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Contro Platone

L’Uno e il Complesso

di Pierluigi Fagan

517Il pensiero complesso, incontra difficoltà strutturali a farsi strada nel canone occidentale. I motivi di questa difficoltà si devono per gran parte alle forme portanti del sistema di idee che strutturano questo canone. Le gettate iniziali di queste forme  si trovano nel pensiero platonico[1].

Il cuore dell’impianto platonico[2], impianto che afferma l’essere pieno solo del mondo intelligibile (Io) e non di quello sensibile (Mondo), risponde a quattro punti ritenuti problematici: i) il problema del molteplice che viene ridotto ad Uno; ii) il problema del divenire e transitorio che viene ridotto al permanente ed eterno; iii) il problema del relativo che viene ridotto all’assoluto a partire dal concetto di verità; iv) il problema generale del disordine che viene ridotto dall’ordine fisso della gerarchia. L’Uno (il Bene), vero, eterno, assoluto, a capo di una gerarchia discendente è l’impianto finale che istruisce l’immagine di mondo dell’ateniese.

Platone si trovava in un momento storico particolare, un momento di transizione che infine condusse alla fine del concetto di polis. Tra la morte di Platone e la sconfitta di Cheronea (-338) che sancirà la fine dell’autonomia (e della centralità) ateniese e con essa della vigenza del concetto di polis nella Grecia tutta, passa solo un decennio. Platone non era individuo privo di ambizioni, anche politiche, e l’intera sua filosofia, come pensiero e come pratica, può esser inteso come un ultimo, disperato, tentativo di resistere al collasso del sistema. L’Idea prende il posto di Mondo. Questa idealizzazione prende una forma tanto più estrema ed astratta, quanto più la situazione contingente rimanda una immagine della realtà sconfortante e lontana dai propri giudizi di valore[3].  

Così, l’aristocratico Platone, discendente da antica famiglia dei tempi dei re e dei signori di cui rimembra con malinconica nostalgia la felice condizione di semplicità ed ordine, parente stretto di due dei Trenta tiranni, sufficientemente ricco da non aver plebee preoccupazioni mondane, propenso alla mitizzazione, visceralmente anti-democratico, profondo conoscitore dell’insieme del pensiero filosofico a lui precedente e coevo, nonché di quello religioso, si erge a baluardo contro l’incipiente dissipazione entropica del suo mondo.

Irritato dal fisicismo ionico, angustiato dal divenire eracliteo, inorridito dal pluralismo empedocleo, deluso da Anassagora ed indispettito da Democrito che mai nominerà nelle sue opere, inviperito dai sofisti, Platone cuce una sua personale e mitizzata ipostasi di Socrate, con infrastrutture pitagoriche, dialettica eleatica revisionata, miti orfici, misteri eleusini e forse non solo[4]. Ne viene fuori un sistema compatto, triangolato sugli assi ontologici – gnoseologici – etico/assiologici, un tutt’uno ideale che deve sovraordinare il tutt’uno reale.

Nella cultura occidentale, Platone è un gradino appena sotto Gesù Cristo quanto ad unanimità di giudizio positivo, estatico, entusiasta. Guarda il caso, è l’unico filosofo antico di cui ci è pervenuta l’intera opera. Via la ripresa neo-pitagorica e medio-neo-platonica,  previa ispirazione anche di  Paolo di Tarso, arriverà ai padri della Chiesa cristiana, ad Agostino. Innerverà il canone cristiano ma poi resusciterà in veste rinascimentale e poi idealista-romantica, toccando Cambridge e certa filosofia britannica più di quanto si pensi ed ispirando il logicismo fregeano e parte della nascente filosofia analitica, poi sino a Gadamer e Derrida. L’apriorismo genetico gli è amico, così come il vasto platonismo matematico (Cantor, Russell, Godel).  Con i suoi giudizi sulla certezza della conoscenza aritmo-geometrica, la convinzione nella vita eterna, con la sua separazione tra mondo vile, io razionale e meta ideale posta nel blu dipinto di blu, con la sua convinzione che gli uomini abbiano bisogno di essere comandati dai pochi che sanno (le élite), con la sua certezza nella Verità, Unica-Semplice-Assoluta, continuerà per secoli ad esercitare il ruolo di Grande Padre del modo occidentale di pensare Io, Mondo e loro relazione.

Questi giudizi così poco conformisti ed empatici, non cancellano certo la sua decisa grandezza complessiva anche se non abbiamo testi precedenti (ma neanche quelli immediatamente successivi) con i quali compararla. Sicuramente, letta e studiata a fondo, la sua opera completa è assai più problematica ed aperta di quanto non abbiano sedimentato certe sue interpretazioni.  Le certezze biografiche scarne ed incerte. La famosa Lettera VII, viene data per originale più per i contenuti ritenuti essenziali alla stessa comprensione di Platone, che per accertata convinzione filologica. Quando Aristotele riporta qualcosa di lui e dell’Accademia si sospetta una perdita di lucidità che porta al travisamento (come possa perdere lucidità e travisare Aristotele che passò venti anni nell’Accademia e non un critico che legge l’opera scritta più di venti secoli dopo, è un mistero). Diogene Laerzio è un altro che quando proprio non si sa cosa dire viene citato, mentre quando racconta cose che non quadrano con le idee a priori che ci facciamo a sostegno delle nostre impalcature interpretative, diventa un “pettegolo”[5].

