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machina

Filosofia e politica

Marco Mazzeo intervista Paolo Virno

0e99dc 54be262549b7412fbb1e58ef777d444bmv2Dal tuo primo libro, Convenzione e materialismo, che risale al 1986 (riedito poi da DeriveApprodi nella nuova edizione del 2011), e anche dai tuoi primi scritti più politici negli anni Settanta, fino a quest’ultimi libri, Dell’impotenza (Bollati Boringhieri 2021) e ora Negli anni del nostro scontento (pubblicato in questi giorni da DeriveApprodi) è stata percorsa una lunga strada. Potresti ricordarne le tappe principali? (cosa che equivale a raccontare la storia della tua vita in un modo o nell’altro).

Ho cominciato a occuparmi sistematicamente di filosofia in seguito a una sconfitta politica. Parlo della sconfitta dei movimenti rivoluzionari che gremirono la sfera pubblica in Occidente tra la morte di John Kennedy e quella di John Lennon, dunque dall’inizio degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo. Quei movimenti, che provarono orrore per il socialismo reale e si augurarono fin dal principio lo scioglimento del Pcus, avevano utilizzato Marx al di fuori e contro la tradizione marxista, mettendolo in contatto diretto con le lotte di fabbrica e la vita quotidiana delle società pienamente sviluppate. Un Marx letto insieme a Nietzsche e a Heidegger, posto a confronto con Weber e Keynes. Tuttavia, nel momento della sconfitta, quando l’intero panorama sociale fu sconvolto dall’iniziativa capitalistica, ci sembrò naturale saggiare i limiti, e mettere a nudo le omissioni, di questo nostro Marx. Ecco, per me il vagabondaggio filosofico è iniziato chiedendomi: quale teoria della conoscenza, quale etica, quale filosofia del linguaggio si possono desumere da Marx, senza che però egli le abbia mai sviluppate?

Il mio primo libro, Convenzione e materialismo, scritto tra il 1980 e il 1985, affronta con evidente povertà di mezzi questioni filosofiche niente affatto stagionali: il rapporto tra intelletto astratto e sensi, la genesi del singolare dall’impersonale, il radicamento dell’istanza etica nel funzionamento del linguaggio.

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losguardo

Logiche Relazioni

Lucia Olivieri e Osvaldo Ottaviani dialogano con Massimo Mugnai

DiderotMassimo Mugnai è professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha insegnato Filosofia e Storia della logica dal 2002, dopo aver insegnato nelle Università di Bari e Firenze. Nella sua lunga attività di ricerca si è occupato di storia della logica, del rapporto tra logica e metafisica e della filosofia di Leibniz, del quale è considerato uno dei massimi esperti a livello internazionale. Tra i suoi lavori sull’argomento, ricordiamo i volumi: Leibniz e la logica simbolica (1973), Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz (1976), Leibnizs Theory of Relations (1992), Introduzione alla filosofia di Leibniz (2001). Insieme a Enrico Pasini, ha curato e tradotto la più ampia silloge di scritti leibniziani attualmente disponibile in italiano (Scritti filosofici, 3 voll., 2003). È membro della “Leibniz Gesellschaft” di Hannover e fa parte del comitato scientifico di Studia Leibnitiana e The Leibniz Review. Tra le sue pubblicazioni più recenti, vanno menzionati i volumi Possibile/Necessario (2013), Il mondo capovolto. Il metodo scientifico nel “Capitale” di Marx (2021), e la curatela dei testi leibniziani: Dissertation on Combinatorial Art (2020, con Han van Ruler e Martin Wilson) e General Inquiries on the Analysis of Notions and Truths (2021). Per una discussione recente dei lavori leibniziani di Mugnai si rimanda anche all’articolo di Richard T. W. Arthur, Massimo Mugnai and the Study of Leibniz («The Leibniz Review», 23, 2013).

* ** *

In un contributo di qualche anno fa1 hai parlato di Leibniz come di un “logico del Novecento”. È soltanto un modo paradossale di dire che la riscoperta della logica lei- bniziana data dai lavori di Louis Couturat ai primi del Novecento o c’è qualcosa di più, nel senso che nei suoi scritti di logica Leibniz ha effettivamente anticipato temi e soluzioni della logica moderna (da Boole a Gödel)?

