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Walter Benjamin. Una costellazione che brilla di nuova luce

di Paolo B. Vernaglione

Giorgio Agamben, sprofondato per anni nello studio del pensiero e dell’opera di Walter Benjamin, porta alla luce il senso storico dell’opera dell’autore dei Passagen. In anni di ricerche, nel paziente lavoro archeologico di documentazione e restitutio in integrum del pensiero del più importante e necessario critico e teorico del materialismo, si dispiega una ragione costruttiva dell’intero testo vivente che costituisce l’opera di Benjamin. E’ il risultato di una scrupolosa e ahimè oggi non praticata documentazione e ricostruzione filologica dell’opera che ha condotto Agamben a ritrovare un significato eccedente ogni qualificazione del Benjamin “già edito”.

Come il pescatore di perle di arendtiana memoria, il cristallo di rocca generato da questa cura si chiama Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (Neri Pozza, €. 23,00), ed è quel capitolo del libro su Parigi, capitale del XIX secolo che, inizialmente pensato come una delle sezioni dei Passagen, diviene il testo incompiuto, di cui i Passagen sono lo schedario.

Questo testo, curato da Agamben insieme a Barbara Chitussi e Clemens-Carl Harle, con le preziose traduzioni anche di Giovanni Gurisatti, Massimo De Carolis, Antonella Moscati e Francesco Porzio, rovescia allora la vulgata da tempo consolidata che attribuisce ai Passagen il carattere di opera definitiva e non finita su Parigi, di cui il saggio su Baudelaire non sarebbe che uno dei capitoli.

Le conseguenze della scoperta sono facilmente apprezzabili e di grande portata, per almeno due ragioni, peraltro connesse: la prima è che il saggio su Baudelaire, in quanto testo autonomo in cui culmina l’intera stesura dei Passagen (“un punto di fuga” scrive Benjamin ad Horkheimer) modifica, rovesciandolo, il senso fin’ora attribuito alle edizioni italiane degli scritti di Benjamin. Disdice soprattutto la finalità commerciale con cui di recente sono stati ripubblicati saggi e collazioni di materiali, più o meno adattati alle esigenze del mercato.

La seconda è che il saggio su Baudelaire consente di conoscere il metodo di lavoro di Benjamin, in cui è possibile individuare una filologia materialista quale motore interno del pensiero, come modo di produzione poetico e teorico che ricolloca l’opera di Benjamin in uno spazio e quindi in un senso diverso da quello fin’ora attribuitole da una prevalente interpretazione, che assegna agli scritti un ruolo soltanto documentario –  di cui la fase costruttiva sarebbe diretta e necessaria conseguenza. Non è così, come Agamben ha dimostrato nella presentazione del “Baudelaire” all’Auditorium di Roma. Il saggio che sarebbe dovuto diventare il testo principale dell’opera su Parigi, diviene tale in un lavorìo continuo in cui, come Benjamin spiega nelle lettere ad Horkheimer la materia documentaria via via assume forme diverse e si plasma essa stessa in successivi profili, per assumere la figura concreta di testo teorico-poetico.

Ciò significa che in un interno movimento e non assumendo dall’esterno forme diverse, la documentazione si dispone per la costruzione. Così l’opera degli ultimi anni di vita di Benjamin corrisponde a quel “modello in miniatura” che egli aveva immaginato per il saggio su Baudelaire, rispetto al quale lo schedario costituito dai Passagen, è documentazione ordinata, non testo definito, tantomeno opera indipendente.

In questa costellazione composta da documenti e testo costruito, griglia ordinativa e testo realizzato, si dispone il work in progress, un’opera incompiuta che revoca in dubbio contemporaneamente sia il concetto di opera che quello di forma distinta dalla materia.

Di opera, perché il “non finito” del saggio su Baudelaire risulta essere l’atto costituente, la signatura, del lavoro di Benjamin, il suo modus operandi, frainteso da Adorno, che interpreta la teoria del montaggio come scontro dialettico tra materiali eterogenei; mentre si tratta di un’operazione tutta interna alla materia scritto-documentaria che ne attua la costruzione.

