Print Friendly, PDF & Email
il rasoio di occam

Perché “la scintilla di Caino”?

di Carlo Augusto Viano

Da non molto è sugli scaffali delle librerie l’ultimo libro di Carlo Augusto Viano, “La scintilla di Caino”. Nel testo che segue, Viano presenta al lettore del “Rasoio di Occam” le principali direttrici argomentative del libro, e spiega a quali usi si è dovuto piegare nella storia del pensiero il concetto di “coscienza”

la-scintilla-di-caino-499Non ho mai avuto particolare simpatia per la parola “coscienza” e, soprattutto, per i discorsi, specialmente i discorsi filosofici, che si fanno sul suo conto, anche se, quando ho fatto il mio apprendistato filosofico, quella parola era l’insegna dell’idealismo e dello spiritualismo e condiva tutte le filosofie edificanti, né mancava nelle consuete celebrazioni del primato dell’uomo, contrapposto alla natura. In tempi più recenti, ho assistito al consumo di due suoi usi, che si erano consolidati in importanti tradizioni culturali. Infatti il termine “coscienza” aveva assunto particolare rilevanza in formule quali obiezione di coscienza e libertà di coscienza, strumenti di rivendicazioni morali, politiche e giuridiche o espressioni di diritti costituzionalmente protetti. Ebbene proprio questi usi della coscienza si sono consumati. L’obiezione di coscienza al servizio militare, dopo essere stata estesamente invocata in modo opportunistico, ha perso senso in seguito all’abolizione della coscrizione obbligatoria, almeno in molti paesi liberali e democratici, nei quali era pur stata riconosciuta.

Il richiamo alla coscienza è comparso nell’etica medica per richiamare i medici al rispetto dei malati e ha preso la forma dell’obiezione di coscienza quando, in Inghilterra, si è manifestata la resistenza di genitori all’obbligo della vaccinazione antivaiolosa dei loro bambini.

Nel campo sanitario è accaduto qualcosa di analogo a ciò che è accaduto quando anche i generali, ottenuti gli eserciti costituti da soldati di professione, hanno smesso di opporsi all’obiezione di coscienza: anziché i pazienti o i familiari di pazienti, all’obiezione di coscienza sono ricorsi i medici, per negare ai cittadini le prestazioni, come l’aborto o l’interruzione di cure straordinarie, alle quali la legge aveva dato loro diritto.

Infine la libertà di coscienza, in gran parte equivalente, in origine, alla libertà religiosa, che si riferisce a realtà pubbliche facilmente riconoscibili, si è estesa alle libertà individuali, da opporre a qualsiasi forma di imposizione. Essa ha avuto applicazione specifica nella dottrina e nella pratica politiche, a difesa della libertà degli eletti nelle istituzioni rappresentative, nelle quali essi possono svolgere il proprio compito in piena indipendenza, senza vincolo di mandato, sottraendosi alle imposizioni di partiti, chiese e perfino degli elettori. Una svolta si è delineata da quando si è presa l’abitudine di invocare la libertà di coscienza nelle questioni dette “eticamente sensibili”. Da tempo è invalsa la moda di invocare l’etica, spesso l’etica e la morale insieme, come se fossero separate da chissà quali differenze; in realtà perché non si sa bene che cosa significhino. Di fatto, proprio nelle questioni eticamente sensibili, si sono viste prese di posizione non proprio qualificabili come coraggiose manifestazioni dell’indipendenza personale: il più delle volte abbiamo assistito a evidenti forme di conformismo, compiacente verso religioni, e allo scrupolo di non contrastare credenze capaci di influire sulle scelte degli elettori. La politica va così, ma la coscienza c’entra poco.

Fenomeni quali quelli ai quali ho accennato dovrebbero turbare gli affezionati a dottrine filosofiche che facciano della coscienza qualcosa di affidabile, il luogo in cui si è posti di fronte a se stessi e non c’è posto per le menzogne. Non è mancato chi ha messo in guardia contro il primato della coscienza o contro la sua interpretazione in termini di interiorità: si è scritto sul “mito dell’interiorità”, si è detto che il linguaggio con cui, nella coscienza, parliamo a noi stessi è un linguaggio pubblico e che la coscienza è addirittura fuori di noi. Sfugge però in queste interpretazioni il lato oscuro e ambiguo dei richiami alla coscienza, che mettono in gioco contenuti pubblici presentati come privati, ai quali solo il titolare della coscienza ha accesso. Non si tratta di un errore della coscienza o del suo uso, da correggere con qualche filosofia, ma dell’uso effettivo ed efficace della coscienza. Quando il peggior malfattore dice “ho la coscienza a posto” o “io so, nella mia coscienza, quali erano le mie intenzioni”, chi gli nega il diritto di accampare queste scuse? Ma chi ignora che esse non vanno prese sul serio? Quando, messo alle strette, uno si appella alla propria coscienza, non gli si fanno storie, anche se si può prevedere ciò che dirà: ciò che dicono tutti in quelle condizioni.