Quando si legge la sua intera opera e si scopre che su molte cose ha detto tutto ed il suo contrario, che tutta la sua opera è alla ricerca di definizioni delle essenze, delle fatidiche “Idee” al cui punto non arriva mai in modo chiaro e conclusivo, che i vantati dialoghi sono per lo più estenuanti contorsioni logiche monologanti appena intervallate da ammirati “Dici bene o saggio Socrate!”, che lo stile di scrittura ondeggia come se il ventriloquo di Socrate fosse preda di multiforme personalità, che mai e per nessuna ragione egli appare in una asserzione e si nasconde dietro un Socrate simbolico (ma con vistose eccezioni al format), possono venirvi dei dubbi[6]. Ma se cercate di colmarli leggendovi le tonnellate di saggi “critici” composti in suo onore, rimarrete con la convinzione che forse voi il fenomeno Platone, non siete proprio in grado di capirlo. Le aporie inconcluse sono per farci capire che non capiamo niente, i cambi repentini di idee sono solo dialettica che simula il non essere di concetti di cui così si rinforza l’essere, quando proprio non si può far pace con le contraddizioni allora ha cambiato idea perché ogni pensatore ha un suo sviluppo storico (W. Jaeger), la poliedricità stilistica è la grande capacità virtuosa di un maestro della parola e della sintassi. Se poi, seguendo Leibniz che invocava qualcuno che mettesse un po’ d’ordine nel guazzabuglio labirintico di questi trentacinque dialoghi (di cui alcuni sospettati di inautenticità), vi rimane un irriducibile dubbio sulla forma complessiva dell’impianto del pensiero del “divino”, non vi preoccupate. Avete sempre la possibilità di ritenere i dialoghi delle opere essoteriche la cui variabilità è funzione dei diversi target, dei “dico-non-dico” il cui nocciolo starebbe in dottrine non scritte (esoteriche) che però si possono ricostruire seguendo la Scuola di Tubinga e Milano.

Ma noi non siamo qui a  scrivere una nuova interpretazione di Platone che andrebbe ben oltre le nostre finalità ed anche capacità. Vogliamo rimanere stretti ad una analisi comparata tra pensiero platonico e pensiero della complessità (ciò che noi auspichiamo possa essere un pensiero della complessità), per notare quanto spesso e di quanti gradi si verifichino scostamenti. La conclusione annunciata sarà che il pensiero complesso che unico può darci speranze di adattamento alla grande complessità del mondo nel quale ci è capitato vivere, è geneticamente alieno-repellente all’impianto platonico. Dalla notazione di quanto il pensiero occidentale è informato nelle sue strutture portanti di platonismo diretto o indiretto, totale o parziale, dedurremo da dove cominciare per aprirci una nuova condizione di pensabilità per un nuovo canone[7].

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Platone affronta il dramma della relazione Io – Mondo dei suoi tempi, inventando una religione, la religione delle Idee. Questo cosmo perfetto vien posto in mezzo tra Io e Mondo e diverrà il modello di tutte le future teologie razionali. Il Mondo ne deriva per approssimazione (partecipazione, somiglianza, imitazione), l’Io vi tende con energia erotica. In pratica è il tipico triangolo (triangoli e piramidi sono la “geometria delle passioni” della mente platonica[8]) che racchiude un cosmo perfetto, immateriale, immutabile, semplice, unitario ed unificato al vertice, la cui punta estrema è la monarchia del Bene (o Uno). Il Mondo ne deriva per corruzione ed in modo confuso (la confusione che avvertiamo nel dato empirico), l’Io vi tende come tende a Dio. Il cosmo perfetto neutralizza: le presunzioni democratiche di uguaglianza poiché non a tutti è permesso elettivamente di partecipare della perfezione; la relativizzazione sofista poiché questo cosmo è perfetto in sé per sé e non è soggetto alla variabilità dei punti di vista; l’impermanenza eraclitea poiché il suo ordine è eterno ma soprattutto -immutabile- ed il divenire una degradazione dell’essere; il pluralismo empedocleo poiché ogni Idea è una-semplice-non scomponibile e racchiude in sé tutte le sue maldestre copie che vediamo nel Mondo[9]; il fisicismo e l’atomismo perché questi sono solo fenomeni sbiaditi del regno perfetto e terso del soprasensibile accessibile a quel frammento di divino che è l’Intelletto umano.

