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Il comunismo, un giudizio riflettente sulla storia

Saša Hrnjez intervista Costanzo Preve

SAŠA HRNJEZ:Se partiamo dalla domanda che apre il progetto kantiano: “Come sono possibili i giudizi sintetici a priori?”, subito ci troviamo nel fulcro del problema gnoseologico (nonché ontologico). Insomma, questa domanda è molto di più di una gnoseologia (bisogna rinnegare, secondo me, i vari tentativi di ridurre Kant ad un teorico della conoscenza). Kant esprime infatti la domanda e l’esigenza di una sintesi, il che è una questione epocale (è l’epoca della rivoluzione francese e della dissoluzione di un vecchio mondo che cede il posto al mondo borghese - capitalista). Ecco, se il problema della sintesi nasce nel momento della crisi profonda di un sistema, il rapporto tra crisi e critica non è solamente di tipo etimologico, e dunque la critica trascendentale di Kant si può considerare come una risposta alla crisi sociale dell’epoca.

COSTANZO PREVE: Io sono completamente d’accordo a non ridurre Kant a pura gnoseologia, perché la riduzione del pensiero kantiano a gnoseologia pura è stato un fenomeno del neokantismo, corrente universitaria tedesca posteriore di 60 o 70 anni dopo la morte di Kant.

È vero però che le prime interpretazioni critiche di Kant, quelle di Fichte e di Hegel, aprivano già la strada a questa riduzione. Non dimentichiamo che, per esempio, Hegel chiamava il sistema di Kant empirismo trascendentale, come se fosse una sorta di Locke a priori. Fichte non si espresse mai in questi termini, però naturalmente l’incomprensione di Kant da parte di Fichte era legata al fatto che Fichte voleva fondare una metafisica, mentre invece quella di Kant era una sì una metafisica, ma puramente morale. Sono d’accordo sul fatto che il pensiero di Kant non debba essere ridotto a gnoseologia; il vero problema è vedere qual è il rapporto tra Kant e la sua collocazione storica. Secondo me il punto fondamentale è che Kant delegittima le pretese normative della metafisica, le quali al tempo di Kant erano le pretese legate all’assolutismo (non importa se illuminato o no).

Perciò Kant è un pensatore profondamente borghese, nel senso che la civiltà borghese aveva il bisogno di liberarsi dalla fondazione religiosa. In questo senso tutta la gnoseologia kantiana è un grande apparato di guerra contro la legittimazione religiosa. E naturalmente, però, il punto fondamentale è l’autonomia dell’uomo. Il rapporto fra Kant e l’idealismo è un rapporto duplice. Infatti, se da un lato l’idealismo rompe con Kant, dall’altro l’idealismo continua il processo kantiano di una fondazione autonoma del soggetto, per cui direi che la collocazione storica di Kant come pensatore della crisi è fondamentalmente quella di un pensatore strategico dell’autonomia borghese, la cui ricaduta, il suo fall-out, è anche l’autonomia del soggetto individuale e particolare.


SH: Ma questo rapporto tra il trascendentalismo critico di Kant e l’esperienza storica e politica dell’epoca non è soltanto esterno. Lo stesso Kant fa spesso riferimento alla politica e proprio nella sua Critica della ragion pura, ad esempio, parla di Hobbes e afferma che lo stato di metafisica è come uno stato di natura, cioè uno stato di eterna lotta tra posizioni contraddittorie, contro il quale bisogna istituire uno stato civile e legale sotto la padronanza della ragione. Kant infatti sembra molto coerente con il suo progetto “per la pace perpetua”, anche addirittura nel suo progetto di trascendentalismo critico: bisogna risolvere le contraddizioni e i conflitti.

CP: L’idea della pace perpetua nella metafisica è la fine del dibattito metafisico sulla base di un accordo razionale degli uomini sul metodo veritativo. Kant - come sai - distingue la certezza dalla verità; lui è, in fondo, interno alla rivoluzione filosofica compiuta dal Cartesio nel Cogito che riduce il problema della verità al problema della certezza, come poi disse anche Heidegger, che secondo me in un certo senso ha capito bene il nucleo del pensiero moderno. L’unico modo per risolvere le eterne lotte (kampflplatz) di posizioni metafisiche opposte è l’abolizione della metafisica nel senso tradizionale e la sua rifondazione su basi morali. Ora, io sono convinto che Fichte e Hegel abbiano su questo punto ragione contro Kant, perché il modo in cui Kant vuole liberarsi dalle dispute metafisiche è di fatto l’abolizione della metafisica, a meno che con il termine metafisica non si voglia intendere semplicemente la fondazione morale, che però a mio parere non è sufficiente.