Privati dei mezzi di conoscenza più affidabili, i filosofi hanno rivolto l’attenzione al linguaggio ordinario, cercando di enunciare le sue regole e, almeno qualche volta, di regolarizzarlo: sono generalmente i filosofi che hanno visto nella logica contemporanea lo strumento più adatto per dar conto dell’affidabilità delle conoscenze in generale e il solo di cui i filosofi possano in qualche modo appropriarsi. A chi batte questa via piace di solito l’idea che la filosofia sia una forma di argomentazione; io ho avuto una formazione del tutto diversa e mi sono addestrato essenzialmente con pratiche storiografiche. I filosofi non hanno mai sopportato gli storici, in particolare gli storici della filosofia, specialmente quando questi pretendono di dire qualcosa di rilevante: li considerano spesso come i fotografi nelle cerimonie di nozze, dai quali si attendono belle inquadrature e la distruzione delle immagini degli sposi con l’aria annoiata.

Scrivendo La scintilla di Caino non ho preteso di dare la storia completa e sistematica dell’idea di coscienza, ma mi sono limitato a mettere insieme storie di coscienza, per dar conto di alcuni dei suoi usi. Servendomi di strumenti storiografici, cioè raccontando storie, ho cercato di mostrare come ci siano usi dell’idea di coscienza che non hanno pretese, come quando si dice “ho scrupoli di coscienza”, “ho la coscienza pulita”, “quello non ha coscienza”, dei quali filosofi, teologi, giuristi, ideologi, attivisti sociali hanno cercato di impossessarsi, per costruirvi su dottrine, disciplinando ciò che nell’uso corrente era elastico e ambiguo.

Nelle storie che ho raccontato nella Scintilla di Caino le vicende vissute dalle idee di coscienza presenti nella nostra tradizione culturale hanno sempre qualcosa di accidentale, come se fosse difficile eliminare ambiguità ed elasticità che caratterizzano gli usi correnti di quel termine. I filosofi antichi sapevano che ci sono scrupoli di coscienza, ma li lasciavano a poeti e oratori. Sapevano anche che esiste una conoscenza di sé, che accompagna la conoscenza delle cose, perché si guarda un tavolo e si sa di guardarlo; e sapevano che lì si potevano collocare cose come gli scrupoli. Ma non amavano intrattenersi su queste cose: la filosofia serviva appunto a non incappare negli scrupoli. Soltanto Aristotele diede una posizione speciale alla conoscenza di sé, facendone l’unica conoscenza che il motore immobile, cioè la suprema divinità, può avere, perché la conoscenza di qualsiasi altra cosa, necessariamente inferiore a un’entità così elevata, la diminuirebbe. Divina e malinconicamente solitaria la conoscenza riservata a quanto di meglio possa esistere! Per trovare riferimenti alla coscienza morale meglio leggere Sofocle, Isocrate, il Cicerone oratore o Apuleio, che la trova in un capo brigante.