E’ propriamente il mondo divino che ha dato mandato a Socrate di esserne il profeta, Platone di esserne il sacerdote (il Paolo di Tarso), l’Accademia di esserne la chiesa, il Bene di esserne l’Assoluto, il demiurgo (la prima comparsa di una forma approssimativamente monoteistica nella tradizione greca) di esserne il mediatore efficiente, l’anima umana di aspirarvi come si aspira al paradiso, la verità di esserne la destinazione finale[10], l’aritmo-geometria (sacra) di esserne la sintassi formale[11], la dialettica (discendente ed ascendente) di esserne la preghiera[12] e rito del dialogo nell’ecclesia umana. Con la morte che sarà liberazione dalla momentanea caduta nella vita, il calco per il cristianesimo è pronto per l’evoluzione paolina – neo platonica – patristica.

Lo penso, dunque è”[13], questa è la nevrosi idealista, darsi ragione da soli nel privato del propri pensiero. Scollegare il pensiero dal Mondo (“fuga nei Logoi” secondo l’espressione di Socrate in Fedro 99e)  e porre questo secondo a dipendenza del primo in un impeto di nevrosi demiurgica. Dare ragione (in quanto razionale) alla disperata tensione che scacci la consapevolezza della vita a termine che affligge l’auto-coscienza umana ed al contempo, creare il fondamento per la naturalità di ogni gerarchia trascendente. Risolvere la reiterazione inquietante della domanda “e prima?, e prima?” sconfinando nell’eterno da una parte e ponendo il principio nella mani di un artigiano divino, dall’altra. Dar ragione del moto come desiderio di stare immobili, del molteplice come singolarità -momentaneamente- degenerata. Rassicurare sul fatto che il Tutto-complesso è solo parvenza, in “realtà” è semplice.

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L’impianto platonico stabilisce alcune linee che nel loro riprodursi e riprodursi nei secoli del pensiero occidentale, anche e ben oltre i nebulosi confini della filosofia, diverranno armatura portante della nostra immagine di mondo.

Principio di riduzione. L’unione tra ciò che noi pensiamo del  come la cosa è e del come la cosa deve essere ed è bene che sia, porta a scambiare il nostro riduzionismo naturale, dovuto a ragioni di economia cognitiva a fronte dell’immensità del conoscibile, con una legge delle cose, del come sono e del come è giusto che siano. Il complesso è apparente, in realtà è semplice. Poco ed i Pochi che lo sanno, ordinano il Molto ed i Molti che non sanno. Legioni di pensatori hanno operato all’ombra di questa verità ritenuta auto-evidente senza domandarsi se la “cosa in sé” accettasse davvero questa riduzione, occultandone i bordi in eccesso, le anse non combacianti, le emergenze prorompenti dalle interrelazioni, quadrando i cerchi e cerchiando i quadri, fregandosene del minimo principio di corrispondenza. Il sovra-uso di analogie e di miti, porta a conferme di “vedi, è così perché anche qui è così” (A=B, C=B stante che -implicitamente, ma falsamente- C=A), non tenendo in alcun conto la parametrabilità delle cose e dei contesti, mischiando pere con mele. Il riduzionismo cartesiano, poi scientifico, è figlio dell’essenzialismo platonico.

Idealismo semantico – sintattico. L’idealismo semantico è quello di certa filosofia che usa il concetto non come uno strumento di riduzione necessaria (da relativizzare nella sua verità e da salvare più che altro nella sua utilità), ma come sintesi del vero. Producendo concetti con parole e ritenendoli mattoni solidi, si può poi edificare qualsiasi edificio e darselo come destinazione concreta, immodificabile, vero in sé, reale perché ideale, quindi razionale. L’idealismo sintattico è quello di certa logica e matematica per la quale non solo queste sono l’unica guida sicura alla composizione delle idee in sistemi di pensiero, ma lo sono, perché è il mondo che è-fatto-proprio-così.

Rifiuto dell’impermanenza. Dare dignità filosofica alla pulsione umana di negare la morte è la più pietosa bugia che il nostro primo tratto del pensiero che pensa se stesso (quello che arriva fino alla modernità) ha difeso con pervicace disonestà intellettuale. Nulla in natura sembra che continui ad essere in eterno o all’infinito. Tutto ciò di cui abbiamo avuto ed abbiamo esperienza, ci dice il contrario. In tutto il mondo ed in tutti i tempi, la pietosa bugia riappare in mille forme. Dalla comparazione tra questa universale credenza e la sua continua e sistematica falsificazione nell’esperienza, avremmo dovuto trarre considerazioni sul perché la pensiamo, qual è il prezzo cognitivo ed esistenziale del dirci vero ciò che palesemente non lo è. Questo atto mancante ci avrebbe altresì responsabilizzato sul come far della vita l’unica cosa che conta veramente per noi, non sprecandola e non riempendola di “attesa della morte”, immersa in diluvi di parole.