SH: Riguardo alla fondazione morale della metafisica, Hegel muove una critica severa a Kant - esposta nella Fenomenologia dello Spirito, ad esempio, nelle sezioni “Spirito certo di sé” e “La visione morale del mondo” - ma per prendere le parti di Kant bisogna dire che nella sua impostazione c’è qualcosa di profondamente sovversivo. La separazione netta tra “Sollen” e “Sein” che dà alla libertà uno statuto di trascendenza noumenica, sicuramente crea problemi concettuali e pratici nella realizzazione della libertà stessa, ma d’altro canto tale separazione costruisce un punto permanente della negatività rispetto all’essere, cioè un punto di critica continua del reale. Perché, dal punto di vista della negatività del “Sollen”, ogni essere è sempre non-essere, cioè quello che non deve essere e può essere l’altro.

CP: Sono d’accordo sul fatto che lo spazio fra il Sein e il Sollen non sia puro spazio moralistico, ma uno spazio in ultima istanza ontologico. Così sono molto d’accordo nella lettura che Marcuse fa di Hegel in Ragione e rivoluzione, che è una lettura kantiana, perché Marcuse interpreta il rapporto fra il reale e il razionale come rapporto di coincidenza, ma in ultima istanza, come un rapporto di Mässigkeit, di adeguamento. E in questo senso Hegel si rivela molto più kantiano di quanto egli stesso pensasse. Perché, in realtà, l’identità tra il reale e il razionale per Hegel non è un’identità fattuale, ma processuale, un’identità da costruire. In questo senso la separazione fra Sein e Sollen, in un certo senso e in parte, verrà eredita da Hegel e Fichte. Quando Fichte separa l’Io e Non-Io, il Non-io, pur essendo una produzione dell’Io, non coincide con esso. E così in un certo senso l’eredità di Kant si manifesta in forma sotterranea e continua. Invece il neokantismo, a partire dal 1870 in poi fino ad Habermas, che io considero un neokantiano, interrompe questo legame fra Kant e Hegel, considerando Kant un pensatore moderno, e invece, paradossalmente, Hegel e Marx antimoderni.


SH: Ma Kant si può “difendere” anche in altri modi ...

CP: Secondo me Kant non deve essere tanto difeso quanto correttamente interpretato. Perché Kant attualmente è un pensatore molto presente nella filosofia universitaria, molto più di Hegel. La gran parte della filosofia universitaria, al di fuori degli analitici e postmoderni, è in vario modo kantiana. Perciò Kant non ha bisogno di essere difeso.


SH: Forse deve essere difeso dai kantiani?

CP: Sì, forse le prime persone da cui bisogna difendere Kant sono proprio i kantiani, i quali ne danno una versione positivistica, togliendogli l’aspetto, che non è soltanto un aspetto illuministico. Kant è stato un illuminista, però egli si apre ad una visione ontologica che però non persegue fino in fondo e che, sulla base della separazione tra noumeno e fenomeno, non può seguire fino in fondo. Ma il neokantismo elimina questa base ontologica, e riduce Kant unicamente o alla critica gnoseologica alla metafisica o al moralismo aprioristico.


SH: Tutte le accuse che vengono mosse a Kant cadono se lo riteniamo un ontologo della libertà. La mossa che fa Kant è sostanzialmente ontologica: ricondurre tutta la fenomenalità della vita pratica, tutte le istituzioni e gli atti pratici, a un unico fondamento che è quello della libertà. È una sorta di emancipazione ontologica, Kant aveva liberato la stessa libertà mettendola nella base di tutto il sistema.

CP: Questo è un modo di difendere Kant dai cattivi kantiani, ed è un modo per comprendere che fra il pensiero di Kant e l’idealismo successivo non c’è una rottura completa, ma c’è sempre un rapporto di Aufhebung, di superamento-conservazione. Sono profondamente convinto di questo.


SH: Allora se torniamo al tema della sintesi come concetto chiave di tutto l’idealismo kantiano, e non solo, bisogna dire che questa sintesi in Kant è ossessiva. È una continua ricerca che non soddisfa mai. Per di più, sembra che la ricerca ossessiva di una sintesi tra “Subjekt” e “Gegenstand” produca in continuazione nuove separazioni e nuovi dualismi (il sistema kantiano è pieno di termini binari). Col linguaggio psicoanalitico si direbbe che, proprio a causa dell’ossessione, l’incontro con l’oggetto del proprio godimento è rimandato all’infinito. Come in Kant, che evita sempre il momento di una risoluzione finale. Per dirlo con Žižek, per paura che la luce della Verità sia troppo abbagliante si continua ancora a sognare l’incontro finale con la Verità, senza alzare mai lo sguardo.