L’idea di coscienza riceve uno statuto quando si delinea una dottrina cristiana, nella quale entra però in modo laterale, quasi marginale. Paolo di Tarso trova a Corinto un ambiente difficile, in cui subisce il confronto con altri predicatori, che forse hanno più cultura e più capacità di lui. Inoltre ci sono cristiani ebrei, che non sono disposti ad abbandonare i propri tabù alimentari e a dividere con i gentili, neppure con quelli fattisi cristiani, le carni degli animali sacrificati nei templi. Per affrontare questi problemi, Paolo ricorre alla coscienza. I fedeli che hanno scrupoli sulle carni sacrificate agli idoli hanno la «coscienza debole» e, per non perderli, con loro bisogna essere indulgenti. L’indulgenza non è l’essenza dell’insegnamento paolino, imperniato semmai sulla forza che dà lo spirito, dominatore della carne, immune dagli scrupoli che affliggono le coscienze deboli. Può darsi che a Corinto ci fosse una cultura ebraica penetrata dalle idee di Filone di Alessandria, il quale ricavava dagli scrupoli di coscienza testimonianze dell’esistenza della legge, un tema tanto importante per la cultura ebraica. Forse in difficoltà con quell’eredità dell’ebraismo, Paolo chiamava a testimonianza del valore della propria opera di predicatore la coscienza, in cui Dio guarda direttamente. Infatti all’idea della coscienza scrupolosa Paolo univa quella della coscienza come rapporto diretto con Dio, che scorge le intenzioni reali delle persone. Erano dunque le circostanze che suggerivano a Paolo le interpretazioni della coscienza. E la circostanza di promettere la risurrezione dei credenti in mezzo a ebrei e pagani suscitava alcune domande: quale sarebbe stato il destino dei giusti vissuti prima di Gesù? I giusti ebrei avevano la legge, anche se Paolo non era molto propenso a concedere molto alla legge, perché di lì nascevano le resistenze ebraiche alla sua predicazione e gli scrupoli fastidiosi delle coscienze deboli. E i romani, che non avevano potuto conoscere la legge né Gesù e non avevano neppure potuto vivere l’attesa di Gesù? Paolo non doveva essere molto preoccupato del destino dei romani, ma, se proprio doveva dare una chance anche a loro, c’era la coscienza, che è il luogo in cui si rivela qualcosa che assomiglia alla legge naturale. È un accenno non chiarissimo in un testo beve e aspro, tutt’altro che centrale nell’insegnamento paolino.

Un altro accidente si inserì nella storia della coscienza quando Girolamo si trovò a mettere insieme la teoria filosofica dell’anima, che all’anima assegnava tre parti, con la visione di Ezechiele, in cui comparivano quattro figure. Girolamo se la cavò aggiungendo una parte all’anima, che, oltre alle parti in cui stanno, rispettivamente, i desideri, le emozioni e i ragionamenti, ne acquistò una quarta, una specie di scintilla, capace di illuminare anche nelle condizioni più sfavorevoli, non estinta neppure in Caino; era la parte superiore alle altre, raffigurata dall’aquila, presente, oltre al bue, al leone e all’uomo, nella visione di Ezechiele. Quando doveva trovare una parola greca equivalente a “scintilla” Girolamo usava termini che trovava nei padri orientali: sinteresi, che evocava qualcosa come la preservazione, e syneidesi, formata da syn, che vuol dire “con”, e eidesi, che vuol dire “conoscenza”, dunque una parola simile alla latina conscientia, formata anch’essa da cum e scientia. I filosofi greci usavano syneidesi per indicare la consapevolezza che accompagna la conoscenza delle cose (l’accorgersi di accorgersi di qualche cosa) e che non ha un particolare valore morale. Girando intorno alla latina conscientia le parole greche sinteresi e syneidesi, per una qualche affinità grafica e fonetica e forse per qualche assimilazione di copisti, finirono per generare la parola fittizia sinderesi, usata per indicare la coscienza, intesa soprattutto in senso morale. Io la incontrai da bambino, sentendo mia nonna dire che “avevano perso la sinderesi” persone che avevano perso la testa; nell’italiano dei piemontesi si diceva anche che “avevano perso la cognizione”. Non mi feci molte domande, lasciando quella parola tra le anticaglie care alle nonne: doveva essere una parola entrata nei linguaggi femminili appresi in chiesa dalle prediche. Avrei rincontrato quella parola nelle aule di filosofia dell’università.

