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Peter Sloterdijk. Critica della ragion cinica

Antonio Lucci

Nella storia della cultura, a volte, ci sono episodi che appaiono come passaggi di consegne, oltre e al di là delle intenzioni dei protagonisti stessi.

Nei primi mesi del 1984 Michel Foucault, pochi mesi prima di perdere la sua battaglia contro l’AIDS, teneva al Collège de France di Parigi un corso dal carattere quasi testamentario, sicuramente folgorante e a tratti commovente, dal titolo Il coraggio della verità (edito in italiano per i tipi Feltrinelli nel 2011).

Qui il grande pensatore francese parlava degli antichi filosofi cinici, della loro particolarissima pratica del dire-il-vero (parresia), e del fatto che nella storia della civiltà occidentale, probabilmente, questi hanno rappresentato un unicum: caso estremo di filosofi che hanno tradotto per intero in pratica di vita il loro pensiero, non lasciando scarto alcuno tra idea e azione, tra la presa di posizione ideale e la sua realizzazione.

Muovendosi tra le pieghe del pensiero cinico, nelle enormi difficoltà poste dal reperimento delle fonti, Foucault dedica alcune riflessioni ad alcuni pensatori che – in anni più o meno coevi al suo corso – si erano dedicati all’analisi del fenomeno del cinismo.

È in questo contesto che incontriamo, citato di sfuggita («[…] Infine, il quarto libro, che non conosco, mi è stato segnalato di recente: è uscito l’anno scorso in Germania presso Suhrkamp, è di un certo Sloterdijk, e porta il titolo solenne di Kritik der zynischen Vernuft [Critica della ragion cinica]. Non ci sarà risparmiata nessuna critica della ragione: né della ragione pura, né della ragione dialettica, né della ragione politica, e così abbiamo ora la “critica della ragione cinica”. È un libro in due tomi del quale non so nulla. Mi hanno dato dei pareri, diciamo, divergenti sull’interesse di questo libro») a pagina 176, il nome di Peter Sloterdijk.

La notazione di Foucault, perfino sprezzante nella sua lapidarietà, sembra quasi segnare la cifra stilistica e intellettuale di un rapporto complesso.

Sloterdijk all’epoca era un giovane studioso indipendente, con all’attivo un dottorato di ricerca sulla letteratura autobiografica nella Repubblica di Weimar preso a Monaco, alcuni studi su Nietzsche e sulla problematica del venire al mondo, da poco ritornato dall’India dopo un periodo di studio a stretto contatto col santone Osho («Il Wittgenstein delle religioni» lo definirà il tedesco in un’intervista del 1994).

La Critica della ragion cinica, che l’editore Raffaello Cortina presenta in seconda edizione italiana a trent’anni di distanza dalla pubblicazione in lingua originale (inspiegabilmente ancora nella versione accorciata rispetto a quella tedesca che, pur autorizzata all’epoca della prima traduzione – per i tipi Garzanti – dall’autore, oggi appare poco giustificabile dal punto di vista scientifico), rappresentò il trampolino di lancio per quello che sarebbe diventato, in capo ai suddetti trent’anni, uno dei più importanti e controversi filosofi viventi.

Il testo vendette 120.000 copie, attestandosi in Germania come il libro di filosofia di maggior successo editoriale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e venne definito da Jürgen Habermas (che in seguito spesso si troverà in – anche clamoroso – disaccordo con Sloterdijk) come «L’evento più importante nella storia delle idee dall’altra parte del Reno dal 1945».

Con ogni probabilità Foucault non avrebbe amato Sloterdijk, se avesse avuto modo e tempo di leggerlo e conoscerlo.
Troppo lontane le attitudini intellettuali, gli atteggiamenti personali, i riferimenti filosofici e le metodologie argomentative.
Al contempo, Sloterdijk non sarebbe pensabile senza Foucault, sia per propria ammissione (come sosterrà in un’intervista con Hans-Jürgen Heinrich), che per lo svolgimento interno delle sue stesse dinamiche intellettuali e filosofiche (si potrebbe sostenere che l’ultimo testo recente di una certa rilevanza di Sloterdijk – Devi cambiare la tua vita, tradotto sempre per i tipi Cortina, nel 2010 – non sia altro che la summa del foucaultismo di Sloterdijk, il suo personalissimo confronto con l’eredità del filosofo francese nella storia della cultura e nel suo personale percorso di pensiero, confronto che rasenta i confini del parricidio).

Qual è il punctum, il nucleo centrale, di quella Critica della ragion cinica che Foucault non ebbe il tempo materiale di leggere?

