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Considerazioni eretiche sul dialogo tra scienza e religione

Astro Calisi

Il recente scambio di corrispondenza tra Joseph Ratzinger e Piergiorgio Odifreddi, seguito a breve da quello tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, ha riacceso l’interesse sul dibattito tra scienza e pensiero religioso.

La novità di maggior rilievo (almeno così sembrerebbe) è rappresentata da un mutato atteggiamento delle parti in causa nel considerare seriamente le ragioni della parte avversa. Finora, infatti, il confronto era avvenuto, apertamente o in maniera più o meno nascosta, con l’intento di riaffermare orgogliosamente la propria posizione, rimanendo sostanzialmente ciechi e sordi alle argomentazioni altrui. Qualsiasi dibattito ha infatti senso se presuppone la disponibilità di ciascuno a valutare con la dovuta attenzione tesi e problematiche diverse rispetto a quelle che contraddistinguono la propria posizione.

È presto per dire se questo mutato clima rappresenti una svolta durevole, capace di avere delle ripercussioni importanti sul rapporto tra scienza e religione, oppure se sia destinato a esaurirsi nel giro di pochi mesi. In ogni caso, credo valga la pena cogliere l’occasione per porsi delle domande circa l’utilità e i possibili sbocchi di un simile confronto.


Non c’è dubbio che la visione scientifica del mondo e quella della religione siano profondamente antitetiche. Non mi sembra esagerato dire che, per molti aspetti, esse si escludono a vicenda. Tant’è vero che la prima si è affermata, nell’arco degli ultimi quattro secoli, erodendo progressivamente spazi alla seconda. È allora immaginabile una modalità di confronto che non sia del tutto sterile, che non si riduca cioè a un vuoto parlare tra posizioni che, per loro natura, non possono in alcun modo dar luogo a una qualche forma di integrazione, di sintesi, o comunque non sono in grado di interagire in maniera costruttiva tra loro? Cosa è ragionevole attendersi da un confronto, aperto e senza preconcetti, tra scienza e religione? E quali temi dovrebbe privilegiare affinché possa essere proficuo, se non altro schiudendo nuovi orizzonti alla riflessione?

Scorrendo gli argomenti affrontati nel citato scambio di opinioni tra pensiero religioso e pensiero ateo, vediamo che si sono toccate questioni importanti, come il problema della distinzione tra il bene e il male per i non credenti, il ruolo della Chiesa nella società moderna ecc. Ma non si è neppure sfiorato l’argomento chiave, l’aspetto di maggior conflitto che – a mio avviso – contrappone la scienza alla religione. Intendo riferirmi alle concezioni della realtà di cui esse sono portatrici, che appaiono del tutto inconciliabili: l’una ritiene che si possa dar conto in maniera esaustiva di tutto ciò che accade nel mondo e in noi stessi richiamandosi alle leggi di carattere universale che governano la materia; l’altra, pur essendo giunta, non senza aver opposto notevoli resistenze, a riconoscere la capacità della scienza di spiegare i fenomeni del mondo inanimato, crede che l’uomo e la sua esistenza si pongano, almeno per alcuni aspetti, al di là delle possibilità dei modelli esplicativi della scienza stessa.


Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che il mondo prospettato da quello che i filosofi chiamano naturalismo scientifico è un mondo che non ha bisogno di creatori, di princìpi trascendenti, di finalità di ordine superiore o di tendenze intrinseche per nascere e continuare ad esistere nelle sue diverse forme o comportamenti e per essere compreso in maniera esaustiva. È un mondo che ha al suo interno tutto ciò che occorre per poter “funzionare” ed eventualmente evolvere verso nuovi assetti e nuove modalità comportamentali. Mentre il mondo della concezione religiosa è, sì, retto da leggi impersonali, le quali sono tuttavia viste soltanto come una delle componenti della realtà. In una simile concezione, soprattutto l’uomo si distingue dal mondo che lo circonda in quanto si considera costituito da una doppia identità, fisica e spirituale: il suo corpo materiale, soggetto alle ordinarie leggi che muovono gli oggetti e gli eventi della natura, e l’anima, dotata di proprietà assolutamente peculiari e che sopravvive alla morte e al disfacimento del corpo.