Me la illustrarono nella veste che aveva assunto nella scolastica matura, soprattutto nella versione di Tommaso d’Aquino; ma per prender forma il mostro linguistico rappresentato dalla sinderesi era passato attraverso un lungo processo. Agostino aveva preso sul serio l’accenno di Paolo allo sguardo divino, capace di entrare nella coscienza, dando forza al rapporto diretto tra la coscienza e Dio. Ma soprattutto Agostino aveva sviluppato l’idea paolina che c’è una fondamentale differenza tra i credenti, penetrati dallo spirito e liberati dalla carne, e gli altri, esclusi dalla risurrezione; e la coscienza, aperta allo sguardo divino, è il luogo in cui tutta la condotta umana si rivela a Dio per quello che è. Era però assai pericoloso lasciare che i credenti vivessero nel loro intimo un rapporto diretto con la divinità: meglio assegnare alla coscienza un contenuto fisso e controllabile. La riscoperta del diritto romano nella cultura medievale venne a proposito, per dare alla scintilla, cui aveva alluso Girolamo e che non si era estinta neppure in Caino, qualcosa da illuminare: le norme imperiture della legge naturale, che i giuristi romani avevano riprodotto nel codice di Giustiniano. Il neonato mostro linguistico della sinderesi andava benissimo per dare un nome all’altro mostro, costituito dal travestimento cristiano medievale del diritto civile romano.

Difficile tuttavia espellere dalla coscienza, sia pure diventata sinderesi, gli scrupoli su ciò che si deve fare o si è fatto, ombre che avevano sempre attirato l’attenzione dei letterati e spesso imbarazzato i filosofi. Sono queste le cose che possono minare l’autorità religiosa e indurre i fedeli a coltivare dubbi e sogni di perfezione, rendendoli diffidenti nei confronti dell’autorità. Mentre la gerarchia ecclesiastica sorvegliava le coscienze dubbiose e scrupolose, un teologo come Guglielmo d’Ockham congedava la sinderesi e la sua presunzione di rivelare ciò che è bene o male, trattenendo la coscienza, luogo delle convinzioni soggettive, la sola da seguire, visto che non c’è legge, neppure quella naturale, che possa piegare il volere divino, cui si deve la salvezza o la dannazione. Lutero rivendicherà di fronte a Carlo V i diritti della spontaneità della coscienza, in nome dei quali i protestanti francesi chiederanno garanzie agli eredi di Francesco I e i puritani inglesi protesteranno contro le persecuzioni e resisteranno a esse. Ritorneranno così le coscienze deboli, per le quali Paolo di Tarso invocava indulgenza, presentandosi però, questa volta, come coscienze delicate, cioè particolarmente sensibili alla purezza religiosa e scrupolose nel respingere ogni cedimento all’idolatria. Tra la disciplina religiosa e la resistenza delle coscienze, per cento anni, tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento, l’Europa fu insanguinata da guerre di religione, in mezzo alle quali ci fu anche chi invocò la coscienza per respingere l’uso delle armi. Chi lo fece invocò la leggenda di un cristianesimo originariamente pacifico e avverso all’uso della violenza.

Dopo le grandi guerre generate dall’equilibrio delle potenze europee, la rivolta dei coloni americani contro l’Inghilterra non fu proprio una ripresa delle guerre di religione, anche se le componenti religiose della cultura americana erano rilevanti, ma fu una guerra con forti motivazioni partecipate; eppure in quella guerra il richiamo alla coscienza contro l’obbligo di prendere le armi, obbligo non soltanto sancito dall’autorità, ma condiviso, si manifestò con forza e prese la forma dell’obiezione di coscienza, che dovette essere riconosciuta. I costituenti americani, decisi a respingere tutto ciò che ricordasse una chiesa di stato, quale quella anglicana, non avevano difficoltà a riconoscere che la fede religiosa fosse un fatto di coscienza; e tutte le costituzioni delle singole colonie lo sancivano. Ma non era facile ammettere che in nome della coscienza ci si potesse sottrarre all’obbligo di partecipare alla guerra d’indipendenza: infatti l’obiezione di coscienza fu ammessa, spesso ruvidamente, ma il riferimento alla coscienza non comparve nella costituzione degli Stati Uniti. Qualcuno disse che la coscienza era cosa superiore alle leggi e ai diritti menzionabili in una legge scritta; meglio comunque non evocarla. E quando in Francia, alla fine del Settecento, si scriverà più di una costituzione, la libertà di coscienza non troverà posto tra i diritti dell’uomo; soltanto con il ritorno dei Borboni la coscienza comparirà nella costituzione francese, per scomparire nelle costituzioni repubblicane di Ottocento e Novecento e affacciarsi nel progetto di costituzione elaborato dal governo di Vichy.