“Logico del Novecento” è una caratterizzazione che intende cogliere entrambi gli aspetti che avete menzionato. È un dato di fatto che soltanto col libro di Couturat (La logique de Leibniz, 1901) e con la pubblicazione degli Opuscules et fragments inédits (1903), sempre a cura di Couturat, è sorto l’interesse per la logica di Leibniz.

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archeologiafil

Valore-lavoro e il lavoro come valore

di Temps Critiques

Il saggio Sur la valeur-travail et le travail comme valeur è stato originariamente pubblicato su Temps critiques, 15 Novembre 2021 ed è consultabile su Sur la valeur-travail et le travail comme valeur. Successivamente è stato ripubblicato su Lundimatin #313 e in versione inglese in Ill Will, 29 Dicembre 2021, consultabile su Labor Value and Labor as Value. Di seguito la traduzione a cura di J. Cantalini.

6872c3893ac5058b505224cac9dd8089 XL«Questo sono io» Il discorso performativo del Potere

Con i suoi attacchi contro assistenzialismo e reddito garantito, il discorso pronunciato da Macron il 9 novembre 2021 sul valore-lavoro (o sul lavoro “come valore”) è stato, in prima battuta, poco più di un revival di ciò che Jospin[1] aveva già detto nel 1998 durante il mouvement des chômeurs (movimento dei disoccupati), conclusosi nel 2001 con la creazione di un bonus assunzioni, che si sarebbe gradualmente trasformato in premio di produzione dopo il 2006; e poi, una replica di quello di Sarzoky sul «lavorare di più, guadagnare di più», pronunciato a proposito dell’introduzione di straordinari esentasse. Ciononostante, le misure adottate o proposte oggi (premi di produzione, “indennità inflazione”) contraddicono quanto dichiarato inizialmente da Macron, in quanto investono sull’individuo-consumatore bisognoso piuttosto che sull’individuo produttivo e creativo. In altre parole, non è il valore del lavoro e il conseguente salario («il potere del lavoro» secondo la dichiarazione rilasciata a Le Monde l’11 novembre da Aurélien Purière, direttore della Sécurité sociale) che il governo sta tentando di migliorare, ma il potere d’acquisto stesso, senza che intervenga il minimo cambiamento nel rapporto di potere tra capitale e lavoro. È da questo che dipende l’assenza di pressioni sul capitale e di aumento dello SMIC[2], mentre compaiono solo calcoli sofisticati, a quanto pare troppo complessi persino per il ministro del Lavoro Bruno Le Maire, cosa che il Presidente intende chiarire[3]. A livello più generale, è la stessa logica che è stata applicata durante il movimento dei Gilet jaunes, ossia la previsione di un bonus suppletivo al premio di produzione e un bonus concesso a titolo eccezionale dal governo Macron.

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asimmetrie

È la contraddizione che muove il mondo

di Vladimiro Giacché

Testo della lectio al convegno Euro, mercati, democrazia e… conformismo EMD 2020, svoltosi a Montesilvano (PE) nei giorni 17 e 18 ottobre 2020

EgaIkRrWkAIkliw.jpg large1. Una fine e un inizio

«La fine di qualcosa»: così il grande pianista canadese Glenn Gould, rivolgendosi al pubblico prima dell’inizio di uno dei suoi più straordinari concerti, definì la musica di Bach. Il pensiero di Hegel rappresenta l’ultimo grande tentativo sistematico della storia della filosofia, un’ambizione che già la generazione di filosofi successiva abbandonò. Da questo punto di vista la filosofia hegeliana è davvero anch’essa «la fine di qualcosa». Ma d’altra parte è innegabile che il pensiero di Hegel abbia esercitato un’enorme influenza sui filosofi successivi. Alcuni aspetti della sua filosofia hanno esercitato un potente influsso sulla storia – non soltanto del pensiero – sino ai giorni nostri. La filosofia di Hegel è quindi sia una fine che un inizio. Per questo motivo, e per un motivo più importante: perché, come vedremo più avanti, nel suo pensiero la fedeltà alla tradizione filosofica, la continuità rispetto a essa, si unisce a un forte elemento di rottura, nientemeno che rispetto a un principio cardine della tradizione filosofica quale quello di identità.