Rifiuto del divenire. L’ostinata negazione della morte, necessita della svalutazione di quell’essenza ontologica invisibile che porta tutte le cose a trascorre il tempo da un punto prima ed un punto dopo, prima e dopo dei quali le cose e noi stessi, non siamo. Non curare il divenire significa resistergli in modi paradossali, significa subirlo e non guidarlo, significa rifiutare il cambiamento e non auspicarlo. Significa perdere visione storica dell’umano, relativizzarne i contesti temporali, essere pronti a ridiscutere le verità eterne, recalcitrare ottusamente per non seguirne il flusso, fissare lo sguardo all’indietro. Questa è una delle massime frizioni che creano attrito tra noi ed il flusso del Mondo, aggravata dalla ostinata difesa di istituzioni umane che come tutte le cose, cambiano, deperiscono, muoiono. Freni immobilizzanti che in alcune congiunture creano i presupposti del disadattamento. Disadattamento, che nel rifiuto della realtà che inesorabilmente diviene “altro”, porta alla morte delle civiltà e delle civilizzazioni con “noi” dentro.

Rifiuto della molteplicità e dell’Altro. Negare la molteplicità ha ritardato la nostra evoluzione cognitiva (e sociale) ad abituarsi a lavorare con più variabili sapendo che, per quante ne possiamo maneggiare, molte altre rimangono fuori delle nostre possibilità cognitive. La molteplicità è negli individui stessi unitariamente concepiti, è tra gli individui e le loro forme sociali, tra gli individui e le cose, tra le cose e le parole e tra le parole ed i pensieri degli individui che coscientemente si “sentono” Uno. I vari gradi di questa molteplicità sono sovente ridotti a due, al problema di ciò che è fuori di uno (il suo non essere) ma non reciprocamente per ogni cosa che è. Ognuno di noi è Altro per l’Altro. La molteplicità negata è la premessa per l’impero dell’Uno, del Vero, dell’Assoluto come rifiuto del dialogo con l’Altro, della sua opinione rispetto alla nostra, del relativo. Questo è un retaggio antico, una condizione che potevamo permetterci quando sul pianeta eravamo pochi e lo spazio tanto, quando una guerra, il dominio, il potere della coercizione infine, risolvevano il dilemma su chi avesse ragione. Oggi, è un pensiero fortemente disadattante. Il pensiero dell’Uno ha una geometria sempre verticale, mai orizzontale, mai diagonale, mai tridimensionale, mai concava o convessa. Essa è statica e mai dinamica. Soprattutto, essa è priva del ruolo ontologico della relazione.

Gerarchia semplice e fissa come unica forma per domare il complesso. Il pensiero sociale e politico di Platone riflette la piccola inflazione di complessità che si verificò ai suoi tempi, elaborando prima tramite il re-filosofo, poi tramite leggi – consiglio notturno, una piramide gerarchica che impone ordine al disordine. Altrettanto farà nell’intellegibile con l’Uno in quanto “re del tutto” (Lettera II, 362 e). L’élite è l’unica che contempla l’Universale, perché i Tutti sono impegnati nella “giusta e necessaria” divisione del lavoro, cioè nel Particolare. L’élite filosofica, dei guardiani armati, dei saggi, dei politici, è la stessa forma del potere dei re e sacerdoti del passato, del Senato ed imperatore romano, dei Signori medioevali, delle monarchie aristocratiche, di quelle parlamentari, delle avanguardie leniniste, dei massoni architetti del mondo, dei possessori dei capitali, dei vari -padroni del mondo- investiti di forza divina o armata o economica o razionale o tutte e quattro. Non è certo responsabilità di Platone che questa sia la forma quasi-unica del modo col quale l’Occidente ha dato ordine al complesso. Ma è anche sua responsabilità, se gli vogliamo attribuire la grandezza che siamo soliti attribuirgli, non aver accettato che se la democrazia dei suoi tempi certo non funzionava, la sua “forma ideale” era in realtà, l’unica via che permettesse l’autoadattamento virtuoso di un complesso (la società umana) al Complesso (il Mondo). Invece della Repubblica delle piramidi, avrebbe potuto indagare una utopia veramente comunitaria ma la sua antropologia pessimista derivata dal suo aristocraticismo, portava necessariamente ad altri esiti.

Negazione dei contesti e delle relatività. Il rifiuto del molteplice e del divenire,dell’incertezza e dell’indeterminazione, del convenzionalismo che unico effettivamente permette di dialogare sul serio, del plurale e del materiale co-essenziali con l’ideale ed il singolare, il voler affermare l’unilaterale propria verità declamandone l’oggettività, è la “piega” che Platone ha dato allo sviluppo della successiva riflessione[14]. Certo la responsabilità più che sua è del canone interpretante successivo, ma noi dobbiamo riferirci alle fondazioni per minare la stabilità dei soprastanti città ideali che la tradizione ha costruito. La Verità non è Una, non è Semplice, non è Assoluta, da qui occorre ripartire per trovare un nuovo modo di pensare Io e Mondo.