Il punto principale di scontro tra il pensiero scientifico e la fede religiosa è dunque la possibilità o meno di comprendere tutto ciò che avviene attorno e dentro di noi facendo riferimento soltanto agli aggregati materiali e ai relativi comportamenti che possono essere rilevati tramite i nostri sensi, eventualmente supportati da opportuni strumenti e tecniche di osservazione.

La scienza ha fatto di questa possibilità il presupposto fondante di ogni sua espressione, sia a livello teorico che a livello metodologico. La religione nega invece questa possibilità, rivendicando l’esistenza di enti e divinità posti in una dimensione extrafisica, i soli che permetterebbero di dare un senso all’esistenza dell’uomo, oltre che a costituire un elemento necessario per spiegare in maniera convincente alcune particolari caratteristiche e capacità dell’uomo stesso. Aprire un dialogo tra concezioni tanto distanti appare un’impresa assai ardua, se non disperata. Non si riesce infatti a scorgere un punto, sia pur lontano, sia pur confuso, dove esse possano in qualche modo incontrarsi.

Questo però accade finché si considera la questione del rapporto scienza-religione all’interno di una delle due concezioni del mondo che dicono di volersi confrontare, finché si assume come inevitabile che si debba scegliere come riferimento i princìpi dell’una o dell’altra. Proviamo a porci – per quanto consentito dalle categorie concettuali a cui, nostro malgrado, siamo costretti ad appoggiarci – in una posizione esterna ai due sistemi. Non diamo nulla per scontato, di definitivamente acquisito. Coloro che si muovono all’interno della visione scientifica della realtà dovrebbero allora essere disposti a mettere in discussione la capacità degli attuali modelli di spiegazione naturalistica di fornire tutte le risposte di cui abbiamo bisogno; i religiosi, da parte loro, dovrebbero avere il coraggio di prendere in considerazione l’ipotesi che le loro convinzioni, basate per lo più su verità “rivelate”, possano contenere degli errori, delle imprecisioni, o vadano comunque interpretate in maniera differente rispetto alle posizioni ortodosse.

Si tratta di una richiesta “enorme” per ciascuna delle due parti in causa, la quale non può che avere come reazione immediata, quasi istintiva, quella del rifiuto. È comprensibile, da un punto di vista psicologico, che ciò accada. Ma è una richiesta indispensabile per un confronto autentico, l’unico in grado di condurre a risultati di qualche interesse. Esistono delle ragioni obiettive per cui la scienza e la religione dovrebbero rinunciare alle loro granitiche certezze, prendendo in considerazione, almeno in via ipotetica, l’idea che i rispettivi sistemi non siano capaci di cogliere adeguatamente tutti gli aspetti della realtà, o li colgano in maniera incompleta, distorta o addirittura errata?

Credo che a una simile domanda si possa rispondere affermativamente.


Per quanto riguarda la scienza è indubbio che essa abbia avuto un successo straordinario, neppure lontanamente paragonabile a quello ottenuto dagli altri sistemi di pensiero elaborati dall’uomo nel corso della sua storia. Non mi sembra però del tutto fuori luogo osservare che tale successo ha riguardato soprattutto i fenomeni del mondo inanimato. Quando ci si allontana da tale contesto, i risultati, pur se apprezzabili, si rivelano in genere più modesti. La teoria dell’evoluzione, per esempio, viene presentata come una svolta radicale e definitiva nella spiegazione dell’origine e dello sviluppo delle forme viventi. Non si può escludere che essa sia corretta e costituisca realmente l’ultima parola su questo argomento. Tuttavia, ad oggi, a più di 150 anni dalla sua enunciazione, tale teoria, anche nelle sue espressioni più avanzate, è ben lungi dall’aver chiarito tutti gli aspetti del processo evolutivo; si direbbe, anzi, che col passare del tempo i problemi aumentino piuttosto che diminuire.1