Il pensiero di Hegel, al pari di quello di tutti i grandi pensatori, fa parte del patrimonio culturale dell’umanità. Allo stesso modo di un monumento storico, di un dipinto, di un brano musicale. In quanto tale, fa parte di una storia. Ma il suo significato non si esaurisce in essa, eccede ogni interpretazione – e proprio per questo è in grado di parlare a generazioni diverse, di divenire alimento di un nuovo pensiero. Il pensiero di Hegel fa parte anche di noi, perché è inserito nella tradizione culturale in cui noi stessi pensiamo. Talvolta ridotto a frammenti, a singoli concetti, a frasi isolate, ma comunque già presente in noi inconsapevolmente anche prima dell’inizio di ogni lavoro interpretativo.

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ospite ingrato

Negatività, totalità e nuove forme della critica

di Giorgio Cesarale

Die Brucke e1607710800359Il Novecento ha voluto realizzare l’idea, ha detto Alain Badiou, ma per realizzarla, si potrebbe aggiungere, ha anzitutto provato a cambiarla.1 Esso è stato infatti un secolo rivoluzionario non solo dal punto di vista sociale e politico o da quello artistico e scientifico, ma anche da quello filosofico. Forme, contenuti, risultati dell’impresa filosofica moderna sono rimasti “spiazzati” da un discorso nuovo, caratterizzato dalla radicale ricombinazione dei materiali consegnati dalla tradizione. Se si dà infatti uno sguardo alla costellazione filosofica del Novecento, dall’ermeneutica alla fenomenologia passando per il pragmatismo e la filosofia analitica, ci si accorge che ciascuna di queste correnti ha inteso effettuare una svolta, capace di proiettare la filosofia fuori da una situazione considerata ormai priva di sbocchi, di ogni autonoma possibilità rigeneratrice. Sennonché, dire “filosofia moderna” significa anche dire, come è noto, “critica”. A quale destino si è perciò dovuta sottoporre la critica, tipico manufatto del pensiero europeo sette-ottocentesco, entro il contesto filosofico novecentesco? È una domanda cruciale, per l’insieme delle implicazioni che reca con sé, e non è perciò un caso che attorno a essa si sia venuta componendo una vasta e articolata riflessione. A tal proposito, la nostra convinzione è che, malgrado le sue difficoltà, tale riflessione debba proseguire, sebbene si tratti di volgerla verso margini inesplorati, o non esplorati con sufficiente energia, come sta peraltro accadendo nel dibattito che su questo tema si sta svolgendo sulle colonne dell’«Ospite ingrato». Le notazioni che seguiranno cercheranno di conferire a questa convinzione un profilo più preciso.

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ospite ingrato

Always Totalize!

Perché abbiamo ancora bisogno della totalità (e della dialettica)

di Marco Gatto

Platon et Aristote par Della Robbia détailI.