Per iniziare una disamina del testo, dobbiamo innanzitutto soffermarci sul termine cinismo evocato dal titolo: questo è la traduzione del tedesco Zynismus. Con tale espressione la lingua tedesca designa ciò che comunemente in italiano definiamo cinismo, quando il termine è riferito a una persona spregiudicata, priva di scrupoli.

Mentre però il tedesco usa un’altra parola per designare l’antica corrente filosofica greca del cinismo, ossia il termine Kynismus, in italiano la distinzione è assente. Distinzione che invece è fondamentale per comprendere, fin dagli inizi, le intenzioni di Sloterdijk.

Infatti, già se si considera il titolo originale dell’opera, Kritik der zynischen Vernunft, è possibile individuare nel cinismo attuale l’oggetto criticato da Sloterdijk. La distinzione Zynismus/Kynismus risulterà essere ancora più importante se si considera che al moderno cinismo Sloterdijk contrapporrà proprio il cinismo delle origini, quello che vide in Diogene il primo, e più grande, rappresentante, quello che era l’oggetto di studio di Foucault prima di morire.

Per identificare adeguatamente la coppia concettuale cinismo moderno/cinismo antico (Zynismus/Kynismus) ci rifacciamo all'efficace resa italiana dei due termini che ha proposto il traduttore italiano: con kinismo viene tradotto il Kynismus classico, quello di Diogene e della sua scuola filosofica, nonché di coloro che nella scia di quella tradizione ancora si pongono; con cinismo viene tradotto il termine Zynismus, che identifica l’oggetto polemico delle riflessioni sloterdijkiane, e che definisce quello che abbiamo detto essere ciò che comunemente definiamo come cinico.

Tutto ciò può riassumersi così: il secolo XIX sviluppa una prima forma della coscienza cinica moderna in cui si intrecciano il rigido cinismo dei mezzi e il non meno duro moralismo dei fini. […] Ma quando il cinismo radicale dei mezzi si fonde con un risoluto moralismo dei fini, proprio in quell’istante cessa per i mezzi ogni residuo sentimento morale. […] è davvero soltanto per una inspiegabile stranezza della storia concettuale che questo moderno cinismo rimanda a un’antica scuola filosofica. […] Nel caso dell’ambizione cinica moderna registriamo, quindi, un ulteriore tralignamento concettuale; mentre Diogene aveva espresso il desiderio: “Toglimiti dal sole!”, gli adepti del moderno cinismo diffuso, per “un posto al sole”, sono perennemente in corsa … […] In verità, il cinismo dei mezzi caratterizzante questa nostra “ragione strumentale” di horkheimeriana memoria può essere compensato solo con un ritorno al kinismo dei fini. […] Il nucleo del kinismo consiste in una filosofia critico-ironica verso i cosiddetti “bisogni”, dei quali è necessario mettere a nudo una fondamentale smodatezza e assurdità. L’impulso kinico fu vitale non solo durante il breve intervallo tra Diogene e la Stoà Antica, ma ben più a lungo. Esso fu senza dubbio presente nello stesso Gesù di Nazareth, il “Disturbatore” par excellence. E sopravvisse anche in tutti i veri epigoni del maestro, i quali, come lui, avevano compreso che la vita si caratterizza per il fatto di non aver alcuno scopo. […] La ragione kinica culmina nella nozione, calunniosamente presentata come nichilismo, secondo cui è invece saggio sgonfiare le Grandi Mete. […] Quindi: solo il kinismo (e non la morale) può arginare il cinismo!

In questo lungo estratto è contenuto per intero il senso dell’argomentazione sloterdijkiana. La prima caratteristica che Sloterdijk rileva come propria della coscienza cinica è quella di unire cinismo dei mezzi e moralismo dei fini. È questo il nucleo di base, l’elemento fondamentale e costitutivo del cinismo. Cinico è colui che ammanta la propria azione (improntata al più duro, privo di scrupoli, calcolatore, realismo) con una giustificazione moralistica relativa al suo fine. Cinico sarebbe chi, in nome dell’Ideale, piega il proprio agire ai principi più bassi e brutali della realtà. È questa perversa schizoidia ciò che caratterizza l’attitudine del cinico che Sloterdijk critica. A tale cinismo, che cerca continuamente un “posto al sole”, Sloterdijk contrappone l’antico kinismo, quello rappresentato da Diogene. Questi, visitato da Alessandro Magno, e invitato dall’imperatore a esprimergli un desiderio che egli, in virtù del proprio potere, avrebbe esaudito, rispose che l’unica cosa che desiderava era che Alessandro si togliesse da dove era, perché gli stava facendo ombra con la sua figura. Al cinismo dell’arrivismo sociale ammantato da belletti morali Sloterdijk contrappone la saggezza di colui che del costrutto-società sempre si fece beffe, considerandolo inessenziale, ridicolo e perverso.