Impossibilità della consapevolezza diffusa. Le olimpiadi dell’essenza umana talvolta mostrano uomini d’oro (pochi), talvolta d’argento (qualcuno ma non tanti), talvolta di bronzo (tanti). Ma se è per questo, gli uomini non sono sempre d’oro-argento-bronzo in tutti gli aspetti ed oltre a questa classificazione stretta, sono anche di ferro, di idrogeno, di ossigeno e carbonio. Gli elementi vanno oltre la metallurgia ed in natura sono più di novanta. Come adattare questa varietà complessa in un sistema auto-cosciente che le comprenda in modo equo – dinamico – funzionale, senza immaginare “leggi” eteronome, di modo che questo sistema possa adattarsi ai livelli crescenti di una chimica complessità sempre più ingarbugliata e tendente al caotico è il problema attuale che ha in carico una filosofia dell’umano. A questa ricerca del pensiero, Platone risulta non solo in gran parte estraneo, ma opposto. Il suo sistema di pensiero che geneticamente perimetra le condizioni di pensabilità di altro, coincide con un periodo del mondo che faremmo bene a ritenere terminato. Forse, dopo ventiquattro secoli, dobbiamo chiudere un’era ed aprirne un’altra.

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Non promuoviamo un “parricidio” di Platone perché non proviamo nessuna pulsione edipica verso la Verità. Misurarsi con la sua tradizione in forma critico-negativa però, può aiutarci a capire meglio da cosa dobbiamo prendere le distanze. La attuale crisi del modo occidentale di stare al mondo, non è solo la crisi del capitalismo. S’illude chi pensa senza profondità storica.

Il capitalismo viene, tra l’altro, dall’imperialismo coloniale del XVI° secolo, il quale è l’esportazione della guerra di tutti contro tutti vigente lungo tutto il Medioevo, il quale subentra all’imperialismo romano, il quale fa meglio ed in grande ciò che fece nella sua fiammata conquistatrice Alessandro, il quale è colui che dà soluzione alla crisi di crescita delle poleis greche. Il tutto come una storia che varia intorno all’invariante: il dominio dei Pochi su i Molti. Dovremmo tornare a quel bivio[15] e vedere quale altra strada presentava la biforcazione, perché è quella la strada che, unica, può portarci ad un diverso modo di stare al mondo. La strada che non abbiamo percorso. Quella crisi ebbe quegli esiti anche per l’impossibilità di dare una alternativa alla gerarchia nei gruppi umani. Gerarchia che proviene come schema ordinante, dal profondo del tempo, dalle prime forme di organizzazione delle prime società complesse. Tra pochi o pochissimi si trova più facilmente l’ordine e quel primo sistema ordinato funge da potere intenzionato a dare ordine a tutto il resto. Così nel sociale, così nel mentale. Di questo schema, il sacerdote piramidale Platone è l’eterno cantore.

I compiti per il nostro pensiero sono di enorme proporzione, di proporzione epocale. Più tardi comprenderemo l’esigenza di questa radicale rifondazione , meno possibilità avremo di soluzione.

Altri tre articoli su Platone rinvenibili sul blog: 1), 2), 3).

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[1] La fondazione è il primato del tempo ovvero ciò che viene fatto per primo ha conseguenze decisive per ciò che verrà fatto dopo.

[2] Il pensiero platonico è assai vasto ed articolato e non necessariamente sistematico, da cui le possibilità per una eterna re-interpretazione. Per “cuore” ci si riferisce a ciò che si ritiene la matrice essenziale, ciò da cui anche il resto scaturisce ed a cui tutto il resto, risponde nelle forme logico-strutturali.

[3] F. Nietzsche nella sue giovanili lezioni di Basilea, su Platone: “L’uomo dei concetti giusti vuole giudicare e governare: credere di possedere la verità rende fanatici. Questa filosofia partiva dal disprezzo della realtà e degli uomini: essa ben presto rivela una tendenza tirannica” F. Nietzsche, Plato amicus sed, Introduzione ai dialoghi platonici, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.

