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Joseph Schumpeter

La titanica impresa dell'innovazione

di Toni Negri

La figura e l'opera dell'economista austriaco sono ripercorse in un denso saggio di Adelino Zanini. L'immagine dell'imprenditore e il nodo da sciogliere del Politico nella prospettiva della crisi e del fragile e fluttuante rapporto tra capitalismo e democrazia

Sono cinque capitoli diversi, meglio, sembrano diversi ma rinviano ad un unico filo, un filo spezzato, nel senso che l'un capitolo rinvia ad un altro come su una scala sghemba. Il grande Joseph Schumpeter percorre un labirinto, a zig-zag, sperimentando, provando e facendo, di questo suo cercare, la teoria. Ma dove va? Questa la questione posta da Adelino Zanini nel volume Principi e forme delle scienze sociali. Cinque studi su Schumpeter (Il Mulino, pp. 205, euro 16).
Alla ricerca di un programma per le scienze sociali. Siamo all'inizio del secolo scorso ed in mezzo alla Methodenstreit: ci si chiede come causalità e/o innovazione, scienza e/o politica possano percorrere la storicità fluente del reale e, lì dentro, spezzandola ma al tempo stesso integrandola, fondare la scienza sociale - come ogni altro linguaggio scientifico. «Il dato non analizzato è muto». È la questione che da allora ha percorso tutto il ventesimo secolo e Schumpeter si muove in questa problematica dal suo inizio: coglie la molteplicità delle scienze sociali, dei loro metodi, guarda con attenzione ai mutamenti rapidi che subiscono ed allo statuto incerto che mostrano. Adelino Zanini nota che in questo cercare si sviluppa quasi l'invenzione (comunque una modalità) di «sociologia del conoscere» (Wissenssoziologie). Essa qui appare non come conclusione ma come condizione di una qualsiasi metodologia delle scienze sociali, al cui interno - non secondariamente - deve bilanciarsi la scienza economica.

È in questa luce conoscitiva che l'impressionismo fenomenologico, lo sperimentalismo radicale e la convivenza di metodologie diverse si ritrovano nello stabilire un terreno di ricerca compiuto. D'altra parte, è solo in questo modo che l'economia politica può liberarsi - sostiene Schumpeter - dagli aspetti giuridici ed istituzionali dentro i quali essa, nel mondo germanico, si era formata e configurata. (Non sarà la stessa operazione metodologica che dovremmo fare oggi dinnanzi all'«Europa-tedesca»?). È solo la combinazione dei vari fattori metodologici, recuperati nella realtà, che ci permette una «creazione» scientifica potente. Il futuro ha il cuore antico se è capace di stringere, andando oltre il grigiore della ripetizione, una conoscenza storicamente costruita di esperienze paradossalmente invariabili, dall'arbitrarietà, alla casualità ed all'imprevedibilità.


Il soggetto dello sviluppo

Ecco allora un primo scarto: se un centro costruttivo del sapere economico può nascere solo andando oltre il tessuto giuridico-istituzionale dentro il quale la Methodenstreit si era sviluppata, abbiamo bisogno di un'agente storico che scuota e rompa questa determinazione storica. L'imprenditore sembra poter rappresentare questo motore ontologico della/nella società capitalista. Il secondo articolo svolge variazioni sulla teoria dell'imprenditore, la segue in Franz Brentano, in Werner Sombart e flirta qui con Max Weber. Ma il punto di vista di Schumpeter è dall'inizio l'esaltazione di una potenza del tutto liberata, contro gli addomesticamenti ragionevoli che configurano, nei suoi contemporanei, l'idea di imprenditore. L'imprenditore è piuttosto un artista, nel suo agire c'è un edonismo che va oltre ogni ethos e/o volontà routinière, ma anche al di là di ogni piacere del possesso come del consumo.

Tutti gli economisti, e anche ogni intellettuale, riconoscono la figura dell'imprenditore schumpeteriano. Ma nella banalità di questa conoscenza risiede erroneamente una diffusa memoria nietzschiana piuttosto che la specifica intenzionalità teoretica di Schumpeter: quest'ultima vuole dar sostanza, pratica e costruttiva, all'attività creativa dell'attore economico e quindi andar oltre l'incertezza metodologica e le derive istituzionali e giuridiche che le condizioni delle scienze sociali offrivano all'economista. C'è un'ontologia specifica - molto astratta ma non meno efficace - che qui è in gioco. Schumpeter la rivendica a più riprese. La mia teoria, dice, «non ha affatto a che vedere con i fattori di mutamento, bensì con il modo in cui essi si impongono, con il meccanismo di mutamento. Anche l'imprenditore non è qui un fattore di mutamento, bensì il portatore del meccanismo di mutamento». Un'ontologia che spinge il metodo verso un quasi-marxiano processo di «astrazioni determinate» che colloca l'imprenditore nella sfera del denaro, nell'orizzonte monetario e considera l'innovazione continua del sistema economico come un processo sempre più spersonalizzato, creditizio e bancario, legato ad un paradossale general intellect capitalistico.

Nuovo scarto, nuovo passaggio ad un reale più vero, alla teoria delle classi (e subordinatamente - ma qui non possiamo parlarne - all'esperienza dell'imperialismo). Schumpeter va in cerca di una verifica della sua teoria dell'imprenditore, della performatività della sua attività confrontata alla composizione sociale e politica della civiltà borghese. Ma questa civiltà è in crisi. Essa ormai ha sempre più bisogno dell'irruzione di una potenza viva per ricomporsi, l'urgenza di sintesi forzose. Evento del politico? Talvolta sembra di udire da Schumpeter parole che Lenin esclama quando eccita le capacità creative del partito di classe: solo che nei due casi si parla di classi diverse...


