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Si può dare una classe eletta?*

di Mario Tronti

Qualunque discorso sui popoli eletti non può che partire dalle Scritture. Storia sacra, per leggere, in metafora, i nostri tempi, ahimé, secolarizzati. Tra i riferimenti testuali, c’è solo da scegliere. Scelgo Ezechiele. Dio parla al sacerdote e profeta: << Anch’io prenderò dal ramoscello del cedro solamente la sua cima, soltanto una punta ne staccherò e la pianterò su un monte alto e boscoso. La voglio piantare sull’alto monte d’Israele e stenderà rami e darà frutti e diverrà un cedro lussureggiante. Sotto di lui abiteranno tutti gli uccelli e riposerà all’ombra delle sue foglie ogni volatile. Tutti gli alberi della campagna riconosceranno che io, il Signore, ho abbassato l’albero alto e innalzato quello basso, ho fatto seccare il legno verde e germogliare quello secco >> ( Ez 17, 22-24 ).

Nell’arco di cinque-sei secoli - l’indeterminatezza temporale è segno appunto dei tempi - la sostanza del discorso raggiunge il sacerdote e missionario. Paolo vanta le rivelazioni del Signore che gli ha fatto vedere “l’uomo in Cristo”, rapito, non importa se col corpo o senza corpo, fino al terzo cielo. Ma non si vanta di essere stato, lui, prescelto, per queste visioni. In realtà, Dio lo aveva preso come la cima del ramoscello dell’albero di cedro, per piantarlo sui monti alti e boscosi delle terre dell’Impero, in modo che crescesse come pianta lussureggiante. << E perché non insuperbissi per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messo un pungiglione nella carne, un emissario di Satana che mi schiaffeggi, perché non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me.

Mi rispose: ”Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nella debolezza”. Mi vanterò quindi volentieri delle mie debolezze, perché si stenda su di me la potenza di Cristo. Mi compiaccio quindi delle infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni, delle angustie, a motivo di Cristo; perché quando sono debole, allora sono forte >> (2Co 12, 7-10 ). Il passaggio dall’ebreo di Tarso, in Cilicia, Saulo, a Paolo, apostolo delle genti, è come abbassare l’albero alto e innalzare quello basso, è come far seccate il legno verde e far germogliare quello secco.

Siamo entrati in tema. Il paradigma elezionista ha questo di caratteristico: scende dall’alto, è una scelta libera da parte di chi agisce senza condizioni, cade su un popolo in esilio dalla sua terra, su un individuo in sofferenza, a cui non viene risparmiata la spina nella carne, determina il corso della storia, cambiando le condizioni presenti, orientando quanto sta per avvenire. Chi è momentaneamente debole può per questa via conquistare forza. Il disagio diventa potenza. Il che comporta che chi, fin lì, ha posseduto forza e potenza, viene reso debole sottomesso. Quest’ultima condizione è necessaria? E’conditio sine qua non? Per me, sì. Ma qui si entra nel campo delle interpretazioni del paradigma. Ragionare di popoli eletti è certo “un viaggio”, intellettuale, ma non oltre la storia, dentro la storia. E dentro la storia, sia come res gestae, sia come historia rerum gestarum, il punto di vista, politico, è determinante, e obbligante. Si può saperlo o non saperlo, accettarlo o rifiutarlo. Saperlo, e accettarlo, ti permette di governarlo, ponendo limiti, alzando barriere di contenimento, verificando fatti e giudicando interpretazioni. Il contrario, ti lascia libero e sottoposto, cioè libero di assumere questa o quell’altra frazione di pensiero dominante, perché nella società divisa della storia moderna, il pensiero dominante è sempre quello della parte dominante. Comunque, si tratta di un problema eterno, richiamato qui come premessa, e avvertenza, che banalmente vuole giustificare il ragionamento che segue.

