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Soggettivazioni

di Federico Chicchi

infern2Il soggetto come estimità del capitale

Non è per nulla facile costruire una riflessione sistematica sul soggetto. La soggettività è un concetto teorico a dir poco scivoloso, che scappa da tutte le parti quando provi a includerla in paradigma interpretativo.

Il soggetto (come la sua etimologia mostra chiaramente) è al contempo il risultato della presa dell’ordine simbolico sul bios, dell’azione del potere sull’individuo, e al contempo quell’elemento che rende strutturalmente insaturo quello stesso ordine e che bucandolo lo costringe ad un processo dinamico di continua trasformazione. Il capitalismo non è un cristallo.

Il soggetto è in altre parole l’esito dei dispositivi che lo attualizzano e al contempo, osservando il processo di soggettivazione a rovescio, ciò che facendo resistenza a essi costituisce un punto d’inassimilabilità al discorso capitalista. In questo senso possiamo dire che il capitalismo “si nutre” di soggettività ma al contempo deve continuamente “risolvere” il problema di come rendere, quest’ultima, adatta ai suoi processi di accumulazione.

Anche per questo motivo può essere molto utile (se non addirittura necessario) provare a osservare la soggettività sul piano del suo processo di costituzione, (che in fondo è ciò che lo rende consistente fenomenologicamente) e parlare cioè di soggettivazioni piuttosto che di soggetto/i.

 

Proviamo dunque a dirne qualcosa pur sapendo che non si può fare un’ontologia del soggetto. Non esiste alcun soggetto in natura, anche perché la natura così come ne facciamo esperienza non esiste che come produzione sociale. Nessuna archeologia del soggetto è in questo senso possibile e/o auspicabile.

In primo luogo il soggetto non va confuso con quello che riguarda lo psichismo. Non c’è corrispondenza tra psiche e soggetto. Il soggetto non è mai solo un dato individuale. Esso è propriamente un’eccedenza. Un’eccedenza che rende sfasato e mai chiuso il rapporto tra simbolico e reale, tra possibile e impossibile, tra corpo/mente e società.

Inoltre occorre aggiungere che il soggetto, come sottolineano Deleuze e Guattari in Mille Piani, è solo uno degli esiti possibili dei processi di individuazione. Commetteremmo un errore fatale se pensassimo che l’individuazione sia una proprietà esclusiva del soggetto e/o del personale.

Essi definiscono con il termine di ecceità le composizioni di gradi di intensità e le singolarità virtuali che istituiscono sul piano di immanenza le linee astratte che dispiegano la molteplicità del vivente. In Logica del senso Deleuze chiama “contro effettuazione dell’evento” il passaggio da una individuazione personale (dove gli accadimenti sono esperiti come predicati della vita del soggetto) ad una individuazione impersonale di una ecceità. Ecco allora che un soggetto o meglio il suo essere un soggetto è sostituito ontologicamente dal concetto di concatenamento. In quest’ottica mi sembra di poter affermare che le relazioni che è possibile creare sono in realtà svincolate dai nessi di coerenza che il soggetto attribuisce ad esse e le loro sintesi, i loro incontri potranno essere paradossalmente anche disgiuntivi, divergenti, inaspettati. E il soggetto in quest’ottica diventa unicamente un nodo di un possibile nuovo concatenamento (che a sua volta produce nuovi spazi, nuove linee, nuovi territori – il senso è oltre il possibile). Ci torneremo. Questo, infatti, ci pare un passaggio fondamentale per capire il potere che agisce oggi sulle vite nel capitalismo contemporaneo e sulla possibilità di attraversarlo, potremmo dire, spiazzarlo senza che il movimento, il taglio che si produce a livello della soggettività, venga catturato, metabolizzato e messo inevitabilmente a valore in una misura contabile.

Il soggetto è così un concetto di limine, di soglia, ha uno statuto bifido. È il risultato dell’incontro, (mancato) che si deve continuamente produrre, per generare legame tra società e psiche, tra istinti e istituzioni. Tra lettere e linguaggio. Tra ego e nos. C’è il soggetto che è il soggetto dell’enunciato (es: Io mangio) ma anche il soggetto dell’enunciazione. Soggetto che fa il discorso ma che è al contempo fatto dal discorso, come un topo preso in trappola.

Il soggetto (il suo farsi) svolge, in virtù di questa sua condizione anfibia, una funzione di taglio. Anzi possiamo dire che il soggetto è un taglio. È farsi taglio. È il taglio che attraversa la struttura, che così è insatura per definizione. Lacan parlerebbe del soggetto come incontro di quest’ultimo con il piccolo oggetto a, come causa del desiderio, come plusgodere. Soggetto che deve rattoppare, via immaginario, fantasmaticamente, il buco che caratterizza l’Altro simbolico.

