagine cita Tucidide, lo ricorda Carlo Ginzburg ma lo ricorda anche Giorgio Agamben, che in un testo di stasiologia riprende lo storico greco: la peste di Atene come origine dell’anomia e della rivoluzione[1]. Nel De cive (e anche nel Leviatano) i doveri del sovrano sono tutti riassunti nella massima il bene del popolo è la legge suprema. Due paragrafi dopo, Hobbes chiarisce: “Per bene dei cittadini non si deve intendere soltanto la conservazione, comunque, della vita, ma di una vita per quanto possibile felice”[2]. È, nella lettura di Agamben, il riconoscimento della superiorità di una vita sociale nel senso più ampio, l’unica davvero ‘piena’ (bios), rispetto alla nuda vita, ovvero alla mera sopravvivenza, la vita animale che accomuna gli esseri viventi (zoé).

Ora alla peste della guerra civile e della dissoluzione si è in realtà sovrapposta la peste vera e propria, il cui contrasto minaccia, secondo Agamben, la pienezza della condizione umana. La gestione dell’emergenza, lo stato di eccezione, subiscono – è il pensiero che il filosofo ha espresso in una serie di articoli ora raccolti sul suo blog sul sito dell’editore Quodlibet[3] – un’accelerazione ulteriore, rischiando di trasformarsi da sporgenza ‘normale’ dell’ordinamento politico-giuridico in una nuova normalità in nome della salute pubblica, laddove però essa non è più il conseguimento della felicità per il maggior numero, ma – e forse a dire il vero più hobbesianamente, nonostante quanto dica Agamben, ché nel Leviatano la salus, stante la rappresentanza, si trasforma nella safety del sovrano[4] – la mera sopravvivenza.

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sinistra

Come si vede il mondo1

di Eros Barone

Il rapporto fra astrazione e realtà in alcune correnti filosofico-scientifiche dell’età contemporanea

astrazione e realtà lopera inedita del maestro wang hongjian«...all’analisi delle forme economiche non possono servire – né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione.»
K. Marx, Prefazione al I libro del Capitale.

«Veritas est adaequatio rei et intellectus» 2
S. Tommaso d’Aquino, De veritate.

1. L’importanza dell’astrazionee il modo corretto di concepirla

Nella storia della cultura l’astrazione è stata spesso svalutata quale ‘nome’ o ‘fantasma’, come se coincidesse con l’astrattezza e come se astrarre significasse di per sé isolarsi dal mondo. In realtà, l’astrarre è, in quanto negazione delle determinazioni del particolare, un processo che genera la categoria: in quanto tale, è per Hegel «l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare». 3 Quindi, il concetto è, quale espressione dell’astratto, il frutto specifico del pensiero, che condensa nell’universale i tratti salienti di un enorme numero di concreti. Come suggerisce il riferimento a Hegel, nella storia della filosofia è necessario distinguere due fondamentali concezioni dell’astrazione: una come nome e l’altra come essenza. Sennonché, sia che si tratti della corrente filosofica del nominalismo sia che si tratti della corrente del realismo, sarebbe improprio un rinvio esclusivo alla medievale “disputa sugli universali”, poiché ciò che qui conta è il concepire l’astratto come fondativo, oppure no, della comprensione reale del concreto.

Di conseguenza, sul versante nominalista si situano gli indirizzi di pensiero che negano la conoscibilità reale del mondo, dei suoi processi e dei suoi eventi, svuotando le astrazioni, cioè i concetti, le categorie e le leggi, del loro effettivo contenuto, giacché questi indirizzi ritengono che vi sia una barriera gnoseologica invalicabile tra la conoscenza e la realtà, fra l’astrazione teorica e la concretezza empirica.

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il rasoio di occam

Piccolo Manifesto in tempi di pandemia

di M. Benasayag, B. Cany, A. Del Rey, T. Cohen, R. Padovano, M. Nicotra

Il Collettivo Malgré Tout (“Malgrado tutto”, Francia: Miguel Benasayag, Bastien Cany, Angélique Del Rey, Teodoro Cohen; Italia: Roberta Padovano, Mary Nicotra) propone questo breve Manifesto composto da quattro punti, quattro spunti di riflessione e ipotesi pratiche da condividere con chi fosse interessata/o. Speriamo sia un contributo utile per pensare e agire all’interno dell’oscurità della complessità

filosofia e coronavirus111. Il ritorno dei corpi

Negli ultimi quarant’anni almeno, siamo stati testimoni del trionfo e del dominio incontrastato del sistema neo-liberista in ogni angolo del pianeta. Tra le diverse tendenze che attraversano questo tipo di sistema, una in particolare sembra costituire la forma mentis dell’epoca. Si tratta della tendenza a considerare i corpi come il rumore di fondo che disturba la “recita” del potere, poiché i corpi reali, sempre troppo “pesanti” e troppo opachi, desideranti e viventi sfuggono alle logiche lineari di previsione. Da sempre l’obiettivo perseguito dalle pratiche e dalle politiche proprie del neoliberismo consiste nel deterritorializzare i corpi, virtualizzarli, facendone una materia prima manipolabile, un “capitale umano” da utilizzare a proprio piacimento nei circuiti del mercato. Si richiede che i corpi siano disciplinati, dislocabili senza criterio, flessibili, pronti ad adattarsi (leitmotiv del nostro tempo) alle necessità determinate dalla struttura macro-economica. Nella loro astrazione estrema, i corpi dei migranti senza documenti, dei disoccupati, i corpi non conformi, i corpi annegati nel Mediterraneo o ammassati nei centri di detenzione, in breve, i corpi considerati in esubero diventano semplici numeri, senza valore, senza alcuna corporeità e quindi, in fine, senza umanità.

In ambito tecnico-scientifico questa tendenza si esprime nella formula del “tutto è possibile”, che non riconosce alcun limite biologico o culturale al desiderio patologico di deregolazione organica. E’ ormai una questione di aumentare i meccanismi del vivente, la possibilità di vivere mille anni, se non addirittura di diventare immortali!