CP: Infatti secondo me il motivo fondamentale della critica di Hegel a Kant è proprio il fatto che questa sintesi dà luogo al cattivo infinito. È interessante che Hegel classifichi Fichte come kantiano sempre sulla base del cattivo infinito, per cui Hegel viene spinto dalla ricerca della determinazione, della Bestimung. L’ossessione di Kant è una sintesi interminabile, mentre un’ossessione di Hegel è la determinazione storica, spaziale e temporale precisa, che al mio parere è la metafora della comunità da ricomporre. Perché io sono convinto che Hegel sia un vero pensatore del comunitarismo, anche se non del comunitarismo marxista, senza classi. Però proprio l’ossessione kantiana di una sintesi che rimanda continuamente all’infinito interminabile, al noumeno, è stata la molla, cioè il motivo per cui Hegel sostituisce a quest’ossessione un’altra ossessione: la Bestimmung storico-sociale, secondo me in modo più corretto.

Filosoficamente parlando Kant è un pensatore ben poco greco, perché i greci secondo me erano estranei al problema della gnoseologia propriamente detta. C’è un certo modo di intendere Platone, Aristotele, epicurei, stoici che divide loro pensiero in etica, logica, etc., ma in realtà greci antichi non erano gnoseologi, perché non c’era bisogno di porre limiti a pretese di un monoteismo religioso che non esisteva. I greci non avevano il problema di porre un limite alle pretese della metafisica. Però Kant dai greci eredita il senso del limite, cioè il fatto che la filosofia e la conoscenza devono sapere porre i limiti a loro stessi. In un certo senso anche Hegel ha un senso del limite, perché quando parla di sapere assoluto non si riferisce un sapere che sa tutto, ma lo intende ab-solutus, cioè sciolto dalle determinazioni empiriche. Non bisogna mai dimenticare questo, perché c’è sempre un fraintendimento come se l’assoluto di Hegel fosse il sapere di tutto. Per cui in Kant c’è questa grande sensibilità nei confronti del concetto di limite che interviene positivamente rispetto a certe mitologie illuministiche del progresso che invece erano prive di questa sensibilità del limite.


SH: La stessa difficoltà si ritrova nella Critica della Ragion Pratica. Infatti, quando Hegel critica l’etica di Kant, la critica non perché questa sia autonoma, cioè autolegislatrice, ma per il fatto che non sia sufficientemente autonoma. Infatti in Kant ritornano gli momenti eteronomici, come il postulato di Dio e dell’immortalità di anima che hanno un ruolo notevole nella fondazione del morale. Ma così il soggetto morale fa fatica a fondarsi su se stesso, perché di nuovo fa richiamo a Dio e all’Anima. Quello che Kant aveva buttato dalla porta, gli rientra dalla finestra.

CP: Vuole fare una morale autonoma, e poi afferma che l’uomo è un legno storto, e in quanto legno storto chiaramente secolarizza il concetto di peccato originale. In Kant la secolarizzazione protestante è sempre in opera. È sempre in opera la celebre educazione pietista ricevuta dalla madre.


SH: Insomma, la libertà non è soltanto ratio essendi della legge morale, ma forse anche ratio essendi di tutta la legislativa del soggetto, cioè anche di quella teorica. Ad esempio, Richard Kroner, l’autore di “Von Kant bis Hegel”, sostiene che il filo conduttore del pensiero kantiano sia proprio la spontaneità che va intesa come concetto di libertà. La spontaneità è un vero inizio del sistema kantiano, ovviamente implicito.

CP: Penso sia una giusta interpretazione.


SH: E poi, ci sono alcuni esponenti della scuola iugoslava Praxis che mettono in rilievo il cosiddetto primato della ragion pratica dicendo che questa è già in opera nella prima Critica, in cui Kant non spiega altro che una produzione della natura (come dirà poi anche giovane Marx). La ragion pura teorica è quindi già di per sé pratica, produttrice. È però vero che così la terza Critica potrebbe passare in secondo piano.