Del resto i filosofi moderni non erano stati teneri con la coscienza. Montaigne constatava che la libertà di coscienza, invocata nei trattati di pacificazione religiosa, aveva soprattutto diviso la comunità e aumentato i conflitti; e Hobbes e Locke consideravano i contenuti di coscienza pure credenze personali, con le quali i governi dovevano fare i conti, con maggior o minore liberalità. E Hume, nella sua ricostruzione della storia inglese, vedeva nel richiamo alla coscienza uno strumento con cui i preti avevano cercato di assoggettare la volontà dei sovrani. I rivoluzionari, restii a nominare la coscienza nelle loro costituzioni, in realtà cercavano di condizionare le credenze personali, per ottenere adesioni alla loro causa: un passaggio particolare era avvenuto nella Rivoluzione francese, quando la causa rivoluzionaria aveva assunto un’impostazione patriottica. E dopo la rivoluzione, nell’Europa ottocentesca, la coscienza diventerà un’entità collettiva, come coscienza nazionale o come coscienza di classe. L’esasperazione dei nazionalismi nell’Europa novecentesca e le due grandi guerre mondiali hanno messo in ombra, a partire dal 1945, i temi patriottici, rendendo possibile la ricomparsa della libertà di coscienza nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1946, in un’interpretazione chiaramente individualistica. Soltanto nell’ultimo quarto del secolo scorso, con il comunitarismo, è ritornata la sua interpretazione collettivistica.

Mentre dal Settecento in poi il richiamo alla coscienza, intesa come un aspetto della libertà personale, si affievoliva e finiva con il perdersi del tutto nelle diverse forme della coscienza collettiva, vivevano una loro storia, consumandosi o capovolgendosi, la forma specifica dell’obiezione di coscienza, militare e sanitaria, consumava la propria parabola, nei modi ai quali accennavamo all’inizio.

La Prima e la Seconda Guerra Mondiale avevano visto riconoscimenti crescenti dell’obiezione al servizio militare nei paesi liberali e democratici, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, il Canada e l’Australia. Con la guerra del Vietnam però, non soltanto il numero degli obiettori incominciò a crescere negli Stati Uniti, ma l’obiezione si diffuse anche negli altri paesi liberali e democratici, talvolta rafforzata da vicende particolari, come, in Francia, la guerra d’Algeria. Via via che si diffondeva, l’obiezione di coscienza perdeva i propri caratteri originari e, anziché essere motivata da forti convinzioni personali e rifiuti sinceri della violenza, era opportunisticamente invocata per evitare non soltanto il servizio al fronte, ma semplicemente il servizio militare. Questo fenomeno si diffuse a tal punto, che le autorità dovettero rinunciare a controllare l’autenticità delle motivazioni addotte dagli obiettori. Da ultimo, in molti paesi occidentali, ha tolto senso all’obiezione di coscienza l’abolizione del servizio militare obbligatorio, un passo favorito anche dalle autorità militari, che hanno mostrato di preferire eserciti professionali.