In uno scritto autobiografico del 1977, Cesare Cases ripercorreva le tappe filosofiche che lo avevano condotto alla Perdita della totali- , al tracollo della fiducia nei confronti di ricostruzioni sistematiche e di narrazioni universali: «crollata questa fede, sono crollate anche le mie presunzioni teoriche»,1 egli confessava. E nello stesso tempo quest’ammissione rappresentava un rilancio, perché, al netto della sconfitta, restava ferma, persino negli scritti più brevi e occasionali, «un’inclinazione al compiuto, al conchiuso, un’inclinazione […] di per sé antiavanguardistica, ma di un antiavanguardismo consapevole dell’impossibilità di fare la cosa chiusa»,2 in larga parte proveniente, si potrebbe aggiungere, dalla lunga frequentazione di Cases con i pensatori novecenteschi dell’Intero, Lukács su tutti.3 La pervasiva e capitalistica «frammentazione della vita», dialetticamente legata alla «nostalgia della totalità»,4 secondo la lezione proveniente dall’autore di Teoria del romanzo (1920),5 rendeva per Cases posticcia, all’altezza degli anni Settanta del secolo scorso, qualsiasi tensione universalizzante, ma poneva forse in rilievo (ancora per poco) la possibilità di tenere avvinti la parte e il tutto, il particolare e il totale, prima che si scivolasse storicamente (e drammaticamente) nella dittatura ideologica del primo polo sul secondo. Cases, quasi da post-lukacsiano, si schierava con Adorno e con la «sua critica allo spirito hegeliano di sistema».6 «Non è che il desiderio di totalità sia in sé malvagio – continuava il grande germanista –, ma è prematuro, poiché in realtà la totalità esiste», ed è quella del capitalismo e delle sue forme sociali, e pertanto «ogni tentativo di tipo hegeliano di irreggimentare il mondo in sistema finisce per consegnarlo all’esistente».7 L’apertura di una breccia nella costrittiva totalità del capitalismo diventava, pertanto, l’obiettivo di una critica che non poteva rischiare di riprodurre, nelle sue movenze totalizzanti, i meccanismi egemonici dell’avversario.

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sinistra

Le radici della disuguaglianza”. L’emergere dell’Individualismo proprietario

di Gerardo Lisco

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Hobbes, Rousseau.

Il lavoro si ripromette di indagare il tema a partire da il libro “ Le radici della disuguaglianza del filosofo della politica Antonio Martone. Il saggio individua le “radici della disuguaglianza” nel pensiero moderno, attraverso l’analisi di alcuni autori che per ciò che hanno scritto e sostenuto sono da considerare come una sorta di ideal-tipo della “modernità”.

Gli autori presi a riferimento abbracciano un arco di tempo che va dagli inizi del 600 alla fine dell’800: T. Hobbes, J.J. Rousseau, A. de Tocqueville, M. Stirner e F. Nietzsche. Passiamo dall’Assolutismo di Hobbes all’idea Democratica di Rousseau, dall’analisi critica della nascente Liberal-Democrazia americana di Tocqueville per concludere con Stirner e Nietzsche, i quali analizzano in profondità categorie quali Democrazia, Socialismo, Liberalismo e ne mettono a nudo le contraddizioni creando i presupposti per la critica alle ideologie e aprendo la strada al post-modernismo e all’egemonia dell’individualismo e del totalitarismo liberal-capitalista contemporaneo. In modo particolare questi ultimi due autori, con le loro potenti critiche, sono riusciti a produrre l’effetto contrario rafforzando ciò che intendevano combattere.

Ragionare sulle origini della disuguaglianza attraverso l’analisi delle riflessioni degli autori presi a riferimento non può prescindere dal contesto storico nel quale ciascuno di essi è vissuto e nel quale ha operato. T. Hobbes è il primo ad essere messo sotto osservazione. Riferendosi ad Hobbes e al concetto di uguaglianza proprio della trattazione del filosofo inglese, Martone parla di un’“uguaglianza omicida” ossia l’idea che l’homo homini lupus non sia altro che l’uguaglianza nell’essere potenzialmente omicida dell’altro uomo, motivata dalla naturale spinta alla sopravvivenza. L’uguaglianza è un dato naturale per cui tutti gli uomini sono uguali.

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ospite ingrato

Critica, capitale e totalità

di Roberto Finelli

2021.12.20. NUMERO 10Critica e totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna come intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel. Già Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà Oggettiva, indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire dalla tesi secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore intrinseco della costruzione di una totalità, giacchè solo attraverso il progressivo autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la verità di un intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi pretesa di un lato solo particolare o di una configurazione parziale di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo, perché, non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi e a trapassare in altro.1 La critica qui, ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del sapere ed emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio avviso, la natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola, fino ad estremizzarla in un puris- simo negativo, che non nega alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del nulla/negazione.