 

Il soggetto moderno/assoggettamento

Il soggetto in altre parole è il risultato dell’incontro con l’Altro ma si forma e assume consistenza solo attraverso una serie di atti che producono dei tagli (nel rapporto con l’Altro). Il soggetto è nel taglio, il taglio produce quello che per la psicoanalisi è il soggetto dell’inconscio. Per dirla alla Rimbaud: L’Io è un Altro. L’io diviso dal taglio si fa soggetto, il taglio (particolare) che viene prodotto lo pone tra l’empirico e il trascendentale. Tra il pre-individuale che lo precede e l’individuale.

Bergson: l’attore recita meccanicamente una sceneggiatura ma al contempo si osserva recitare e assume una libertà rispetto al copione. Il soggetto è esattamente questa divisione dell’Io, questo taglio. Questo fare taglio rispetto al copione-inconscio da recitare inconsciamente.

In questo senso Il soggetto è una oscillazione tra il copione che gli è stato assegnato (il ruolo sociale) e il suo dislocarsi rispetto ad esso. In tal senso l’oscillazione lo caratterizza come un divenire soggetto. Il soggetto è in quanto ravvisabile nei suoi atti un processo di soggettivazione, un fatto etico, una prassi e non un fatto ontologico.

Proviamo però a partire da qui per ragionare sulla soggettivazione anche sul piano sociale e politico.

Il soggetto è stato nel moderno, per usare il Marx dei Grundrisse, emergenza dell’individuo sociale[1].

Il concetto di individuo sociale di Marx ci pare rappresenti e implichi al meglio, anche grazie alla efficacia dell’ossimoro che racchiude, il processo di morfogenesi del soggetto moderno che si produce attraverso il lavoro. Il lavoro è, infatti, nella modernità lo spazio privilegiato di riproduzione dell’accoppiamento strutturale tra l’individuo e la società. Il lavoro risulta, in questo senso, il luogo dell’individuazione soggettiva, intesa come tensione metastabile tra collettivo e individuale. Per spiegare meglio tale affermazione è possibile, e doveroso, fare breve riferimento al pensiero del filosofo francese Gilbert Simondon[2]. Quest’ultimo concepisce il soggetto come “l’unità dell’essere in quanto vivente individuato e in quanto essere che si rappresenta la sua azione tramite il mondo”[3]. Tuttavia, e questo è un passaggio centrale per comprendere la questione in gioco, “l’essere psichico non può risolvere in se stesso la propria problematica”, egli deve attingere ad una realtà che lo precede (preindividuale appunto), che è dislocata altrove ma che nello stesso tempo lo attraversa costituendo la possibilità di un’esistenza collettiva. Secondo Simondon, dunque, l’individuazione del soggetto è una tensione, reciproca e irrisolvibile nell’uno o nell’altro polo, tra ambito psichico e collettivo, in altre parole “le due individuazioni, la psichica e la collettiva, stanno in un rapporto di reciprocità e consentono di definire la categoria del transindividuale: quest’ultima intende dar conto dell’unità sistematica dell’individuazione interna (psichica) e dell’individuazione esterna (collettiva). (…) L’individuo non è, quindi, né sostanza né mera parte del collettivo: poiché il collettivo è risoluzione della problematica individuale, bisogna ritenere che la base della realtà collettiva sia già parzialmente contenuta nell’individuo, con le sembianze della realtà preindividuale sempre associata alla realtà individuata”[4]. Sempre per usare la terminologia simondoniana l’individuazione, la formazione del soggetto, è dunque sempre bimodale nel senso che è sempre collettiva e individuale nello stesso tempo. Essa si istituisce solo nella tensione aperta, nel taglio appunto, tra questi due poli che non sono mai “risolvibili” l’uno nell’altro. Seppur provenendo da un’impostazione teoretica molto differente (per esempio nei confronti della psicoanalisi i due non hanno affatto giudizi convergenti) anche Castoriadis ci pare sostenere tale tensione come forma costituente del soggetto. L’evoluzione del soggetto, la sua storia è, infatti, secondo Castoriadis “la storia della socializzazione della psiche, cioè della creazione, grazie al teuchein e al fare degli altri, di un individuo sociale. (…) L’individuo sociale – così come lo fabbrica la società – è inconcepibile ‘senza inconscio’; l’istituzione della società, che è indissociabilmente anche istituzione dell’individuo sociale, è imposizione alla psiche di una organizzazione che le è essenzialmente eterogenea, ma quest’organizzazione, a sua volta, “si appoggia” all’essere della psiche e deve, ineliminabilmente, “tenerne conto”[5]. E ancora: “L’istituzione sociale dell’individuo deve far esistere per la psiche un mondo come mondo pubblico e comune. Essa non può riassorbire la psiche nella società. Società e psiche sono inseparabili e irriducibili l’una all’altra (…). La costituzione dell’individuo sociale non abolisce e non può abolire la creatività della psiche la sua autoalterazione perpetua, il flusso rappresentativo come insorgenza continua di rappresentazioni altre”[6].

