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Giorgio Agamben e l’“homo sacer”

di Marco Pacioni

L’estrema versatilità disciplinare e tematica ha potuto disorientare per un po’ i lettori di Giorgio Agamben, renderli perplessi riguardo gli obiettivi ai quali mirava la sua opera. Si pensi, ad esempio, all’apparente eclettismo del suo secondo libro, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (Einaudi 2011, prima ed. 1977), che si interroga sul rapporto tra poesia e critica passando per la lirica provenzale (da cui deriva il titolo), la melanconia di Dürer, Baudelaire, Freud, Marx, Heidegger (a lui il libro è dedicato), per personaggi e miti come Odradek, Beau Brummel, Edipo, Narciso, Pigmalione, la Sfinge. Analoghe considerazioni si potrebbero fare per Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (Einaudi 2001, prima ed. 1978), raccolta di saggi di estetica, antropologia culturale, teoria della storia che spaziano da Hegel a Heidegger, da Lévi-Strauss a Benveniste, da Adorno a Benjamin. Ma chi sulla base di un’apparente dispersione pensava che Agamben fosse un pensatore capace soltanto di grandi exploits, un disseminatore di spunti accattivanti privo di sistematicità si è dovuto ricredere. 

E non soltanto perché Agamben con le sue escursioni etimologiche, erudite ed estetiche stava rimettendo mano al nodo fondamentale della filosofia che è, come da tradizione nel pensiero occidentale, l’essere, ma anche perché quando ci si è accorti della portata della sua ricerca, non si è dovuto prendere partito soltanto su questioni teoretiche, ma con queste ultime anche sulla politica e la vita. L’aver rimesso il dito nella piaga dell’essere e della sua negazione, con Agamben ha significato affrontare la bio-politica dalle sue dimensioni più astratte come quella della sovranità fino alle sue manifestazioni più concrete e storiche come Auschwitz.

Con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, (vol. I, Einaudi 1995), libro che ha destato attenzione internazionale, i nodi ontologici, estetici e politici della sua riflessione sono venuti veramente al pettine.

Da Homo sacer si è potuto guardare attraverso una luce diversa anche ai temi e alle articolazioni delle opere precedenti. Lo scrittore che preferisce non scrivere in Bartleby, la formula della creazione (scritto con Deleuze, Quodlibet 1993), la tavoletta su cui niente è scritto di Damascio in Idea della prosa (Quodlibet 2002, prima ed. 1985), l’acedia nel medioevo in Stanze, il Dasein di Heidegger in Il linguaggio e la morte (Einaudi 1982), la  distruzione dell’esperienza in Infanzia e storia: dopo Homo sacer tutti questi elementi sono diventati tessere che si sono ricomposte in modo da lasciar vedere i lineamenti di una forma di pensiero distinta, riconoscibile e con obiettivi precisi nel panorama del pensiero contemporaneo.

Innestato al metodo genealogico foucaultiano, improntato alla ricerca dei paradigmi bio-politici nella storia e, soprattutto, il paradigma per eccellenza moderno, secondo Agamben, del campo di concentramento (l’elemento che del libro ha suscitato più interesse e critiche), il perno intorno al quale ruotano gli argomenti di Homo sacer è la dynamis aristotelica o, come l’avrebbero chiamata secoli dopo i filosofi della scolastica, la potentia. Come ha suggellato poi Agamben stesso con la raccolta di scritti La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, (Neri Pozza 2005) e come mostra la migliore monografia che sia stata scritta su di lui, cioè il libro di Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben. A Critical Introduction (Stanford University Press 2009), Agamben ha assunto ufficialmente, per così dire, lo stigma di filosofo della potenza.

In continuità con Aristotele la mossa teoretica che Agamben compie tramite la potenza è, in prima battuta, un modo per affrontare la questione della negatività del fondamento (tema principale di Il linguaggio e la morte): lo spettro del non-essere per esorcizzare il quale già Parmenide aveva dovuto addirittura negare il divenire e il molteplice. Oltre Aristotele e proseguendo la strada interpretativa del pensiero aristotelico aperta da Averroè e Dante, come ad Agamben preme sottolineare, per l’autore di Homo sacer la potenza diventa la questione cruciale, da pensare in se stessa, come potenza della potenza e non più soltanto in relazione subordinata all’essere e all’ente. Scrive Agamben nel saggio che dà il titolo al volume che raccoglie gli scritti de La potenza del pensiero: “In questione è il modo della potenza che esiste nella forma della hexis, della signoria su una privazione. Vi è una forma, una presenza di ciò che non è in atto, e questa presenza privativa è la potenza”.