Al precedente dell’obiezione di coscienza al servizio militare si erano richiamati i genitori che, in Inghilterra, nella seconda metà dell’Ottocento, si opponevano alla vaccinazione antivaiolosa obbligatoria dei propri figli: alcuni lo facevano per motivazioni religiose o quasi religiose, ma altri si richiamavano alla coscienza soltanto perché l’obiezione di coscienza aveva già ottenuto un riconoscimento in relazione all’obbligo militare. Gli obiettori contestavano l’autorità dei medici che, in nome della scienza e della salute pubblica, pretendevano di trascurare il potere e la responsabilità dei genitori nei confronti dei figli. Invocando la loro scienza, il progresso e la salute pubblica, i medici si permettevano di utilizzare i pazienti come cavie. La vaccinazione antivaiolosa aveva dato inizio alla pratica dell’inoculazione di sostanze biologiche infette e nelle ricerche sulla sifilide i medici usarono con una certa libertà l’inoculazione di essudato di piaghe veneree, giustificando il sacrificio di persone per il bene della società: non si sacrificavano le vite dei giovani migliori per difendere la patria? Che cosa opporre ai cultori della scienza, se non un appello alla loro coscienza, usando il binomio che sarebbe comparso nell’etica medica e nei codici deontologici? Quando prenderanno sul serio il richiamo della coscienza, i medici crederanno di scoprire che da sempre la loro arte aveva incorporato i dettami di quella che si presentava come la morale tradizionale e pretenderanno di essere, loro, i guardiani deputati a imporla ai pazienti riluttanti. A loro volta i pazienti si appelleranno alla coscienza per respingere le imposizioni dei medici, giustificate non più in nome del progresso scientifico, ma della moralità corrente: la coscienza, che avrebbe dovuto imporre limiti agli spericolati sperimentatori ottocenteschi o ai criminali medici nazisti, dovrebbe suggerire il rispetto della volontà dei pazienti, anche quando le donne chiedono l’interruzione di gravidanze pericolose o indesiderate e i malati terminali la sospensione di cure senza senso. Ma quando giudici e legislatori avranno riconosciuto i diritti di malati e donne e sancito l’obbligo dei medici di tener conto delle loro richieste, ci saranno medici pronti a invocare la coscienza per sottrarsi alla legge e rifiutare prestazioni dalla legge dichiarate legittime. Gli obiettori al servizio militare non avevano forse chiamato in causa la coscienza per disobbedire a obblighi di legge? Ancora una volta la coscienza poteva cambiare di mano ed essere invocata contro quelli che l’avevano invocata in occasioni precedenti. I generali avevano accolto l’obiezione al servizio militare, perché preferivano un esercito professionale, ed erano i medici, contro la cui presunzione di scienziati era stata evocata la loro coscienza di uomini, a invocare la propria coscienza contro le richieste dei pazienti. C’era però una differenza tra l’obiezione al servizio militare e quella formulata dai medici: gli obiettori al servizio militare, anche quando erano stati obiettori autentici, e perfino quando erano stati riconosciuti, avevano dovuto sottoporsi a servizi alternativi, spesso più lunghi e duri del servizio militare, progettati talvolta in modo da esporre gli obiettori agli stessi pericoli degli altri soldati, mentre i medici obiettori operavano in istituzioni sanitarie che praticavano esse stesse l’obiezione di coscienza, come se dentro i muri di un ospedale o tra le pareti di una farmacia albergasse una coscienza, o in certi paesi, nel nostro in modo scandaloso, godevano di protezioni e di facilitazioni di carriera perfino in ospedali pubblici, che avrebbero dovuto garantire a tutti i cittadini la possibilità di godere di diritti riconosciuti.

Più che ripetere le solite considerazioni filosofiche sulla coscienza ho voluto raccontare alcune storie nelle quali l’idea di coscienza ha subito inversioni e consumi. Mi è stato rimproverato di aver impoverito il contenuto morale di questa idea, che talvolta subisce disavventure, ma che ha un uso preminente e significativo nei momenti di crisi, quando occorre rifarsi ai valori morali. Giusto, ma di questi tempi si sente invocare continuamente l’etica e a questi appelli ho voluto sottrarmi, perché non mi piace fare del mio mestiere uno strumento per propagandare valori. Del resto ogni volta che ho assistito a mobilitazioni delle coscienze ho visto soltanto disastri.

Infine non mi sono occupato della coscienza studiata dai biologi, ai quali si è spesso chiesto di trovare nel cervello un posto in cui mettere la coscienza, un posto elevato, da cui essa possa osservare e coordinare ciò che avviene nel sistema nervoso, un tempietto in cui tenere accesa la scintilla immaginata da Girolamo. Ho l’impressione che i biologi stiano costruendo un quadro un po’ anarchico del cervello, in cui non c’è posto per un capo o un pilota, capaci di scorgere tutta la nave e di tenere disciplinata la ciurma. Chi è affezionato all’idea della coscienza morale insiste perché quel posto si trovi e, se i biologi, che hanno occhio soltanto per la materia, non lo trovano, vuol dire che perfino Girolamo era stato un po’ grossolano, quando aveva usato la metafora della scintilla, perché si tratta di spirito, che agisce senza consumare energia, attraverso intenzioni e norme, sottraendosi alle leggi materiali. Non ho voluto addentrarmi in cose che non so, ma mi è sembrato che raccontare storie poco edificanti della coscienza si accordasse con l’idea che la nostra vita cosciente ospita illusioni, deformazioni, alternative postume e ingannevoli, e non è la parte preponderante né dominante della nostra vita. Freud ha detto che l’inconscio è tanta parte di noi, ma l’ha concepito prendendo a modello la parte inferiore dell’anima, quale la immaginavano filosofi ossessionati dalla ragione, e attribuendo all’inconscio storie simili a quelle vissute in modo consapevole, poi dimenticate. Forse le cose sono più complicate di così.

Add comment

Submit