CP: Io penso che i filosofi di Praxis volessero produrre un marxismo iugoslavo contrapposto a quello sovietico. Pertanto erano quasi costretti, per questa loro volontà soggettiva, di recuperare interamente la filosofia classica tedesca, non soltanto Hegel, ma anche Kant. Per cui secondo me in questo modo essi hanno fatto un passo troppo oltre. Volevano difendere Kant però, come ho detto, Kant non deve essere difeso, ma correttamente interpretato. Come filosofo del giudizio riflettente, della sintesi e dell’impulso libero-morale, è già interpretato bene. Si può a questo punto cominciare a vedere la differenza reale fra Kant, Fichte, Hegel e Marx. E Kant non può essere ridotto all’empirismo trascendentale, secondo una definizione un po’ ingenerosa di Hegel.

Personalmente sono tra quelli che pensano che la terza critica sia la chiave delle prime due. La scuola torinese di Abbagnano - Bobbio ha messo al centro la prima. Secondo me invece la terza critica è quella che spiega a posteriori le intenzioni della prima e della seconda critica.


SH: È interessante notare che nel testo “Der Streit der Fakultäten” Kant dice che la rivoluzione unisce la natura e la libertà. Ma questa unione è proprio ciò che Kant vuole fare nella Critica del Giudizio.

CP: Sono d’accordo nell’impostare le cose così.


SH: A proposito di ciò, tu prendi la teoria del giudizio riflettente kantiano per spiegare come pensare il comunismo - il comunismo come giudizio riflettente della storia. Questa tesi mi pare coerente con quello che dici sulla nascita aleatoria del capitalismo, cioè sulla base di una certa contingenza nella storia. Perché proprio nella terza Critica, che è giusto la critica del giudizio riflettente, Kant apre l’ambito della contingenza; ciò che sfugge nelle prime due Critiche che sono appunto le critiche della legislazione e del dominio. Ma proprio perciò - Kant afferma che la facoltà di giudizio non ha un dominio - lo stesso ambito di contingenza è l’ambito dell’indeterminato, o dell’indeterminabile. E pertanto se pensiamo all’idea del comunismo come un giudizio riflettente rischiamo di comprenderlo soltanto come promessa di un futuro sempre distante mentre la nostra realtà rimane uguale, cioè appunto indeterminata.

CP: Questo pericolo secondo me non può essere evitato, in quanto il Comunismo Storico Novecentesco - quello di Stalin, Tito, Mao e di Brežnev - è finito. È un episodio storico terminato e perciò fa parte del passato come il Romanticismo o come l’Illuminismo. Se invece il Comunismo viene interpretato nei termini della filosofia della storia deve essere espresso decisivamente in modo kantiano. Una volta che noi respingiamo il comunismo scientifico positivistico dedotto dalle leggi della natura, oppure il comunismo come uno sbocco teleologico necessario della storia messianica, a questo punto ci rimane soltanto un’apertura all’indeterminato. Ovviamente c’è un rischio, però questo rischio è una cosa da accettare. Perché l’idea di comunismo è riflettente e non determinante. Le Bestimmungen storiche sono sempre destinate ad essere superate o ad accadere in modo aleatorio, perciò questo rischio non può essere eliminato.


SH: Forse possiamo sviluppare questa tesi: il comunismo è un giudizio riflettente, ma purché la riflessione sia quella hegeliana, e non quella kantiana. Perché la riflessione hegeliana è allo stesso momento determinante.

CP: Sì, la riflessione hegeliana è determinante nella misura in cui è un’autoriflessione, si tratta sempre di un porre e un recuperare. Questa questione, teoricamente parlando, può essere intesa in questo modo. Il comunismo rimane sostanzialmente un giudizio riflettente sulla storia. È la determinazione provvisoria di questa riflessione intesa come autoriflessione, come autocoscienza. Direi che oltre non possiamo spingerci.


SH: Per rimanere sulla stessa linea del pensiero: Kant cerca nella Critica del Giudizio un accordo tra le facoltà e tra le facoltà e il mondo, e lo trova nel bello. C’è anche un altro momento, quello di sublime, che è segnato da un certo fallimento, dal limite della rappresentazione. Nel sublime abbiamo l’impossibilità di rappresentare l’infinito.

CP: Ecco, io penso che il sublime nella Critica del Giudizio corrisponde esattamente al noumeno della Critica della Ragion Pura ed alla santità nella Critica della Ragion Pratica. Kant rifiuta di abolire una distanza fra la realtà e la sua idealità. In questo senso il vero idealista è Kant, perché Kant rifiuta di abolire la distanza fra la realtà empirica e l’idealità. Ma questa sintesi non è mai definitiva. E dunque il sublime corrisponde al noumeno della prima Critica. Qualcosa c’è, ma l’uomo non l’attinge, se non come riflesso.