Di forma, perché è nella materia che le forme si trovano, o meglio è nel continuo mutamento della materia che le forme via via assumono il profilo e la qualità che produce il significato di un testo. Ciò significa che la composizione del testo dice il suo significato e che la forma assunta dal Baudelaire è il suo senso, che l’incompiutezza del saggio rivela la forma del capitalismo avanzato, il suo senso, alla fine del XIX secolo.


Quanto una filologia materialista presieda alla costruzione di un’immagine dialettica, è testimoniato da Benjamin nel concetto di “costellazione” in cui passato e presente si cristallizzano in un tempo-ora che realizza sia la possibilità di una temporalità integra, sia la chance rivoluzionaria. Ciò che dunque il saggio su Baudelaire enuncia è la realizzabilità della prassi, che sia letteraria o teorico-politica, a partire da un intreccio inestricabile di documentazione e “reticolo graduato” della costruzione, materiale documentario e ordinamento schematico, fatticità e armatura teorica impiegata.

Ma c’è, nel metodo di Benjamin, un nucleo segreto, che inerisce immediatamente alla ricerca compiuta da Agamben. Quell’intreccio, in cui il divenire del work in progress si presenta al contempo come compiuta incompiutezza, indica una corrispondenza, nel tempo, tra autori, critici e campi del sapere in cui la ricerca si esercita, corrispondenza che, a partire da Baudelaire, dalla sua epoca e dalla sua poesia, è ancora più preziosa forse, dello stesso risultato dello scavo filologico, o almeno di pari valore. Si tratta di quelle corrispondenze segrete tra opere e genealogisti del sapere, tra fatti di scrittura e soggetti che le studiano, cioè di quelle corrispondenze che Benjamin indicava come l’indice più probante di veridicità e di attribuzione di senso ad un testo e allo studio di un autore, un filosofo, uno storico. Si tratta di quel momento in cui il ricercatore, il critico, il genealogista vengono riconosciuti dal testo, e forse dal suo autore. Essi sono attesi, afferma Benjamin in una delle Tesi di filosofia della storia (anch’esse materiale per il Baudelaire, non scritto autonomo come invece si ritiene), affinchè il passato non scritto dei soggetti dei conflitti sociali sia redento.

Ma, ancor prima, e invariabilmente intrecciato ad un evento collettivo di risarcimento, in un dato momento storico si stabilisce una segreta corrispondenza tra un autore e un esegeta, tra la soggettività espressa in un’opera e un soggetto al lavoro su quell’opera, come nel caso di Benjamin con Baudelaire e come, oggi, nel caso di Agamben con Benjamin. Se infatti solo in un determinato presente, un autore, una scrittura, un pensiero del passato assumono leggibilità e possono essere compresi, ciò accade perché quella materia, quegli autori, chiedono con urgenza di essere indagati, letti, interpretati. Chiedono cioè che una corrispondenza, che eccede l’opera, si stabilisca tra chi ne fa ricerca e chi l’ha prodotta. E questa corrispondenza segreta, di cui Baudelaire aveva fatto esperienza nell’epoca del capitalismo avanzato –  di cui anche noi facciamo esperienza di crisi, non si realizza per magia, bensì grazie a quella scienza naturale e archeologica del sapere che trova nella filologia il suo strumento d’indagine.

Nel ricordare ciò Agamben narra della personale “esperienza Benjamin”, che, alla luce della segreta corrispondenza realizzatasi nello scavo della sua opera, rende chiaro il senso stesso della ricerca. L’impersonarsi dell’autore nel critico, quell’evento imprevisto, immediato e sorprendente in cui una lunga, faticosa e puntigliosa attività critica, guadagna in un istante un tesoro inestimabile (e che separa definitivamente, in quel momento comune, l’opera e il pensiero dell’autore e del ricercatore dall’attuale insopportabile esegesi discorsiva); quell’evento non è questione di volontà, capacità, erudizione, bensì della possibilità di essere attesi nel passato, da un’epoca, da un autore, da un testo che, nell’incontro con il presente si sciolgono in quanto testo, autore, opera.