Dopo il primo libro, Homo sacer si è articolato in altri volumi che corrispondono ad altrettante sezioni scritte e pubblicate non rispettando però l’ideale sequenza numerica del progetto. A Stato di eccezione (Bollati Boringhieri 2003), Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Bollati Boringhieri 1998), Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo (Neri Pozza 2007), Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, ora fa seguito Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita. Homo Sacer IV,I (Neri Pozza).

La regola di vita del monaco e del frate è il reciproco di quella dell’ufficio sacerdotale. Sul tema dell’ufficio, Agamben ha già annunciato un’opera specifica, ulteriore sezione di Homo sacer, dal titolo Opus Dei. Archeologia dell’ufficio (Bollati Boringhieri 2012).

Ufficio e regola di vita si sono sviluppati dentro il cristianesimo e la chiesa e di qui entrambi, ma soprattutto l’ufficio data la natura sacramentale di esso, si sono secolarizzati. Come è noto, l’agire d’ufficio prescinde dalla volontà e dalla condotta delle persone che lo mettono in atto. Un matrimonio religioso o civile non è invalidato se chi lo celebra non crede o non agisce nella sua vita privata in conformità a quello che dice. Il detto “fa quello che il prete dice,  non fare quello che il prete fa” trova il suo fondamento proprio nell’ufficio che è istituito da un rito nel quale oltre a determinati atti vi è sempre presente una formula linguistica che Agamben tratta in Il sacramento del linguaggio. Nella regula vitae invece, è come se quel giuramento che nell’ufficio rimane valido a prescindere dal comportamento di chi lo pronuncia, si rinnovasse continuamente; come se chi mette in atto la regola si trovasse sempre all’inizio di un percorso. L’unico modo di validare la promessa della regula vitae è, al contrario dell’ufficio, adeguare la propria condotta a ciò che prescrive la regola, fino al punto di fondere la vita alla regola stessa. Detto in altri termini, chi adotta una regola, come i monaci e i frati, tenta di far aderire la propria vita, la propria volontà, il proprio corpo all’abito che veste, fino a trasformare l’abito in un’abitudine. La doppia versione e dunque l’ambivalente significato dell’antichissimo detto “l’abito fa / non fa il monaco” richiamato dallo stesso Agamben nel libro, mostra come il passaggio al fare sia costantemente da verificare nella regula vitae perché non c’è formula sacramentale e giuramento e dunque parola che possano garantirne una volta per tutte la validità. Da ciò si arguisce che non soltanto le professioni della regola da parte del novizio e del postulante si riferiscono ad un periodo di prova nel quale si può recedere da quella scelta di vita, ma che anche la conferma della regola, quando cioè il monaco o il frate acquisiscono in perpetuo i voti, rimane in realtà sempre all’inizio. Il proposito ha bisogno di essere rinnovato, cioè praticato ogni giorno. La regola di vita monastica, anche considerata come genere testuale – la versione che storicamente è diventata di riferimento nell’occidente cristiano è la regola di San Benedetto – è sempre un progetto in fieri, un’opera che non giunge a un completamento o perfezione sacramentale come l’ufficio appunto. Essa è un’opera di cui non ci si può appropriare, un’opera sempre in corso d’opera, un misto di operosità e inoperosità, come si palesa già nel motto benedettino ora et labora nel quale appunto l’inoperosità della preghiera è accostata all’operosità del lavoro. 

Inaugurato dal monachesimo cenobitico, il rapporto fra regola e vita che secondo Agamben culmina nella “forma-di-vita” francescana la quale rinuncia alla proprietà per abbracciare l’usus, sembra portare al di là della stessa forma-di-vita, fino ad arrivare a una vita-di-forma, uso formale della vita o uso vitale della forma che devono porsi fuori del diritto per essere praticabili come reclamavano diversi teorici francescani citati da Agamben nel libro. Ma a quale ethos corrisponde una forma di vita come quella elaborata dal francescanesimo che si pone fuori dal diritto per essere esperita? È davvero pensabile l’uso fuori dal diritto? E che rapporto c’è tra forma e uso, nel paradigma oggi planetario dell’operatività? Queste sono le domande con le quali si chiude il libro di Agamben e che ovviamente non riguardano soltanto il monachesimo e il francescanesimo che qui, come avviene per altre istituzioni, fatti e concetti del progetto di Homo Sacer, vengono esaminati per la loro paradigmaticità storica. La forma-di-vita francescana implica elementi cruciali della nostra vita che per essere affrontati, secondo Agamben, occorre ora indagare come relazione fra uso e forma – ulteriore tappa, come si è detto, del progetto di Homo sacer.

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