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quieora

«Per un catechismo rivoluzionario»

Su La communion qui vient (Paris, ed.Seuil 2021).

di Marcello Tarì

Pentecoste Di Stasio 965x1200No, non è al catechismo di Necaev, il manifesto russo del nichilismo rivoluzionario, che gli autori de La communion qui vient [La comunione che viene] si riferiscono, quando viene evocato a mo’ di slogan in un punto cruciale del testo. Per capirlo è sufficiente guardare al sottotitolo del libro: Carnets politiques d’une jeunesse catholique [Quaderni politici di una gioventù cattolica]. Invece è certo che il titolo gioca sul richiamo a un altro testo, pubblicato sempre in Francia quindici anni fa e che divenne anch’esso una specie di catechismo rivoluzionario per le giovani generazioni. Sto parlando ovviamente di quello a firma del Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene.

La sua diffusione andò infatti oltre l’interesse strettamente politico-culturale, fu piuttosto un fenomeno di costume che influenzò un certo modo di pensare la vita e la politica nel contesto del presente ordine del mondo e credo sia esattamente questo il motivo del libro appena uscito, cioè mettere in discussione i modi di vita e le politiche attuali proponendo qualcos’altro. Anzi, in questo caso qualcosa di veramente Altro. La communion qui vient è però anche una citazione di un altro importante piccolo volume uscito nella sua prima edizione nel lontano 1990, cioè La comunità che viene di Giorgio Agamben, nel senso che uno degli argomenti principali affrontati dal libro è la critica politica del concetto di comunità al quale viene preferito, appunto, quello di comunione.

L’obiettivo di questo testo non è diverso da quello che animava quello del Comitato Invisibile, cioè dare una forte scossa a un ambiente, in questo caso quello cattolico, mentre nel caso precedente si trattava di quello della sinistra radicale, ma entrambi hanno l’ambizione di rivolgersi a tutta la società indicando alcune piste teoriche e organizzative.

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materialismostorico

György Lukács, Dialettica e irrazionalismo

Recensione di Sabato Danzilli

György Lukács, Dialettica e irrazionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano pp. 200, € 18, ISBN 9788883512537

147229 mdQuesta raccolta di saggi di György Lukács curata da Antonino Infranca ha il merito di riunire testi poco noti e finora difficilmente reperibili dedicati a uno dei temi fondamentali del pensiero lukacsiano: la contrapposizione tra pensiero dialettico e filosofia irrazionalistica. Com’è noto, Lukács dedica nel 1954 all’argomento un’opera quale La distruzione della ragione. Qui il filosofo ungherese combatte le tendenze della filosofia borghese post-hegeliana che fanno del movimento storico oggettivo una categoria secondaria e subordinata rispetto alla coscienza soggettiva. Si tratta di una descrizione necessariamente generica, che racchiude però il moto di pensiero che sta alla base dell’opera e della stessa categoria di «irrazionalismo» nelle sue declinazioni storiche.

Il testo curato da Infranca è composto da nove saggi, tutti precedenti l’ampio volume del 1954, con l’eccezione dell’ultimo. Il motivo di questa collocazione cronologica non è casuale ed è spiegato bene dalla prefazione del curatore: se nel periodo giovanile di Lukács l’affermazione del carattere progressivo della dialettica, contrapposta, come in Storia e coscienza di classe, alle «antinomie del pensiero borghese», riguarda essenzialmente il problema dell’attualità della rivoluzione, gli scritti degli anni ’30-’40 sono inseriti nel contesto completamente mutato della resistenza all’avanzata nazifascista. Infranca pone l’accento sul carattere politico ed etico di questa lotta, che viene intesa come una vera e propria battaglia per il futuro dell’umanità. La rivendicazione del carattere progressivo della filosofia dialettica assume il significato di una difesa di tutte le conquiste sociali e culturali del movimento che si richiama a questa grande tradizione.

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overleft

La speranza possibile: riflessioni rapsodiche sulle Tesi di Benjamin

di Franco Romanò

oipLe tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano: il biennio 1939-40 offrì al filosofo l’occasione propizia per renderle pubbliche. Perché riprenderle oggi? Anche noi ci troviamo in un passaggio epocale e da questa considerazione è nata l’idea di una riflessione su di esse, cercando di leggerle per così dire contropelo, cioè dal lato che sembra più improbabile per uno scritto così estremo e disperato: il lato della speranza1.