[4] E’ tesi (non solo di chi scrive), che la struttura del Timeo, ricalchi in parte, l’idea alla base dell’Antico Testamento, udita di rimbalzo o in diretta in quel viaggio in Egitto che non si sa se Platone effettuò davvero o meno. Ci riferiamo al demiurgo, ovviamente, oltre che all’atmosfera da “Genesi”. Il richiamo all’autorità di Solone da cui provverrebbe la storia raccontata nel Timeo, come di storia da lui riportata da un incontro in Egitto, direbbe e non direbbe di questa possibile origine. Per lungo tempo, nel Medioevo, il Timeo sarò l’unico testo direttamente accessibile di Platone. Sempre in Egitto, Platone avrebbe potuto avere contatto con il filone antichissimo della sapienza sacerdotale, come prima di lui Pitagora. Diogene Laerzio, apre le sue Vite dei filosofi, riportando notizie di una lontana origine di un canone sapienziale (poi, in parte confluito nel Corpo Ermetico), antico quattro-cinquemila anni prima dei tempi di Platone. Questo canone amalgamava linguaggio-scrittura con aritmo-geometria e cosmo-magia. Ne parla anche Giambilico il quale vi vede le radici del pitagorismo-orfico e vi fa riferimento Platone stesso, di nuovo, nel Timeo. Per altro, Platone si occupa di egiziani e delle “antiche radici” del sapere anche in Fedro, Filebo e nell’ Epinomide. Anche Aristotele vi fa riferimento in Metafisica sostenendo che matematica-geometria-astronomia originavano da lì anche seguendo Isocrate che sosteneva che la “philo-sophia” (la prima comparsa certa nei testi greci del termine è appunto in Isocrate) fosse stata insegnata dagli egizi a Pitagora e da questi importata nell’ambito greco. Marx giudicò l’intera Repubblica, una idealizzazione del sistema delle caste egizie piantato sulla divisione del lavoro e si noti che nel Busiride di Isocrate (scuola ateniese concorrente con quella platonica), composto prima le ipotetiche prime stesure di Repubblica, questo richiamo alle tradizioni egizie è del tutto esplicito e chiarificatore.  Da Erodoto a Pausania, sono decine le testimonianze antiche di questa discendenza. Ma la rifondazione della tradizione occidentale ariano-romantica, che si sovrappose a quella ebraico-cristiana (sostenute anche dalle infatuazioni rinascimentali, non meno euro-centriche) , tese a recidere tutti i legami con ciò che proveniva da prima del -700, -800 (non si va più in là di Esiodo-Omero, tra l’altro, posdatati). Il simbolo dell’Occidente è Atena (non a caso bionda e con gli occhi azzurri in alcune versioni), nata già adulta ed armata. La narrazione delle origini della filosofia dagli Ioni di Mileto, segue questa impostazione di -Greci principio d’Occidente non principato (ex nihilo)-.

[5] Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, Vol I, Laterza, 2003) ad esempio, riferisce che Aristosseno (peripatetico) affermava che larghe parti della Repubblica, fossero  state diciamo così “copiate” dalle Antilogie di Protagora. Lo stesso di Aristosseno avrebbe affermato Favorino di Arles (ma il giudizio era forse interessato essendo un neo-sofista).

Platone fa raccontare proprio a Protagora (nell’omonimo dialogo) il mito del senso della giustizia distribuito da Ermes per conto di Zeus a “tutti quanti”, proprio quel senso della giustizia che fa da filo rosso alla ricerca della Repubblica. Ma quel filo rosso che Protagora immagina legare “tutti quanti” e che porta alla democrazia, nell’elitista Platone diventa il fiocchetto che premia uno solo: il re-filosofo, l’Uno-Bene. Nella nota precedente abbiamo citato il Busiride di Isocrate (scritto un decennio prima della Repubblica e che si trova su Google libri nell’edizione di Labanti del 1813, da pg.61) dove il sistema della divisione del lavoro, con tanto di custodi guerrieri e filosofi-re è presentato in forma esplicita. Pare fosse generalmente noto, ai suoi tempi, che Platone avesse tratto quella costruzione dalla tradizione egizia e che lo stesso Platone, indispettito da questi rilievi, invertì la causalità storica nel Timeo, affermando che gli egizi discendevano da più antichi greci.

DL poi, riferisce anche che, ancora in vita, Socrate avrebbe esclamato “Per Eracle! Quante menzogne mi fa dire il giovinetto” all’ascolto di una pubblica lettura di Platone.

[6] C’è anche la possibilità che l’autore Platone possa essere sfumato e che i dialoghi, in taluni casi, riflettano esercizi dialettici collettivi in seno all’Accademia. Questo, oltre a riquadrare le numerose incongruenze delle opere scritte, metterebbe nella giusta posizione il filosofo che non credeva più solo bastante l’insegnamento orale ma non credeva possibile divulgare l’intero suo pensiero nella forma scritta. L’idea che l’Accademia fosse un think tank di cui Platone era il perno, non è stata portata alle estreme conseguenze come via interpretativa. Eppure le numerose aporie, il tornare indietro su certe convinzioni, il mutare angolo visuale su problemi già nettamente definiti diversamente, troverebbero così una sistemazione logica ed oltretutto, un accordo con ciò che lo stesso Platone dice più volte a proposito della comunità di pensiero, del dialogo-dialettica, dell’orale-scritto, sulla ricerca sempre aperta, nonché dar ragione della sua poliforme discendenza (dogmatica, scettica, teologica) etc. . Inoltre la struttura dell’Accademia non era sul modello Cristo e dodici apostoli, c’erano filosofi fatti e formati con idee in parte diverse da quelle di Platone e non solo “discepoli”. Ad esempio, il famoso “argomento del terzo uomo” che inizia la discussione del Parmenide, dialogo nel quale appare un “giovane Aristotele” che l’autore si premura di specificare essere non colui che poi sarà filosofo, è proprio l’argomento con il quale l’Aristotele filosofo a noi noto, inaugura la sua critica radicale al sistema delle Idee in Metafisica. L’ipotesi interpretativa sulle “dottrine non scritte”, si accorderebbe con questa ipotesi generale.