Il nemico interno

Quanto a Schumpeter, egli conosce bene i suoi polli, sa quanto sporco (ed ineluttabile) può essere il politico nella crisi dello Zeitgeist borghese: in quel «resto» che la crisi rivela, c'è dell'atavismo, c'è un senso del potere che non vuole riconoscere altro da sé, né tempi, né modi, né intelligenza, né soggetti. Probabilmente qui finisce quell'imprenditorialità che sola, nella sua figura creativa, aveva onorato il capitale nel suo sviluppo. Su questo limite storico, «il capitalismo - scrive Schumpeter - anche quando sia economicamente stabile, e addirittura accresca la sua stabilità, crea, razionalizzando la mente umana, una mentalità e uno stile di vita incompatibili con le sue stesse condizioni fondamentali, con i suoi movimenti e le sue istituzioni sociali».

Va forse qui aggiunta una notazione che vale per il presente. Analizzando il passaggio economico-politico, Schumpeter nota come la tendenza generale del capitalismo costringa all'unità composizione tecnica e composizione politica dello sfruttamento. Ma «le difficoltà che insidiano questo cammino devono essere chiaramente comprese. La nostra argomentazione potrebbe essere intesa nel senso che i processi economici e quelli "politici" sono esattamente modellati l'uno sull'altro. Al contrario, le discrepanze tra i due sono tra i più importanti fattori esplicativi della storia umana». Quante volte, dal punto di vista delle moltitudini proletarie, abbiamo colto questa discrepanza! Non sta a noi ritrovare la sintesi: anzi... non si preannuncia piuttosto, proprio in questa differenza, l'insorgenza rivoluzionaria?

Troppo facile, tuttavia, chiudere in una qualsiasi sorta di spenglerismo tragico il discorso di Schumpeter. Altro scarto nella narrazione di Zanini. Che cos'è, pur data questa crisi di sviluppo (che è anche crisi di umanità), il futuro del capitalismo? Lungi dalle derive pessimistiche e dalle fantasie «destinali» che caratterizzano la cultura tedesca dell'emigrazione americana, Schumpeter svilupperà (negli States dove termina il suo insegnamento) la sua analisi del capitalismo in senso democratico. C'è una sussunzione della società nel capitale - egli insiste - e questa sussunzione capitalistica si svolge - nella crisi sistemica - togliendo definitivamente all'imprenditore la sua capacità creativa. È una vera e propria patologia del capitalismo quella cui assistiamo. Di contro, nel 1942 Schumpeter pubblica il suo libro sulla democratizzazione del capitalismo: se il capitalismo è entrato nella fase di «sussunzione reale» della società in termini capitalistici, e tale sussunzione si dice «socializzazione», come render democratica questa socialità? Eccoci qui, prima di tutto, a fronte di una pesantissima critica della proprietà privata. Puro fenomeno ideologico, ormai, essa non si trova ad avere più senso laddove la realtà dello sviluppo consiste ormai nella massificazione dei processi produttivi e distributivi. La guida del sviluppo, se vuol esser democratica, non potrà quindi darsi che in maniera pianificata: «la proprietà smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista non imprime né suscita fedeltà morale, come invece faceva la forma vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà più nessuno al quale prema veramente difenderla - nessuno all'interno e all'esterno dei confini delle impresi giganti». Solo la pianificazione può difendere la democrazia e la burocratizzazione diventa (weberianamente) elemento indispensabile della democratizzazione della società capitalista.


Processi discontinui

Torniamo alla sociologia della conoscenza: nell'ultimo capitolo Zanini produce di nuovo quello scarto che aveva al principio promesso. Nel rapporto tra razionalità e ideologia, volendone evitare l'immedesimazione, Schumpeter torna definitivamente ad insistere sull'indeterminismo del metodo. Egli è qui al bordo di una conclusione della sua opera che risuona una periodizzazione alla Kuhn, salvo che in Schumpeter il pensiero dell'innovazione è sempre discontinuo, intensivo e ontologico piuttosto che storiografico e narrativo. Solo una scienza può dunque permetterci di uscire dall'indeterminatezza del reale, ma questa scientificità non sarà mai più che la sigla, ovvero la qualificazione funzionale di una cassetta di attrezzi. Un neokantismo brutalmente materialistico, dunque, questo di Schumpeter? Oppure la pesante rivendicazione (quasi-scettica) di una scienza che non possa risolversi in altro che in approssimazioni, una volta demistificate ed esaurite le grandi alternative presentate dagli eroi eponimi Savigny e/o Schmoller, Menger e/o Weber?

Qui siamo arrivati. A questo punto, secondo Zanini, Schumpeter ha bisogno di una filosofia politica. Ma di quale filosofia politica? A me sembra che Schumpeter, nella lettura di Zanini, ci abbia portato fino alla soglia di un pensiero dell'attualità che esalta il «punto di vista» dell'osservatore, di un «sapere situato» in un'ontologia storica determinata: questo è un forte scarto dall'ortodossia non solo economica ma delle scienze sociali. Ma questo scarto rispetto al sapere della scienza economica e delle scienze sociali non riesce ancora a porsi in una prospettiva metodologica che muova «dal basso». Zanini lo aveva già segnalato nel capitolo dedicato a Schumpeter della sua Filosofia economica (Bollati Boringhieri). Ma soprattutto ce lo aveva fatto capire quando, lungi da Schumpeter nel suo «Invarianza neoliberale», ultimo capitolo del suo L'ordine del discorso economico (ombre corte), egli aveva alluso ad una foucaultiana metodologia delle scienze sociali che potrebbe davvero ora esser ripresa come conclusione di questo studio su Schumpeter.

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