Benjamin parte da una critica radicale dello storicismo.

Dalla Tesi settima. Traduzione da L’ospite ingrato. Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medioevo era il fondamento della tristezza. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. … L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno … Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominato ridi oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato … Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei.

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materialismostorico

Introduzione alledizione in lingua inglese di Nietzsche: il ribelle aristocratico, di Domenico Losurdo*

di Harrison Fluss (St. John’s University and Manhattan College)

nietzscheDopo aver descritto la lunga ricezione di Nietzsche da Emma Goldman a Stanley Cavell, Jennifer Ratner-Rosenhagen conclude il suo American Nietzsche in sintonia con una lettura pragmatica dell’opera del filosofo: non esiste un’unica comprensione corretta di Nietzsche, non più di quanto vi sia un autentico approccio filosofico. Ciò che definisce Nietzsche – se mai qualcosa può definirlo – è la fondamentale «indeterminatezza, il prospettivismo e l’eterogeneità» che sono al centro della sua filosofia e che lo rendono decisamente congeniale alle tradizioni americane del liberalismo e del pluralismo1. Nietzsche, quindi, sarebbe americano quanto la apple pie.

Ciò che Ratner-Rosenhagen ignora, tuttavia, sono le altre dimensioni del pensiero di Nietzsche; dimensioni piuttosto rilevanti per la storia di un Nietzsche americano. I giudizi del filosofo tedesco sulla razza, la schiavitù e l’abolizionismo non sono tenuti in considerazione, dal momento che anche l’americanismo che Ratner-Rosenhagen ci presenta risulta completamente decontestualizzato. Si tratta di un americanismo dal quale sono state espunte tutte le incongruenze e i paradossi più evidenti e che è incarnato, ad esempio, dal precursore americano di Nietzsche, il liberale Ralph Waldo Emerson. RatnerRosenhagen inizia la sua narrazione proprio con l’amore di Nietzsche per Emerson ma a questo proposito andrebbe notato come Nietzsche non leggesse soltanto l’Emerson individualista ma anche l’Emerson elitista e adoratore degli eroi2. Nietzsche si definiva a volte «un liberale» ma era anche un teorico che promuoveva la gerarchia e l’ordine castale [rank-ordering]3. Come possono convivere, allora, i valori in apparenza progressisti del liberalismo e del pluralismo con la politica elitista promossa da Nietzsche? In effetti, come possono questi valori autoritari essere ritenuti compatibili con quell’immagine di un Nietzsche anti-fondazionalista che conclude il libro di Ratner-Rosenhagen?

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linterferenza

Sull’ indeterminismo in natura e nella conoscenza della natura

di Giulio Maria Bonali

Pierre Simon LaplaceIl recente conferimento del premio Nobel per la fisica a Giorgio Parisi per risultati conseguiti nei suoi studi sui sistemi complessi o non lineari ha stimolato, soprattutto da parte di ricercatori scientifici, considerazioni filosofiche antideterministiche peraltro ormai da vari decenni largamente prevalenti fra i ricercatori e fra i filosofi della scienza, ma anche sulla stampa non scientifica o filosofica e in particolare su riviste e siti internet politico-culturali di sinistra.

In particolare in questi giorni si leggono frequentemente solenni rivendicazioni di “originalità” e di pretese “grandi scoperte”, nell’ ambito del dominante paradigma (indeterministico) della complessità e da parte dei suoi cultori, circa l’ impossibilità di conoscere e prevedere per filo e per segno il divenire di moltissimi fenomeni naturali, di contro a pretese di “onniscienza” attribuite (ma indebitamente) al determinismo filosofico e scientifico “classico”, che la moderna scienza fisica e la moderna filosofia della scienza avrebbero definitivamente superato.

Inoltre, contro la asserita indebita e irrealizzabile pretesa di conoscere l’ evoluzione certa, dettagliata, precisa e a lungo termine dei sistemi fisici complessi (la stragrande maggioranza in natura, essendo il caso di quelli semplici, come il sistema solare, una sorta di “eccezione che conferma la regola”), se ne encomia spesso lo studio probabilistico, facendo oggetto di grande ammirazione chi l’ha proposto e praticato: dal per me ottimo Boltzmann a cavallo del XIX e XX secolo, al per me pessimo Prigogine a fine ‘900 e ai suoi epigoni di oggi.