[7] Ricostruire questa vasta influenza non è qui possibile. Per farsene una idea, si dovrebbero seguire le linee dirette (quelle rintracciabili nella Storia della filosofia) ma anche quelle indirette poiché ad esempio, la separazione mente-corpo (attribuita nel moderno a Descartes) ebbe effetti più ampi di quanto non si legga in filosofia, così per il concetto di “anima”. Alcune determinazioni ontologiche hanno effetti che oltrepassano questa o quella corrente filosofica. Così per l’atteggiamento idealista o la convinzione che vi sia una meta-struttura matematica del mondo che ritorna con la celebre dichiarazione di Galilei sul libro della natura. Così per tutte le forme di elitismo dei migliori (che troviamo addirittura in Nietzsche che passa altresì per un suo “critico”) o per l’assunzione di una “etica dalla natura”.

[8] La piramide è un apriori che Platone riceve dalla mistero-aritmo-sofia pitagorica, la quale, a sua volta, la trae probabilmente dall’antica sapienza sacerdotale egizia. Ciò che è (ontologia – livello base) è oggetto della nostra conoscenza (gnoseologia – livello intermedio) ed entrambi tendono all’ Uno – Bene (assiologia – livello cuspide). E’ questa la longeva metafora di orientamento delle relazioni Io – Mondo (l’Io si impone sul Mondo) ed Io – Altri (alcuni Io s’impongono “naturalmente” su gli altri) che intesse il modo occidentale di stare al mondo. A seconda che il “sacerdote della piramide” parli di Re, Dio o Idea, diventa politico, teologo o filosofo.

[9] Sul vantato “parricidio” di Parmenide (Sofista) chi scrive ha idee personali. In verità non ci pare Platone si riferisse allo stesso oggetto del pensiero parmenideo. In Parmenide l’essere che è Uno e non può -non essere- è l’olon, il Tutto. Il Tutto è Uno e siamo noi a suddividerlo in contraddizioni oppositive (posizione non diversa da quella di Eraclito che però parlava di logos). Platone invece ha tutt’altro problema, quello di contrastare gli assurdi sofistici i quali però, come poi Platone, si riferivano all’Uno individuale, alla specifica cosa che è o non è. Il perché la critica conformista sia unanime nel ripetere e ripetere di questo presunto “parricidio”, solo di sfuggita citando la differenza non da poco tra “essere assoluto” ed “essere relativo”, rimane un mistero dell’ermeneutica platonica.

[10] Si noti l’assurdità del ragionamento ripetuto senza piega in tutte le sinossi critiche su Platone: poiché ciò che diviene è non essere e del non essere non ci può esser conoscenza, allora… . Ma noi nel Mondo non partecipiamo all’astratto campionato della conoscenza, noi abbiamo la facoltà conoscitiva per conoscere il Mondo, è la conoscenza a doversi piegare al Mondo, non il Mondo ad essere ibernato, unificato, semplificato per entrare nelle formine delle nostre ridotte facoltà cognitive. Tra i tanti miti proposti dall’ateniese, ci sarebbe stato bene il Letto di Procuste. Infine, per recidere ogni possibile relazione tra Io e l’orrido Mondo, quando giungiamo alla verità non è perché l’apprendiamo nella relazione tra noi e Mondo, ma è perché ci “ricordiamo” (anamnesis) di essere frammenti di eternità momentaneamente caduti, angeli smemorati di passaggio nel Purgatorio terrestre. Questa “favola bella” c’illuderà per secoli, lasciando il campo ai Pochi intenzionati e decisi che costruiranno il paradiso in terra per loro, su quello che è  l’inferno per noi.

[11] Si noti che poiché solo delle Idee e degli enti aritmo-geometrici è possibile conoscenza certa e vera, con ciò s’impone il doppio canone dell’idealismo semantico (filosofico) e sintattico (matematica). Tutto il moderno matematicismo (e molto logicismo) è fondamentalmente idealista. La più recente versione di ieratica casta sacerdotale del Vero come è vero che 2 + 2 fa 4, sono gli economisti i quali dicono senz’altro la verità interna (corrispondenza auto-logica dati gli assiomi di partenza) nei loro algoritmi descrittivi e predittivi. Peccato che la loro verità non abbia alcuna attinenza con la realtà. Come per i preti del Medioevo, accendendo la televisione ed ascoltando questi Grandi Interpreti del Mondo, si  può assistere a quel rito apparentemente inspiegabile che è la “sospensione di massa del buon senso”. Come nelle prediche medioevali, la Provvidenza non è che non funziona più (la mano invisibile del mercato), siamo noi peccatori a neutralizzarne l’azione perché commettiamo troppi peccati (debiti, lavoriamo troppo poco, siamo troppo rigidi socialmente, non ci predisponiamo al sacrificio).  Pentiamoci! Forse certi annunci squillanti come quello di Weber sul disincanto o quelli di Nietzsche sulla morte del dio, hanno celebrato eventi della forma ma non della sostanza. Il pensiero magico-teologico non è solo una forma culturale ma anche genetico-mentale.