È per questo che Sloterdijk definisce il kinismo una filosofia critico-ironica verso i cosiddetti “bisogni”, dei quali è necessario mettere a nudo una fondamentale smodatezza e assurdità. È tale attitudine filosofica che viene definita kinismo dei fini, e che può e deve essere contrapposta all’imperante cinismo dei mezzi. Cinismo dei mezzi che, aggiungiamo, diviene anche cinismo dei fini. Infatti il cinismo, come abbiamo appena visto, maschera la propria malafede ammantandosi di ideali alti e integerrimi che possano, con la loro moralità, giustificare l’agire privo di scrupoli che a tali ideali dovrebbe portare (cinismo dei mezzi).

Questo agire però comporta, inevitabilmente, anche il pervertimento dei fini stessi, che perdono necessariamente la propria moralità, trasformandosi essi stessi in fini cinici. Il cinismo dei mezzi dunque porta inevitabilmente a quello dei fini. È contro entrambi che va fatta valere l’attitudine kinica, anch’essa relativa ai fini, e, conseguentemente, ai mezzi. Il primo obiettivo dell’azione kinica deve essere quello che sempre è stato definito (da una ragione che più cinica non si può) nichilismo: ossia il decostruire, lo sgonfiare, le Grandi Mete, gli ideali, che sempre hanno prodotto devastazioni sulla singolarità in nome di un’universalità irraggiungibile. Tutti gli apparati politico-ideologici che hanno posto Grandi Mete, Grandi Idealità, come fini ultimi del loro agire politico si sono sempre rivelati strumenti di asservimento delle coscienze individuali, che agivano in nome di un cosiddetto Bene, facendo però il Male. È dunque questa lotta tra attualità cinica e proposta kinica il nucleo dell’opera in questione.

Gran parte del testo è dedicato alla descrizione delle varie modalità di dispiegamento del cinismo nel mondo contemporaneo.

Nella galleria di tipi del cinismo, è da sottolineare come spesso questi abbiano avuto origine da forme di rivolta kinica, o come tale rivolta kinica sia stata generata dalle forme di cinismo imperanti nelle società. Aspetto fondamentale della diade cinismo/kinismo è la loro inscindibilità: il kinismo è sempre una forma di reazione, di risposta, di critica, di resistenza ai modi di dispiegamento del cinismo. Rivolta dai caratteri peculiari, perché sempre improntata a modalità non-intellettualistiche di contrapposizione: il corpo, la sessualità, la carne stessa della rivolta è kinica. Così come lo sono il turpiloquio, lo schiamazzo, la battatuta salace, lo scherno. Il consenso al dialogo, é, per il kinico, la prima forma di abdicazione al modus operandi degli impianti di sapere coordinati a quelli di potere, e dunque una forma di inglobamento.

Il testo si profonde poi in una lunga galleria di cinici e di kinici, analizzando spesso le dinamiche del rovesciamento di un tipo nell’altro.

Il testo di Sloterdijk, malgrado i trent’anni di età, resta attuale nel cogliere molti dei punti critici della contemporaneità, come spesso l’autore ha saputo fare nei suoi testi migliori: e questo nonostante a più riprese lo stesso Sloterdijk abbia sottolineato la sua attuale lontananza dall’impianto di pensiero di quel testo.

Se il lettore non addentro al percorso dell’autore e alle tematiche filosofiche in generale potrà di certo apprezzare lo stile e le intuizioni della Critica della ragion cinica, allo specialista il testo porrà anche delle questioni più generali, a livello di storia delle idee: come si posiziona Sloterdijk nel panorama post-francofortese? Cosa sopravvive a 30 anni di distanza della Critica della ragion cinica nel pensiero del filosofo di Karlsruhe?

Quanto di cinico, quanto di kinico nello Sloterdijk attuale, fautore di una ardita (e non esente da rischi) “filosofia dell’esercizio”?

Se ci è permesso concludere con un ulteriore esperimento mentale l’ideale staffetta Foucault-Sloterdijk con cui abbiamo aperto questa riflessione, dopo aver immaginato che un (im-)possibile “Foucault lettore di Sloterdijk” sarebbe stato molto critico nei confronti degli esiti più recenti della filosofia di quest’ultimo, bisognerebbe però riconoscere che – forse – la Critica della ragion cinica, pur nella paradossale lontananza metodologica e concettuale, sarebbe potuto essere l’unico libro di Sloterdijk che avrebbe incontrato il favore del francese, e proprio a causa del potenziale di critica agli impianti di sapere e di potere che – tutt’oggi – il testo esprime, con una lucidità e radicalità che forse Sloterdijk, dopo questo folgorante esordio, non ha più trovato nel suo percorso di pensiero.

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