Chi elegge chi, dal tempo in cui Dio eleggeva un popolo? Si potrebbe scherzare dicendo che adesso è il popolo che elegge un Dio, nella figura del Capo, secondo quanto avviene, direttamente, nelle democrazie, che chissà perché vengono definite le più avanzate .Ma non abbassiamo il discorso a questo livello. Solleviamolo invece a un punto significativo. Se si è, giustamente, deciso di parlare al plurale di popoli eletti, allora si può abbastanza legittimamente andare a riconoscere i segni del popolo eletto in quello che è stato il movimento operaio. Gli ingredienti, biblici, ci sono quasi tutti: l’elezione, se non divina, storica, l’esodo, attraverso le pene e le fatiche della rivoluzione industriale, l’esilio nei lunghi tempi del non riconoscimento, la Gerusalemme come mèta indicata, la terra promessa a un certo punto trovata, fino alla non lontana da noi avvenuta distruzione del Tempio. Quando Marx pronunciò quella frase: il proletariato emancipando se stesso, emanciperà tutta l’umanità, si mise, lui tra l’altro autore della Judenfrage, dentro questo orizzonte. Fu lui a caricarsi in questo caso del paradigma elezionista, non personalmente ma attraverso la cosruzione di una Teoria - di nuovo un punto di vista, consapevole -, che aveva la pretesa, fallace, di proporsi come scienza. La chiamata di questo popolo eletto veniva affidata alla Storia, che inevitabilmente avrebbe realizzato quella profezia di emancipazione universale. Ma, si sa, le profezie non hanno il compito di realizzare il futuro, piuttosto quello di denunciare il presente. Così è accaduto. La storia, con la minuscola, del movimento operaio ha fallito nella costruzione del mondo nuovo, e dell’uomo nuovo, però ci ha dato, ci ha lasciato, gli strumenti per essere liberi nella critica di tutto ciò che è del vecchio mondo e del vecchio uomo, tra i quali ancora purtroppo abitiamo.

Ripercorrere per intero quella storia, pur limitata a questi temi, sarebbe qui impossibile. Prendiamola al suo punto di massimo sviluppo. E’Novecento. Nel grande secolo appena passato, il paradigma elezionista ha assunto imprevedibili forme. Lo stato d’eccezione si è subito insediato nel cuore del tempo. Le due date, il ‘14 e il ‘!7, l’inutile strage e il principio speranza, aprivano i giochi: l’età delle guerre civili europee e mondiali poteva cominciare. Rivoluzione conservatrice e rivoluzione operaia, grandi protagonisti d’epoca. Le masse, attraverso la mobilitazione totale, dall’alto e dal basso, prendevano coscienza di quanto fin lì era stato prerogativa delle sole élites: significato e fine della storia. Si mettevano in moto macroprocessi diversi e tuttavia tra loro correlati e quasi interdipendenti: la nazionalizzazione delle masse in Germania, la socializzazione delle masse in Unione Sovietica, la democratizzazione delle masse in Occidente. Storia sacra novecentesca, da leggere con gli strumenti demoniaci della teologia politica. In gran parte, di secolarizzazione di concetti teologici, in effetti, si tratta. Il totalitarismo mette in campo una superideologia, il socialismo una superteoria, la democrazia una superpratica. Popolo-razza, popolo-classe, popolo-gente. Il protagonismo delle masse viene riassorbito, gestito, strumentalizzato, manipolato. Nel contrasto, di fondo, tra Zivilisation e Kultur, si svolge una lotta, tragica, di potenza, per il possesso delle risorse escatologiche. Vince la soluzione debole, quella democratica. La verità è che la democrazia aveva in realtà dietro di sé la maggior forza: l’antropologia dell’homo oeconomicus, mascherata da astratto individuo moderno e la sociologia del capitale-mondo, realizzata come invincibile produzione di ricchezza delle nazioni.