Alla luce della impostazione bimodale della soggettività[7], che sopra abbiamo fugacemente esposto, vogliamo allora qui considerare il lavoro come il medium storico-sociale privilegiato del processo di soggettivazione della modernità. Spazio sociale dinamico e sintetico del lato privato del soggetto con il suo lato pubblico (e viceversa). Per questo motivo il destino del soggetto (soggetto e non individuo perché appunto assoggettato, definito, seppur mai interamente, dalla sua condizione costitutivamente transindividuale) è legato al destino del lavoro. La qualità (e per converso la tossicità) della vita sociale è legata a doppio filo al tema del lavoro. L’assenza di tossicità nel lavoro (e quindi assenza di tossicità nel soggetto) dipende, dunque, dal mantenimento di una tensione aperta, dinamica e il più possibile virtuosa tra questi due poli.

Il lavoro è, allora, nel moderno lo spazio sociale dove avviene l’incontro tra la psiche (l’individualità al lavoro) e la società (le forze e i “saperi” di produzione). È una “densità” storica e sociale in cui l’individuo alienandosi nel suo operare/agire si fa (si può fare) soggetto del fare (poiesis) e contemporaneamente del discorso sul fare (praxis).

Come andrebbe meglio approfondito (ma non ne abbiamo qui la possibilità), la storia del lavoro nel capitalismo (il campo socio-storico d’istituzione del lavoro a partire dalla modernità industriale) ci pare possa essere anche letta attraverso la trasformazione qualitativa di questa tensione, a geometria variabile, tra individuo e società, e in particolare come un susseguirsi di configurazioni tipiche del lavoro nelle quali, però, è sempre evidente uno sbilanciamento di uno dei due poli in favore dell’altro. Più in particolare nel capitalismo fordista il lavoro viene socialmente declinato nella forma del lavoro astratto, come esasperazione del polo “impersonale” ed oggettivo del lavoro (il lavoro che agisce il lavoratore come strumento passivo, privandolo della sua essenza generica al trasformare le cose in modo finalizzato) e come disciplinamento rigido della sua tensione soggettiva; nel post-fordismo invece il lavoro diventa lavoro fluido o in termini diversi ma più o meno equipollenti lavoroschizofrenico, come disconnessione/perdita dell’Altro, esasperazione del suo lato singolare e narcisistico.

Nel capitalismo il taglio che la soggettività introduce nel cuore della struttura produttiva è assimilabile a quella che Macherey chiama soggettività produttiva (nel senso che non è solo produttrice). È proprio il fatto che il soggetto è costruito, disposto, progettato, come forza-lavoro che permette la generazione e quindi l’accumulazione del valore.

Tutta la questione del potere capitalistico consiste dunque nel sapere come rendere la soggettività disponibile a produrre adeguatamente in condizioni oggettive determinate. Lagrand riprendendo le analisi di Foucault in Sorvegliare e punire parla invece di discipline che hanno come obiettivo quello di produrre un insieme di disposizioni ad agire che oltrepassano il corpo attuale in un corpo virtuale: capace cioè di aggiungere un sovrappiù a seconda delle condizioni determinate in cui si trova ad operare.

Le norme impongono al soggetto di divenire forza-lavoro. Ma questa imposizione deve avvenire il più lievemente possibile attraverso la produzione sociale di soggettività normalizzate nel lavoro salariato.

Deleuze nel suo libro dedicato a Foucault scriveva in proposito:

“Un potere, persino quando si esercita sulle anime, non procede per mezzo dell’ideologia; e quando pesa sui corpi non agisce necessariamente attraverso la violenza e la repressione.” (p. 45)

Possiamo denominare il divenire forza-lavoro del soggetto salariato come un processo di assoggettamento al macchinico e alla fabbrica. La facoltà intrinseca al soggetto di produzione di eccedenza viene, in altri termini, disciplinata e formata per produrre plusvalore e per agire nei termini di un certo tipo di razionalità.