[12] La dialettica platonica è la riforma del dialogo. Dialogo è logos tra due, è intrinsecamente relazione, la verità è intrinsecamente relativa ai due ed alle loro facoltà di accordo, all’accettazione della convenzione che li lega. La dialettica platonica è mostrata come dialogo, ma in realtà è un docente (Socrate) che invita un discente, ad usare la scala “apri-chiudi” dei concetti, salita la quale si giunge alla “Verità”. La dialettica platonica è come il cursore delle cerniere lampo. A scendere apre due corsi (di cui uno da non seguire, l’altro sì), a salire, unifica i due in uno, fino all’uno più Uno che c’è, il Bene. La dialettica hegeliana è solo all’in su e promette, semplificando, che da A e non A venga fuori B. Da un certo punto di vista sono utili al pensiero inter-soggettivo ed alla relazione conoscitiva di Io e Mondo, tutte e due. Diventano dis-utili quando si assumono come metodo unico ed infallibile per coartare il Mondo alle nostre esigenze di dominio cognitivo. Nel trattarli come “strumenti” o come “leggi del pensiero” passa la differenza tra la loro utilità e la loro dis-utilità.

[13] In generale quel pensiero che “…obbliga l’anima a servirsi della pura intelligenza per attingere alla verità in quanto tale” Repubblica, VII 526B.

[14] C’è una differenza essenziale tra il Socrate storico e il Socrate del ventriloquo Platone. Quello platonico parla solo ad una ristretta cerchia di “eletti” in grado di partecipare ad un dialogo chiuso entro delle convenzioni condivise. Quello storico parlava al mercato, curava la polis non l’élite della polis. Nel rimproverare a Socrate la sua liberalità ingenua, il suo pensare di poter parlare del Tutto con tutti, invece che coi Pochi, Platone mostra di non aver compreso affatto l’idealità sincera e popolare della missione socratica.

[15] Per spendere una ultima, positiva, parola su Platone, bisogna dargli atto che una nuova consapevolezza emerse nel suo pensiero laddove ipotizzò la necessità di una sorta di federazione delle poleis, della fine della guerra interna in Grecia, di un ordine appunto “complesso” in luogo della riduzione ad Uno quale poi opererà Alessandro. Per altro convinzione dei suoi tempi, condivisa da Isocrate. Purtroppo questa intuizione non poteva retroagire sulle sue idee sull’ordine sociale perché la sua costituzione aristocratica, confliggeva con questo pensiero. Inoltre, Platone come molti pensatori politici (ad esempio Marx), non è poi così utopico come si ritiene. La parte politica di un pensatore è sollecitata sempre dalla contingenza. La disfunzione democratica e tirannica per l’Atene platonica, darsi leggi e costituzioni scritte e certe in luogo dell’arbitrio dell’Uno per Aristotele, il buono e cattivo governo dei principati per il Machiavelli, il tutti contro tutti dei clan anglosassoni per Hobbes, dar ragione della proprietà come diritto di natura a sostegno della legittimità del Bill of Right per Locke, la tensione strutturale delle ineguaglianze per Rousseau, tensioni non risolte che poco dopo sfoceranno nella Rivoluzione francese, il ritardo nella costituzione di uno stato unitario nella Germania di Hegel, l’opportunità di infilarsi nel turbinio rivoluzionario di metà XIX° secolo per dar soluzione dell’infinito problema del dominio dell’uomo sull’uomo per  Marx. Il filosofo politico, anche il filosofo utopico con un programma di cambiamento radicale, come ogni uomo, vorrebbe vedere le soluzioni in atto, vorrebbe vedere il suo pensiero agire al presente, ma la complessità dei cambiamenti, maggiore tanto maggiore è l’entità e profondità del cambiamento richiesto, gli nega questa possibilità. Il filosofo utopico, che è una specie del genere “politico”,  è al servizio di una lontana posterità, ma raramente riesce ad estraniarsi dalla sua contemporaneità. Così come i fenomeni si leggono nella “lunga durata” (F. Braudel) in ciò che sono stati, dovrebbero esser immaginati nella lunga durata per ciò che si auspica potranno o dovranno essere. Dal dominio dell’uomo sull’uomo non se ne esce facendo la rivoluzione.

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