Ma è per ragioni di appartenenza che fisso adesso lo sguardo su quella figura di “popolo eletto”, a cui soprattutto nel Novecento è stata applicata una chiamata storica. Qui avviene un passaggio fondamentale: la trasformazione del proletariato in classe operaia. Il capitalismo industriale vive la sua massima fase di sviluppo, introduce la rivoluzione tecnologica nel corpo della fabbrica, sovverte e adatta, con il taylorismo, il processo lavorativo alle esigenze della produzione di massa, concentra quantità di forza-lavoro in enormi singoli complessi, rovescia il rapporto città-campagna, urbanizza la vita delle persone. Tutto questo dentro la grande crisi e in mezzo alla grande guerra, la seconda mondiale. Negli anni Trenta, negli Stati Uniti d’America, un ciclo di lotte fa emergere la figura storica dell’operaio-masxsa. L’esportazione in Europa avverrà negli anni Cinquanta-Sessanta e farà da motore alla ricostruzione post-bellica. Si costruirà un blocco storico tra classe operaia d’Occidente all’opposizione di sistema e proletariato d’Oriente al potere in Russia e in Cina. Collocherei lì “il popolo eletto” del Novecento. Naturalmente - è doveroso avvertire – quando si fanno queste affermazioni, non si descrivono fatti né si danno interpretazioni. Direi che siamo piuttosto nel campo delle visioni. Si tratta di rappresentazioni simboliche, che posseggono però, a mio parere, un carattere trasformativo, in un tempo a bassa energia di pensiero e prassi. Nell’autoironica consapevolezza di un eccesso discorsivo, segnati i limiti della propria intelligenza degli avvenimenti, si può procedere a un racconto allusivo di ciò che poteva essere e che non è stato, per dire che c’è una riserva di senso, alternativo rispetto al corso storico presente, da conservare e, forse, da rilanciare.

La trasformazione da proletario a operaio sanciva la fine di un “quarto stato” di popolo, bisognoso di una predicazione evangelica, e l’emergere di una condizione di classe, a cui bisognava dare una coscienza, autonoma. Nel complesso, è storia del movimento operaio, ma in una linea evolutiva, con in mezzo un salto, come si dice, di qualità. Dopo Marx, la Seconda Internazionale, Lenin e i bolscevichi, e dunque nel Novecento, il movimento operaio si stabilizza e si presenta sulla scena della storia come un soggetto politico composto di classe più organizzazione più teoria. Si chiude la storia delle classi subalterne. Si chiude in Occidente. E’continuata in gran parte dell’Asia, la gestione maoista della rivoluzione cinese è ancora dentro questa storia. Continua in America latina. Continuerà nel continente africano. E’ la socialdemocrazia europea che per prima realizza l’idea e la prassi di una classe che da subalterna si è fatta classe dirigente. Poi, nell’oriente dell’Occidente, in un immenso paese solo, con la presa e l’esercizio del potere, si sperimenta il “che fare” di una classe diventata dominante. La costruzione difensiva si tramuta in progetto offensivo. Non si rivendica più. Si conquista. La classe operaia come ceto di governo ottiene la liberazione del lavoro, si propone la liberazione dal lavoro, e così porta avanti, verso la realizzazione finale, l’emancipazione di tutta l’umanità. Così stava scritto nella chiamata storica di una classe a “popolo eletto”. Qualcosa non ha funzionato. Magari, più di una cosa. La classe operaia è avanguardia di popolo, ma non è popolo, nel senso tradizionale che segna questa entità storica. Il concetto, antico, sacro, di popolo, come il concetto moderno, secolare, sono ambedue estranei alla composizione di classe, come si configura nel territorio della grande fabbrica capitalistica. L’operaio dell’industria sa che nessun Dio lo può salvare e sa che lui e i suoi compagni non hanno patria. Salario contro profitto e internazionalismo, i due campi di lotta. Un mito della classe operaia si è tentato di costruirlo, non elezionista ma emancipazionista, come abbiamo visto: questo sul piano generale. In contesti specifici - è accaduto in Italia - si è accreditata una funzione nazionale e la conseguente cura dell’interesse generale, cose del tutto estranee a quel punto di vista, per natura storica, necessariamente parziale. Nell’esperienza del socialismo realizzato a un certo punto si è passati alla liquidazione violenta della vecchia guardia operaista per impiantare una gestione popolare dell’economia e del sistema politico, con relativo mito sostitutivo della grande guerra patriottica. Alla domanda dunque se si possa applicare a una classe sociale il paradigma del popolo eletto, la risposta e che sicuramente non si è riusciti ad applicarlo alla classe operaia dell’industria moderna, l’unica che abbia avuto nelle sue mani, in un’epoca storicamente determinata, la risorsa escatologica della rivoluzione. Da questo punto di vista, si può tranquillamente affermare che l’altra classe della storia moderna, la borghesia, è stata fin da principio fuori gioco. E non è certo bastato ritrovare l’etica calvinista alle origini dello spirito del capitalismo, per chiamarla entro questo orizzonte. Le due classi antagoniste hanno avuto in comune il peccato culturale originale da cui non si sono mai redente: illuminismo più storicismo, la fede laica nella ragione e nel progresso. Rivoluzione operaia e rivoluzione conservatrice sono gli eventi d’epoca che hanno spezzato il cerchio. Di nuovo, Novecento. Solo quando, con la reazione antinovecentesca è stato chiuso il secolo, si è potuto tornare a dire: l’ordine regna nel mondo. Certo che anche l’ordine mondiale va in crisi, come vediamo. Ma, ecco la novità post-Novecento: senza più, in campo, volontà e forza necessarie per rovesciarlo. E anche questo vediamo.