Peccato che l’ autentico pioniere di questo approccio alla ricerca scientifica nel caso dei sistemi fisici complessi (e di quelli biologici, ad essi riducibili), ben prima ancora dell’ottimo Boltzmann (quest’ ultimo particolarmente in riferimento alla termodinamica e alla meccanica statistica), sia stato un certo …Pier Simon de Laplace, vituperatissimo da grandissima parte se non da tutti i propugnatori “del paradigma della complessità”, in particolare nel suo famosissimo Saggio filosofico sulle probabilità.

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carmilla

Per una critica della società dell’Apocalisse permanente

di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

apocalisse e sopravvivenza santiniCostoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel constatare come l’umanità contemporanea si sia assuefatta a vivere, anche se sarebbe forse meglio dire sopravvivere, in una apocalisse continua: climatica, economica, politica, militare, sanitaria, sociale e ambientale.

Un autentico inferno che, colui che è ancora rappresentato nell’iconografia cristiana come l’aquila, per la sua lungimiranza e profonda capacità visionaria, non avrebbe saputo anticipare nemmeno nei suoi incubi più terribili.

Questa Apocalisse terrena, che non si è ancora sviluppata in alcuna lotta definitiva tra il Bene e il Male, anche se nel corso dei secoli milioni di persona sono morte a causa di crociate politico-militari e religiose che promettevano, da vari e contrastanti punti di vista, il trionfo del primo sul secondo, ha avuto, però e fin dai primi anni Settanta del ‘900, un suo anticipatore, seguito da un ristretto numero di seguaci, in Giorgio Cesarano.

Come afferma Francesco “Kukki” Santini nel riassumerne l’opera di Giorgio Cesarano (1928-1975) intitolata, appunto, Apocalisse e Rivoluzione (con Gianni Collu, come attestava il frontespizio del manoscritto, Dedalo, Bari 1973):

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consecutiorerum

Fortuna e sfortuna dell’ideologia: una breve storia

Parte prima

di Roberto Finelli

198hgyd46gi9u1. Una nascita moderna nel tardo Illuminismo francese

Ideologia è un termine polivalente che nella storia della cultura moderna rimanda a una molteplicità di significati opposti al significato proprio dei termini greci antichi, come ιδεολογία e ιδιολωγέω (opinione del singolo, discorso privato). Sia che la si assumi come a) sinonimo di falsa coscienza sociale, o b) di sistema di idee non legate a un interesse per la verità e il confronto scientifico ma al prevalere di passioni e desideri, o c) invece come visione del mondo che dà senso alla vita e all’agire di gruppi e individui, ideologia è termine, nella modernità, sempre legato, a una dimensione di sapere e di agire collettivi e come tale è termine che appartiene sia alle scienze sociali, alla sociologia in primo luogo, che alla filosofia sociale e politica.

Ma proprio per la complessa varietà dei suoi significati ritengo che sia opportuno presentare un resumè della storia delle idee di questo termine, per poter svolgere, con maggiore adeguatezza, delle riflessioni sulla funzione e sulla costellazione attuale di senso che l’ideologia ricopre nel nostro presente.

Il termine ideologia è stato coniato per la prima volta, con un significato prettamente positivo, nell’Illuminismo francese. Destutt de Tracy pubblica nel 1801 Projet d’elèments d’idéologie e definisce l’ideologia come la scienza della formazione delle idee. Le idee, secondo un’ispirazione empiristica alla Locke, derivano dalle percezioni sensibili. La sensazione è il principio di ogni conoscenza, sia del mondo esterno che di ogni esperienza interiore. Per cui anche le forme più elevate del sapere derivano sempre dalle sensazioni. La ideologia è la scienza, “qui traite des idées ou perceptions, et de la faculté de penser ou percevoir” e “qui résulte de l’analyse des sensations”1.