Le cose invece si complicano per il Capitale quando la soggettività così prodotta diviene, in virtù della sua capacità di organizzazione in collettivi (formazione della classe per sé), e dei limiti culturali ed economici esogeni, un ostacolo all’accumulazione di plusvalore secondo il regime fordista.

La produzione di soggettività deve allora essere rivista dal potere dentro nuove ed efficaci determinazioni.

 

Il soggetto contemporaneo/impressioni

Non si tratta più, nel postfordismo, di assoggettare il corpo/soggetto alla produzione macchinica della fabbrica, rendendolo docile e prevedibile nei suoi movimenti e costretto alla cooperazione produttiva, ma di sollecitare fino in fondo le sue qualità comunicative, creative, simboliche, combinatorie e affettive. Inoltre non è più solo il lavoro a essere il mezzo della sua azione di valorizzazione, quest’ultima avviene contemporaneamente “nella metropoli” e nella fabbrica, confondendo tutte le sfere (riproduzione-produzione; lavoro-tempo libero, produzione-consumo, ecc..) che avevano caratterizzato la formazione del soggetto salariato. Lo sfruttamento delle qualità soggettive per la valorizzazione dei processi di accumulazione non passa, cioè, più necessariamente dalla postura del lavoro salariato e dall’educazione “forzata” a esso confacente. Il capitale precarizzando/fragilizzando il rapporto salariale risponde quindi in tal senso all’esigenza di posizionare il processo di soggettivazione direttamente o in prossimità delle macchine desideranti.

“L’ultimo problema della schizoanalisi non è solamente lo studio positivo delle macchine desideranti ma lo studio positivo della maniera in cui le macchine desideranti procedono all’investimento delle macchine sociali, sia formando degli investimenti di libido di tipo rivoluzionario, sia formando gli investimenti libidici di tipo reazionario.” (Deleuze, Corso Vincennes - 16/11/1971)

L’economia, anche in virtù della disponibilità dei nuovi paradigmi tecnologici, imprime la vita tout court dentro processi di soggettivazione dispositiva che hanno immediatamente una tangibilità economica, anche senza passare per uno spazio negoziale di compravendita. Non si tratta più solamente di piegare la vita dentro il lavoro per poter poi estrarre dalla forza lavoro il sovrappiù utile alla valorizzazione del capitale, l’intera vita è curvata dentro processi di soggettivazione che si caratterizzano in quanto impressionati sulla nuova pellicola economica del processo di estrazione del valore. Pensiamo a quello che ha scritto Christian Marazzi sui processi di finanziarizzazione della vita. Il governo delle vite (governamentalità) avviene cioè secondo processi che assumono immediatamente il taglio che la soggettività produce, all’interno delle procedure di valorizzazione. L’economico diventa il regime di verità che il soggetto atomizzato in formazione abita senza vederne i confini artificiali. Immerso in una sorta di seconda natura. Sono i caratteri propri del biopotere.

Non è un caso che l’economia politica così come l’abbiamo conosciuta attraverso i suoi classici perda di rilevanza teorica. L’attacco del neoliberismo è infatti rivolto alla temporalità che il lavoro organizzava come traiettoria di assoggettamento. Il neoliberismo – i marginalisti e i monetaristi – erodono l’assetto di governo delle vite basata sui principi della generalizzazione della fabbrica (teoria economica classica) dove il nesso tra politica ed economia era ancora visibile e la loro sovrapposizione dialetticamente articolabile (politicizzazione dell’economia e economicizzazione della politica) e assumono una nuova prospettiva che pone al centro i desideri sociali e la loro traduzione in bisogni di mercato. L’interesse individuale e la ricerca di soddisfazione di ogni singolo individuo diventano i nuovi campi di precisazione delle teorie economiche. Con la verità del mercato come principio generale di organizzazione sociale viene messo al centro, disvelandolo, slatentizzandolo, il tema soggettivo. L’economia è economia dei flussi libidici del soggetto. I flussi di desiderio sono ora lasciati al loro spontaneo incrociarsi in modo che producano interessi e si riempiano di soddisfacimenti consumistici. La soggettività viene ora prodotta come impresa individuale e quindi sospinta all’interno dei mercati attraverso suggestioni oblative e di responsabilizzazione che ne sorreggono le eventuali incertezze. L’individualismo espone il soggetto all’arbitrio della competizione, la soggettività viene prodotta sotto le insegne del più spietato darwinismo sociale.