Le difficoltà maggiori si incontrano però quando ci si rivolge al campo dei fenomeni mentali, che possono essere considerati l’espressione più elevata della vita sul nostro pianeta. Qui, malgrado l’ottimismo ostentato dalla maggioranza dei ricercatori che operano nel campo delle neuroscienze, malgrado gli annunci trionfalistici che compaiono di tanto in tanto sulle riviste specializzate, la verità, nuda e cruda, è che ciò che chiamiamo “mente” continua a sottrarsi alla nostra comprensione. Ciò vale in particolar modo per il fenomeno della coscienza, così centrale nell’esistenza di ciascuno di noi, eppure tanto sfuggente non appena si cerchi di ricondurlo alla sua base materiale più ovvia: l’attività nervosa che ha luogo nel cervello. Le caratteristiche della coscienza, con la loro indubbia componente di creatività e di autonomia, si presentano infatti in aperto contrasto con tutti gli oggetti e i fenomeni del mondo fisico che ci circonda, e di conseguenza con i modelli concettuali su cui si fonda la scienza.

Non è questa la sede per approfondire simili argomenti, che del resto presentano tante di quelle sfaccettature da rendere estremamente laborioso un resoconto puntuale e organico. Quel che qui interessa sottolineare è che, quando ci si sposta dal campo degli oggetti e dei fenomeni del mondo inanimato a quello degli organismi viventi e delle loro facoltà superiori, le tradizionali categorie scientifiche appaiono quanto mai inadeguate per affrontare i relativi problemi.

Cosa si può dire delle certezze che contraddistinguono i sistemi religiosi? A differenza della scienza, caratterizzata da un duplice fattore autocorrettivo, – il rifiuto delle contraddizioni logiche al proprio interno e il confronto delle affermazioni via via prodotte con il dominio dei fatti empirici, – le religioni considerano le loro verità come assolutamente certe, e quindi immutabili, definitive, in quanto emanazioni dell’Assoluto, per definizione non suscettibile di errore e di cambiamento. Per le religioni, l’adesione cieca e senza condizioni alle idee di cui sono portatrici costituisce un valore: si chiama fede. Specialmente nel cattolicesimo la fede viene esaltata in modo esplicito come virtù da coltivare. Credere senza porsi domande, senza dare spazio al dubbio, persino senza capire, è visto come un comportamento altamente meritevole. Oltre un certo limite, il dubbio, coltivato con eccessiva compiacenza, può addirittura divenire colpa.

L’idea di fondo è che la ragione debba sottomettersi alla verità rivelata, la sola che sarebbe lecito considerare esente da errori. Eventuali incongruenze e problemi che essa suscita in noi vanno imputati unicamente ai limiti della ragione umana e pertanto non devono mai essere giudicati così importanti da mettere in discussione i princìpi basilari della propria religione.

Per chi guardi i sistemi religiosi dall’esterno, uno dei problemi più seri e immediati è il seguente: se le verità religiose vengono ritenute dai loro sostenitori valide oltre ogni ragionevole dubbio, come si concilia l’esistenza di tante religioni, col loro specifico bagaglio di “verità” e con la pretesa di ciascuna di essere l’unica depositaria della rivelazione divina?

Tale problema non sembra preoccupare affatto coloro che aderiscono alle diverse fedi, ma certo esso non può lasciare indifferente qualsiasi persona dotata di buon senso che guardi le religioni dal di fuori. Si tratta di una evidente contraddizione che, unitamente alla considerazione che l’esistenza di entità spirituali postulate dalle religioni si trova in conflitto con i più elementari canoni scientifici, spinge moltissime persone ad abbracciare posizioni più o meno apertamente atee.

Per quanto mi riguarda, credo che il rifiuto, netto e senza compromessi, di ogni credo religioso per rivolgersi alla concezione del mondo promossa dalla scienza sarebbe pienamente giustificato soltanto se quest’ultima si mostrasse in grado di soddisfare i più importanti bisogni dell’uomo e di dare risposte convincenti almeno alle domande che riguardano il piano conoscitivo.

Ancora agli inizi del secolo scorso si credeva che la scienza avrebbe portato pace e benessere per un numero via via crescente di persone. La tragedia delle due guerre mondiali, con decine di milioni di morti, con immani distruzioni, il perdurare delle guerre civili e dei conflitti nel mondo, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ha mostrato con chiarezza che non è affatto così. Oggi sono in pochi a pensare che la scienza sia in grado, da sola, di migliorare le condizioni di vita per tutti gli uomini, di cancellare le guerre dalla faccia del pianeta, di far sì che le risorse disponibili siano distribuite in maniera equa tra le diverse nazioni e tra coloro che le popolano, in una parola, di realizzare il cosiddetto “paradiso in Terra”, in questa vita, invece che lasciare che la maggioranza degli uomini continui a sperare nel paradiso promesso dalle religioni, in una ipotetica vita, nell’aldilà.