SH: Questa esperienza del sublime in Kant potrebbe essere accostata all’idea di comunismo? Cioè, un ideale di società libera e egualitaria si fa vedere, si fa trasparire come riflesso e mai come la piena realizzazione. Anzi, proprio una tale esperienza del sublime come esperienza negativa ci dice che una pienezza della società, una piena realizzazione sociale non è mai possibile. Sostanzialmente è sempre un’esperienza del limite.

CP: Io sono convinto che una pienezza della società non sia possibile, che si tratti di un mito della trasparenza frutto di una secolarizzazione messianico - religiosa. In questo senso la critica di Löwith è perfettamente giusta.

Ora, il Comunismo Storico Novecentesco in tutte le sue varianti è in realtà una forma di positivismo di sinistra, perché ha preteso d’innestare una teoria della teleologia messianica su una teoria delle leggi naturali. Alla fine questo è crollato e fa parte del passato. Non può essere in nessun modo rilanciato, fa parte di una stagione terminata. Se Kant, Hegel e Marx sono ancora vivi, questi fenomeni invece sono morti. Il marxismo come formazione ideologica positivistica è morto. L’ultimo Lukács ha intuito l’elemento ontologico, che secondo me è una grande conquista, ma ha cercato di riconciliarlo con la teoria del rispecchiamento, che secondo me non è conciliabile.


SH: Finiamo questa parte con un punto politico: la differenza filosofica tra il pensiero riformista e quello rivoluzionario (o chiamiamolo radicale). Un riformista politico rimane in linea di massima un kantiano che tende alla risoluzione dei conflitti, diciamo a una realizzazione ontologica della totalità sociale pacificata e perpetua, ma essenzialmente egli non crede che questa totalità sia realizzabile e la mantiene come principio regolativo che serve a risolvere problemi parziali, man mano progredendo verso qualcosa.

CP: “Il movimento è tutto, il fine è nulla”. Non a caso Eduard Bernstein è neokantiano.


SH: ... invece il pensiero rivoluzionario sarebbe quello che non vuole esorcizzare l’antagonismo e la tensione conflittuale intrinseca, ma sulla base di essa tende ai cambiamenti radicali. La totale realizzazione non è possibile, ma la differenza importante dal pensiero riformista è che questa impossibilità, questa “contraddizione oggettiva”, non è ciò che mina la totalità, ma al contrario, la costituisce. E grazie a questa incisione dell’impossibilità nella totalità sono appunto possibili i salti nella storia, i cambiamenti profondi, i capovolgimenti - tutt’altro che una soluzione parziale, graduale e riformista.

CP: Sono d’accordo, ma io penso che la dicotomia rivoluzione-riforma non possa essere applicata ai filosofi, perché un vero filosofo comprende i due termini dialetticamente. Ogni vero filosofo è un rivoluzionario, anche se magari può avere delle idee politiche riformiste. Il contenuto rivoluzionario di un filosofo è il suo rapporto con la verità. Anche Hegel era un riformista, ma la sua filosofia è rivoluzionaria. In alcuni casi il filosofo è anche soggettivamente rivoluzionario, come il primo Fichte.


SH: Anche il primo Hegel.

CP: Anche il primo Hegel. Direi che l’incompletezza del mondo è la comprensione fondamentale dell’intuizione di un vero filosofo, per cui il mondo non è mai compiuto. Bloch aveva una concezione corretta di utopia, perché il principio speranza portava sempre oltre e il mondo rimane incompleto.


SH: Ecco, questa compiutezza, la piena realizzazione di una totalità che dispiegandosi si chiude, è ciò che di solito si rimprovera ad Hegel. Ma, se pensiamo bene, un pensiero “riformista-kantiano” in effetti si avvicina maggiormente a favorire una “compiutezza” del mondo. Proprio per quell’avvicinamento asintotico, per la linearità del cattivo infinito percorsa nell’ossessione della sintesi senza una determinazione concreta, il reale rimane come è, cioè in tal senso compiuto, in quanto lasciato resistente alla forza del negativo.

CP: Perciò sono convinto che il vero maestro di Marx sia stato Hegel, e non Kant. Questa è la chiave per capire in che senso Hegel è il maestro di Marx.

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