La specificità del nuovo potere è biopolitica perché produce forme di vita. Non si accontenta più di assoggettare la vita ad una postura produttiva ma la inscrive (impressiona) dentro una modalità del desiderare che ha a che fare con la iscrizione della macchina desiderante dentro l’illusione della propria autorealizzazione. Produce quelle che in sociologia sono state definite le trappole della passione.

L’immagine del lavoro viene così rovesciata. Al lavoro salariato si sostituisce una modalità inedita di lavorare che è stato definito come lavoro autonomo di seconda generazione. Lavoro come investimento del proprio capitale umano. L’immaginario del soggetto è portato a scriversi dentro un orizzonte di autorealizzazione che per la maggior parte dei soggetti si rivelerà in realtà esperienza di precarizzazione e fronteggiamento di scarsità continua e progressiva di reddito e servizi. Straordinaria è (sic!) l’ambivalenza del nuovo dispositivo che nel momento in cui produce soggettivazioni apparentemente autonome rende al contempo necessario l’affido dei soggetti sempre più fragili e precari ai nuovi pastori della meritocrazia formativa e del management sociale.

La crisi economica del 2008 offre però oggi la possibilità di generare nuovi attriti. Mostrando con durezza la fragilità di quel mondo immaginario all’interno del quale il soggetto è chiamato a competere e a consumare. Il fantasma della libertà del capitalismo cognitivo e biopolitico mostra improvvisamente la sua fittizia impalcatura reale. Precarietà, sperequazione, nuove subalternità, ritorno dello sfruttamento del lavoro, nuove gerarchizzazioni tornano a mostrare la cruda verità storica del capitalismo.

Ecco allora che fare? Come approfittare del fatto che la soggettività torna a produrre attriti sociali?

Molto difficile fornire una risposta. Aggiungerò solo che si tratta di contrapporre alla produzione di soggettività capitalistica e neoliberale una produzione di concatenamenti in modo tale da trovare la strada dell’infedeltà ai segmenti che ci costringono. Produrre nuove istituzioni vuol dire dare tempo ai concatenamenti di generare e infondere desiderio. Rendere sperimentabile una temporalità del comune. Fare legame e aprire orizzonti impossibili.

“Ecco cos’è il desiderio. E costruire un concatenamento, significa costruire una regione; significa davvero concatenare. (…) Il concatenamento è un fenomeno fisico, è come una differenza. Perché accada qualsiasi evento c’è bisogno di una differenza di potenziale e ci vogliono due livelli, bisogna essere in due, allora accade qualcosa. Un lampo o un ruscelletto, e siamo nel dominio del desiderio. Un desiderio è costruire. Tutti noi passiamo il tempo a costruire. Per me quando qualcuno dice “desidero la tal cosa”, significa che sta costruendo un concatenamento. Il desiderio non è nient’altro.” (Deleuze, Abécédaire,”D come desiderio”)



[1] Il concetto di individuo sociale è stato coniato da Karl Marx in un celeberrimo passaggio (il frammento sulle macchine) dei Grundrisse. Esso crediamo colga nel segno, interpretando la tensione irriducibile tra individuo e società che attraverso il lavoro fonda la morfogenesi del soggetto moderno.

[2] Seguendo, seppur solo in parte, l’argomentazione di Paolo Virno che mira a sostenere l’esistenza di una forte connessione semantica tra il concetto di preindividuale di Simondon e il concetto di individuo sociale di Marx: “Nell’aggettivo “sociale” (del concetto di individuo sociale n.d.r.) occorre ravvisare le fattezze di quella realtà preindividuale, che secondo Simondon, pertiene a ogni soggetto” Cfr. P. Virno “Moltitudine e individuazione”, in G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma, 2001, p. 238. In realtà il “sociale”, pur facendone parte, ci pare non esaurire la dimensione pre-individuale della vita. Quest’ultima ha una maggiore “profondità”, riguarda infatti anche una dimensione intensiva e virtuale: ciò che sarebbe potuto essere e non è stato, realtà del possibile.

[3] G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma, 2001, p. 32.

[4] Ivi, pp. 32-33.

[5] C. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, cit., p. 175.

[6] Ivi, pp. 204-205.

[7] In termini filosofici la natura bimodale del soggetto, che si iscrive nel tempo storico attraverso le facoltà umane del dire e del fare, informa che la “presa di coscienza” del soggetto non appartiene ad un movimento di ordine psicologico ma ad una operazione la cui natura è essenzialmente logica (e quindi anche preindividuale): l’iscrizione del singolare nell’universale. Tale forma della soggettività afferma che senza questa “ambiguità” il singolare si dissolverebbe in un soggettivismo vuoto e vacante, mentre l’universale si trasformerebbe in una vacua ed inconsistente generalità..
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