D’altra parte, praticamente tutti gli scienziati si mostrano convinti che il modello di spiegazione scientifica abbia in sé la capacità potenziale di dar conto di tutto ciò che esiste e si muove nell’universo, esseri umani compresi. Le difficoltà che ancora si incontrano in alcuni campi, come ad esempio quello legato ai fenomeni mentali, vengono in genere attribuite a un limite temporaneo, superabile in tempi medio-lunghi con un ulteriore sforzo teorico e tecnologico senza che ciò comporti la messa in discussione dei presupposti di fondo su cui si basa detto modello. Il pensiero scientifico si è emancipato da quello religioso, distinguendosi nettamente da esso, ritagliandosi un proprio spazio nel mondo fisico: è lo spazio a cui possiamo accedere, direttamente o indirettamente, tramite i nostri sensi. Con una simile strategia sono stati esclusi dall’indagine, relegandoli nel dominio dell’inesistenza, tutti quegli enti e princìpi che non si prestano a essere rilevati empiricamente: spiriti, divinità, disegni intelligenti, élan vital, entelechie ecc.

È una scelta metodologica forte, di grande impatto ai fini del progresso della conoscenza, che però sembra ignorare che il campo dell’osservabile non è dato una volta per tutte, essendo strettamente legato agli strumenti e alle tecniche di rilevazione disponibili in un determinato momento storico. Di conseguenza, ciò che ordinariamente si definisce empirico, non è un termine di riferimento assoluto e stabile nel tempo, bensì relativo: dipende infatti dalla nostra capacità di cogliere gli oggetti e i fenomeni che fanno parte della realtà, capacità che tende ad accrescersi con l’avanzare del progresso scientifico. Questo significa che ciò che non è osservabile oggi, presentandosi magari con i contorni dell’indefinito o addirittura del metafisico, potrà forse esserlo domani grazie alla disponibilità di nuovi strumenti e di nuove modalità di osservazione messi a disposizione da importanti scoperte scientifiche.2

Ma l’aspetto di maggior rilievo ai fini del discorso che qui sto cercando di sviluppare è un altro, e riguarda molto da vicino l’affermarsi dell’immagine scientifica del mondo: il successo ottenuto dalla scienza fa sì che i suoi ideali metodologici tendano a travalicare sempre più i confini del campo di fenomeni da cui essa ha avuto origine, estendendosi anche ad altri settori che tradizionalmente ne erano considerati esclusi. Accade così che la scienza pretenda di dire la sua non soltanto sulla realtà che ci circonda, ma anche su come debba orientarsi la nostra riflessione sugli argomenti più disparati, non esclusi quelli strettamente filosofici. Ciò avviene generalmente nel senso dell’esclusione o almeno del drastico ridimensionamento di tutti quei temi che non si prestano ad essere ricondotti a una qualche base empirica. La stessa rilevanza dei problemi che l’uomo in prima persona si pone riguardo a sé stesso e alla propria esistenza viene per lo più riconosciuta soltanto nella misura in cui i problemi medesimi appaiono coerenti con l’orizzonte concettuale della scienza. È necessario a questo punto chiarire che qui non è in discussione la capacità della scienza di pervenire a nuove scoperte e a nuove teorie, procedendo lungo un percorso che si è già dimostrato incredibilmente fecondo per la conoscenza e per le ricadute pratiche nell’esistenza degli esseri umani. In discussione è lo sfondo ideologico che, come un alone diffuso e onnipervadente, accompagna il cammino della scienza, imponendosi sempre più come l’essenza stessa della realtà, come principio regolativo assoluto in base al quale stabilire a priori (ossia prima di aver avuto riscontri sul piano dei fatti) ciò che è accettabile e ciò che non lo è.