Per il tempo-ora del presente, in cui convivono figure del passato e potenzialità del soggetto, in cui un campo del sapere viene illuminato all’improvviso da anni di studio, e in cui dalle profondità del tempo emerge la sua struttura ordinativa, in quel tempo-ora le corrispondenze mostrano tutto il loro valore, che consiste nel produrre una continuità, nel riprodurre una vita passata nel “pleroma” dei tempi, nella pienezza di un presente carico di segni di quel passato che chiede di essere redento. Ciò significa anche che non a tutti accade di essere in corrispondenza con opere, intenti, esistenze già da sempre trascorse; tuttavia ciò può sempre accadere, a patto che la supposizione teorica, lo studio, l’armatura ordinativa, non presieda all’operare del pensiero, non sia separata dalla materia da indagare, ma risieda in essa.

A condizione dunque che la materia documentaria non sia determinata da un’armatura teorica che la sopravanza e che voglia subordinarla. A patto insomma di non pretendere di “farsi tornare i conti” rispetto ad una molteplicità eterogenea che non potrebbe mai restituire un profilo compiuto.

D’altra parte una teoria compiuta, ancor più se dev’essere materialista, non può negare il documento, sopprimendone l’ambivalenza, che è anche il suo potere costruttivo. Anzi, è solo accettandone in pieno e fino in fondo le contraddizioni, le ambiguità, l’incompiutezza, che una teoria, un’armatura ordinativa, una teoria materialista vive nel presente.

Il metodo genetico con cui Agamben “ricerca” Benjamin mantiene l’istanza irriducibile dell’incompiutezza del saggio su Baudelaire nel reticolo di corrispondenze che formano la costellazione in cui si realizza oggi il capitalismo. Per leggere il quale dunque non bastano né una prassi politica annegata nella scadenza eventuale, scadenza cui bisogna rispondere con un’analisi teorica adeguata; né un’armatura teorica nella cui griglia ordinativa ogni fatto si colloca e a cui il presente corrisponde. Si tratta invece, nella ricerca al pari che nell’attivismo, di operare con i fatti, di far vivere gli eventi come documenti, tracce, indizi, sintomi di un’archeologia del sapere e dei poteri e come un’archeologia del sapere dei poteri, in cui il capitalismo esprime la propria forma. Perché non in tutte le epoche si realizza la composizione di un’archeologia del presente e di un’ontologia del passato. E’ invece nel capitalismo che un certo rapporto di produzione e soprattutto certe forze produttive, vissute nella precarietà, sono impregnate di quell’ésprit du temp in cui si realizza contemporaneamente la più dura contingenza della fatticità e il più puro modello intemporale del governo delle vite. E come questo intreccio di storia e metastoria produce debolezza, frammentazione, miseria del presente e impotenza di ricomposizione, così fa segno anche verso una chance rivoluzionaria che proviene dagli attuali rapporti di produzione, poichè la mobilitazione integrale delle facoltà psicofisiche trova un ostacolo nelle catene del lavoro subordinato e del controllo dello Stato.

Un’archeologa del presente dunque consente di ricavare un senso dalla crisi del capitalismo, in cui i saperi del passato vivono in stato d’eccezione permanente, in una mobilitazione continua in cui vengono manipolati, distorti, drammatizzati, sia pure “a fin di bene”. Per contrastare questa dinamica, per fare in modo che si realizzi un cambiamento radicale del modello capitalista di sviluppo, forse bisogna immaginare una politica genealogica, alla ricerca di corrispondenze che avvengono, di frammenti di prassi che si connettono, di relazioni duali tra eventi (di rivolta o di aggregazione) in cui si riconosca un movimento che dall’interno della materia e nell’incompiutezza dei fatti, elabori una forma, costituisca una soggettività, generi un processo di individuazione. E, con le parole di Benjamin, ciò potrebbe accadere a condizione di “cominciare da capo; cominciare dal nuovo; cavarsela con poco”.

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