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Mormorazioni nel deserto

di Paolo Virno

134151Il rapporto tra aspetti temibili della natura umana e istituzioni politiche è, senza dubbio, una questione metastorica. Per affrontarla, serve a poco evocare il caleidoscopio delle differenze culturali. Tuttavia, come sempre accade, una questione metastorica guadagna visibilità e pregnanza soltanto in una concreta congiuntura storico-sociale. L’invariante, cioè la congenita (auto)distruttività dell’animale che pensa con le parole, è messo a tema da crisi e conflitti contingenti. Detto altrimenti: il problema dell’aggressività intraspecifica balza in primo piano allorché lo Stato centrale moderno conosce un vistoso declino, costellato però da convulse spinte restaurative e da inquietanti metamorfosi. È nel corso di questo declino, e a causa di esso, che torna a farsi valere in tutta la sua portata antropologica il problema delle istituzioni, del loro ruolo regolativo e stabilizzatore.

Fu lo stesso Carl Schmitt a constatare, con palese amarezza, il tracollo della sovranità statale:

“L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine […] Lo Stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, sta per essere detronizzato”.

Lo sgretolamento del “monopolio della decisione politica” deriva tanto dalla natura dell’attuale processo produttivo (basato sul sapere astratto e la comunicazione linguistica), quanto dalle lotte sociali degli anni Sessanta-Settanta e dal successivo proliferare di forme di vita refrattarie a un “patto preliminare di obbedienza”. Non importa, qui, soffermarsi su queste cause o ventilarne altre eventuali. Ciò che conta sono piuttosto gli interrogativi che campeggiano nella nuova situazione. Quali istituzioni politiche al di fuori dell’apparato statale? Come tenere a freno l’instabilità e la pericolosità dell’animale umano, là dove non si può più contare su una “coazione a ripetere” nell’applicazione delle regole di volta in volta vigenti? In che modo l’eccesso pulsionale e l’apertura al mondo che caratterizzano la nostra specie possono fungere da antidoto politico ai veleni che essi stessi secernono?

Questi interrogativi rimandano all’episodio più scabroso dell’esodo ebraico: le “mormorazioni” nel deserto, ossia una sequenza di conflitti intestini di rara asprezza. Invece di sottomettersi al faraone o di insorgere contro il suo dominio, gli ebrei hanno messo a frutto il principio del tertium datur, cogliendo una possibilità ulteriore e misconosciuta: abbandonare la “casa della schiavitù e del lavoro iniquo”. Si inoltrano così in una terra di nessuno e, lì, sperimentano forme inedite di autogoverno. Ma il vincolo di solidarietà si indebolisce: cresce il rimpianto per l’antica oppressione, il rispetto per i compagni di fuga si rovescia repentinamente in odio, dilagano la violenza e l’idolatria. Divisioni, sopraffazione, calunnie, aggressività polimorfa: così si dà a vedere, alle falde del Sinai, “un essere che resta indeterminato, impenetrabile e ‘questione aperta’ quanto alla sua essenza” (sono ancora parole di Schmitt). La narrazione dell’esodo costituisce, forse, il più autorevole modello teologico-politico di oltrepassamento dello Stato. Perché prospetta la possibilità di minare il faraonico monopolio della decisione mediante una sottrazione intraprendente; ma anche perché, dando grande risalto alle “mormorazioni”, esclude che questa sottrazione abbia a proprio fondamento la naturale mitezza dell’animale umano. Una Repubblica non più statuale intrattiene un rapporto assai ravvicinato, e privo di veli, con l’innata distruttività della nostra specie.
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