La concezione naturalistica del mondo e dell’uomo costituisce un presupposto fondamentale per la scienza, ma la sua validità oltre i confini di quanto è stato effettivamente verificato empiricamente, non è per nulla certa. Il naturalismo andrebbe considerato come una sorta di ipotesi di lavoro, suscettibile di essere messa in discussione qualora si riveli inadeguata ad affrontare problematiche importanti. Invece per coloro che aderiscono entusiasticamente alla cultura della scienza, esso è diventato un vero e proprio dogma, dal quale non è ammesso in alcun modo derogare. In ogni caso, le conseguenze per l’uomo e per l’immagine di sé derivanti da una simile concezione sono enormi. È inevitabile che la scienza tenda a ridurre gli esseri umani a misura di sé stessa, non potendo fare a meno di considerare tutte le forme viventi e quel complesso di capacità che chiamiamo “mente” come fattori governati da leggi cieche, sostanzialmente deterministiche, immutabili nello spazio e nel tempo. In tale ottica, gli uomini e tutte le forme animali che popolano il nostro pianeta vengono ad essere assimilati, almeno in senso lato, a delle macchine. Macchine estremamente sofisticate, d’accordo, ma pur sempre mosse dalle stesso genere di fenomeni che si osservano nel mondo inanimato. La differenza tra organismi viventi e macchine costruite dall’uomo diventa in sostanza una questione puramente quantitativa, riducendosi a una complessità organizzativa assai superiore dei primi rispetto alle seconde. Ogni individuo, con il proprio bagaglio di esperienze, ricordi, aspirazioni, inclinazioni e potenzialità, perde così la sua unicità e irripetibilità – caratteristiche che sono alla base del valore attribuito a ciascuno di noi – divenendo teoricamente (anche se non ancora effettivamente) riproducibile in un numero illimitato di esemplari, come qualsiasi macchina od oggetto del mondo inanimato.

In tale prospettiva, l’esistenza di ciascuno di noi non può che ridursi alla piatta materialità dei comportamenti diretti alla soddisfazione dei bisogni quotidiani; non c’è nulla che ci trattenga dall’adeguarci in maniera crescente alla logica di funzionamento dei sistemi materiali e sociali che abbiamo costruito intorno a noi. Appare anzi ragionevole – ragionevole alla luce della mentalità scientifica dominante – rinunciare non solo a qualsiasi considerazione riguardante significati e finalità trascendenti la vita concreta, ma anche una presunta “umanità” che dovrebbe distinguere gli uomini dagli oggetti e dai fenomeni che appartengono al mondo inanimato. L’ideale diviene allora una integrazione sempre più spinta tra noi e il mondo esterno fino a formare un tutt’uno con esso.

A questo punto – a voler essere conseguenti fino in fondo – anche l’etica diventa una vuota parola a cui non può essere fatto corrispondere alcunché di significativo. Non siamo più in grado di giustificare perché dovremmo essere onesti, giusti, solidali, comprensivi nei confronti dei nostri simili… Fino all’estremo di scoprirci incapaci di spiegare perché non dovremmo eliminare senza alcuna remora gli ammalati inguaribili e gli invalidi gravi allo stesso modo con cui ci si disfa di un vecchio elettrodomestico guasto che non conviene riparare. Considerazioni non molto dissimili ci vengono suggerite dalla nozione di libero arbitrio, che attiene alla nostra facoltà di scegliere e di decidere con un certo grado di autonomia, se la si inquadra all’interno dell’attuale visione scientifica del mondo. Per la scienza non può esistere alcun “libero arbitrio”, perché ogni nostra determinazione è immancabilmente il risultato di processi che si svolgono nel nostro cervello, sui quali noi non abbiamo alcun controllo. Ciò che scegliamo e decidiamo (o crediamo di scegliere e di decidere) è visto come il prodotto di eventi che seguono leggi ben definite e che si impongono con ferrea necessità al nostro essere. La stessa entità a cui ognuno di noi costantemente si richiama e che può venir riassunta nel concetto di Io, per la scienza è priva di qualsiasi consistenza nel mondo reale, risultando, in ultima analisi, un’immagine virtuale generata dall’attività nervosa del cervello.