Conclusione bizzarra di un discorso bizzarro. La classe operaia non poteva essere “popolo eletto”. Era, come forza-lavoro, parte interna di capitale, come merce, componente interna di mercato. Proprio per questo, minacciosa e determinante. Ma troppo immanente. Il paradigma elezionista ha bisogno di trascendenza. Se c’è una cosa aliena all’operaio di fabbrica è la vocazione all’al di là. Per cui giustamente è stato detto che la coscienza di sé, l’essere classe per sé, doveva essere portata dall’esterno. Su base operaia, allargata, poteva essere “popolo eletto” il popolo comunista. Ma allora il comunismo doveva essere, o diventare, non ideologia né utopia, ma escatologia profana, fede, “religiosa”, capace di “legare” insieme tutto il sociale escluso da una crescita umana, che l’immane sviluppo della ricchezza del mondo civilizzato depositava dietro di sé e sotto di sé. Qualcosa aveva intravisto il marxismo occidentale degli anni Venti, qualcosa il giovane Lukàcs, e Korsch, più di una cosa Bloch, e poi Benjamin, e Taubes, e Kojève: una costellazione di pensiero vissuto, rimasta ai margini della grande storia e che pure scavava come la vecchia talpa, ma più scavava e più si inabissava, toccando il fondo dei problemi, senza però portare alla luce le azioni. Il “popolo eletto” ha bisogno di profeti armati, distruttori/costruttori, lucida passione più grande politica. Via la vecchia Legge, avanti il nuovo Nomos. Oppure, non la Legge, ma lo Spirito. O Mosè o Paolo. Forse, alla fine del Moderno andava detto: non il mio e il tuo, ma il noi per tutti. O forse, è stato detto e non è stato fatto. La cima dell’albero di cedro è stata staccata, e però non è stata piantata. O forse non si sono trovati i monti alti e boscosi?

*Contributo presentato al convegno internazionale POPOLI ELETTI. Storia di un viaggio oltre la storia, organizzato dai Dipartimenti di studi umanistici, studi sull’Asia e sull’Africa mediterranea, studi linguistici e culturali comparati, svoltosi dal 27 al 29 Giugno presso l'università Ca Foscari di Venezia.

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