È quasi inutile far rilevare che, con il venir meno della possibilità di una autonomia personale, cioè di un controllo reale dell’individuo sulle proprie azioni, anche il concetto di responsabilità diviene del tutto privo di senso. Stessa sorte subiscono termini come colpa e pena, così come merito e premio. Se non è l’individuo che decide e sceglie, poiché il suo comportamento è determinato interamente da processi che avvengono, al di fuori della sua coscienza, nei circuiti cerebrali, allora non possiamo neppure considerarci responsabili del nostro agire, né attribuirci colpe o meriti. E, con questo, anche l’etica, almeno come essa è stata intesa per millenni, perde ogni rilevanza per l’agire degli uomini, divenendo una semplice proiezione nel mondo ideale dei meccanismi impersonali che sono alla base dei nostri comportamenti. L’etica non come principio regolativo che guida le nostre azioni – le quali non sono considerate suscettibili di controllo volontario –, bensì come riflesso di un sistema di vincoli a cui siamo sottoposti senza saperlo.

Coloro che sposano senza riserve la concezione scientifica del mondo, aderendo a una qualche forma di ateismo, cercano di convincerci che tale concezione rappresenta un grande progresso per l’uomo, perché lo libera finalmente dalle superstizioni e dalle paure irrazionali del passato, conferendogli una nuova dignità. Secondo me, la scienza non è in grado di conferire alcuna particolare dignità all’uomo. È vero piuttosto il contrario. La scienza applicata integralmente all’essere umano, in ogni suo aspetto, lo sminuisce, lo snatura profondamente, rendendolo – coerentemente con gli ideali metodologici che la contraddistinguono – in tutto simile alle macchine di cui si è circondato. Una macchina non può avere ideali, né etica, né senso di responsabilità: opera semplicemente secondo gli schemi di funzionamento di cui è dotata. Come possiamo facilmente renderci conto immaginando, in tutti i suoi particolari, un ipotetico pianeta popolato di soli automi.

È molto probabile che la concezione naturalistica dell’uomo, nei termini in cui essa viene oggi affermata dalla scienza, si riveli nel giro di pochi decenni profondamente errata, o almeno parziale e bisognosa di sostanziali integrazioni. Paradossalmente, questo cambiamento di prospettiva non potrà venire dalla pura riflessione teorica, e ancor meno da quella filosofica. Soltanto importanti scoperte scientifiche – scoperte sul campo –, mostrando l’insostenibilità delle attuali tesi, riusciranno a convincere gli uomini a mutar orientamento, suggerendo nuovi e rivoluzionari percorsi di pensiero.

Fino a quel giorno, io credo che le religioni possano svolgere una funzione importante. Con questo non intendo dire che dovremmo volgerci, sia pur temporaneamente, verso le verità da esse proclamate per cercare le soluzioni ai tanti problemi che ancora ci affliggono. Le religioni, parlando un linguaggio che appartiene ad altri tempi e utilizzando concetti ormai largamente obsoleti, possono suggerirci ben poco riguardo alle questioni che maggiormente ci interessano. Tuttavia esse, sia pur in maniera molto generale, presumibilmente inadeguata, hanno ancora la capacità di mantener viva l’attenzione sugli aspetti davvero importanti della nostra esistenza, facendo sì che non ci conformiamo con eccessiva facilità all’attuale concezione naturalistica dell’uomo difesa dalla scienza.


Un serio confronto tra scienza e religione, invece che svolgersi in superficie toccando temi accessori e tutto sommato poco impegnativi per le parti in causa, dovrebbe spingersi in profondità, giungendo alle radici delle differenze che oppongono le rispettive concezioni del mondo. Solo così potrebbero emergere i limiti reciproci, i presupposti impliciti, ciò che si dà per scontato e che invece scontato non è. Si tratterebbe di un punto di partenza di fondamentale importanza per giungere a una nuova concezione della realtà che non tradisca lo spirito profondo della scienza, intesa come ricerca della verità sul mondo di cui facciamo parte, ma che nello stesso tempo non sia prigioniera di forme ideologiche che guardano l’uomo da una prospettiva profondamente innaturale. In questo, le religioni possono dare un contributo importante, anche se di carattere prevalentemente simbolico e – con ogni probabilità – circoscritto nel tempo.

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