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Come ripensare oggi crisi e patologie sociali?

di Rahel Jaeggi

Dal 28 maggio si troverà nelle librerie italiane il testo ("Alienazione", a cura di Giorgio Fazio) che ha dato notorietà a una figura della filosofia tedesca contemporanea, Rahel Jaeggi, di cui si è già avuto occasione di parlare sul Rasoio di Occam. Qui, per gentile concessione della casa editrice (Editori Riuniti Int), pubblichiamo come anteprima un estratto del libro

alienazione 510«Ancora un altro lavoro sull’alienazione?».[1] In questo modo, o in modo simile, cominciavano ancora all’inizio degli anni Ottanta molti libri, a cospetto della sovrabbondante letteratura secondaria sul tema. Oggi la situazione è mutata. Il concetto di alienazione sembra essere divenuto problematico e sotto certi aspetti anche inattuale. Se esso è stato per lungo tempo il concetto centrale della critica sociale di sinistra (ma anche di quella conservatrice) – un motivo cruciale della filosofia sociale marxista e quindi di importanza fondamentale per il «marxismo occidentale» e per la «teoria critica» – e se allo stesso tempo esso ha influenzato in vari modi la critica della cultura ispirata dall’esistenzialismo, oggi non solo esso è pressoché sparito dalla letteratura filosofica, ma non gioca più alcun ruolo neanche come vocabolo usato per una diagnosi del nostro tempo. Il concetto di alienazione ha avuto un uso troppo inflazionato negli anni del suo boom; i suoi fondamenti filosofici sembrano fuori moda nell’età postmoderna; le sue implicazioni politiche appaiono troppo problematiche nell’età del «liberalismo politico» – e forse anche le aspirazioni della critica dell’alienazione appaiono senza speranza nel tempo del capitalismo trionfante.

In ogni caso, il problema dell’alienazione sembra essere sempre – e forse oggi di nuovo – attuale. Di fronte ai recenti sviluppi economici e sociali si assiste a una crescente inquietudine che, se non nel nome quanto meno nella sostanza, ha a che fare con il fenomeno dell’alienazione. La vasta ricezione che ha ottenuto il libro di Richard Sennet L’uomo flessibile con la sua tesi sul «capitalismo flessibile» che minaccia l’identità dei singoli e la tenuta della società, le preoccupazioni sempre più forti riguardo le tendenze alla mercificazione o alla «commercializzazione» di ambiti di vita sempre più estesi,[2] e anche i nuovi movimenti di protesta sorti contro la perdita di controllo e l’impotenza di fronte all’economia globalizzata,[3] sono tutti segni di una rinata sensibilità nei confronti di fenomeni che le teorie prima menzionate descrivevano con i concetti di «alienazione» e di «reificazione». E sebbene nel «nuovo spirito del capitalismo»[4] la critica dell’alienazione sembri essere superata in modo cinico – le richieste rivolte al moderno «lavoratore-imprenditore», flessibile e creativo, per il quale non esiste più alcun confine tra lavoro e tempo libero, non sono forse una realizzazione dell’utopia di Marx dello «sviluppo onnilaterale» dell’uomo che «di mattina può pescare, di pomeriggio cacciare e la sera dedicarsi alla critica»? –, le ambivalenze di simili sviluppi sono il segno della persistenza del problema, più che della sua scomparsa.[5]

Non c’è dunque più l’alienazione o semplicemente non disponiamo più del suo concetto? Di fronte alla tensione, che si rinnova continuamente, tra rivendicazione e realtà, tra promesse sociali di autodeterminazione e di autorealizzazione e la loro mancata attuazione, il tema dell’alienazione – questa la diagnosi di Robert Misik –[6] rimane decisivo, anche se una stabile fondazione della critica dell’alienazione sembra essere andata perduta.

Il presente studio ha lo scopo di far rivivere il concetto di alienazione in quanto concetto fondamentale per la filosofia sociale. Il mio punto di partenza è duplice: da una parte sono convinta che il concetto di alienazione sia ricco di contenuto e produttivo, capace di dischiudere ambiti fenomenici che possono essere ignorati solo al prezzo di impoverire le possibilità di espressione e di interpretazione teorica. D’altra parte la tradizione con la quale il concetto di alienazione è associato non può essere semplicemente ripresa in modo irriflesso, dal momento che i presupposti di questa tradizione sono stati giustamente messi in questione. Per tale ragione ogni ulteriore discussione sull’alienazione richiede una ricostruzione critica dei suoi fondamenti concettuali.

Questo libro è un tentativo di realizzare una simile ricostruzione. Esso è una ricostruzione in un duplice significato: in primo luogo mira a far rivivere in generale il concetto di alienazione nel suo significato; in secondo luogo, lo vuole reinterpretare e trasformare concettualmente alla luce dei problemi che ho menzionato. Il progetto del libro, in altre parole, è quello di riappropriarsi filosoficamente di un teorema che per molte ragioni è divenuto problematico – ed è un tentativo di riscoprire il suo contenuto di esperienza.[7]

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A stranger in the world that he himself has made – Il concetto e il fenomeno dell’alienazione

Il concetto di alienazione rinvia a tutta una serie di motivi tra loro interconnessi. Alienazione significa indifferenza e scissione, ma anche mancanza di potere e assenza di relazione nei confronti di se stessi e di un mondo esperito come indifferente ed estraneo. L’alienazione è l’incapacità di porsi in relazione con altri esseri umani, cose, istituzioni sociali e anche – questa è l’intuizione fondamentale della teoria dell’alienazione – con se stessi. Un mondo alienato si presenta all’individuo privo di senso e di significato, come un mondo irrigidito o impoverito, che non è il proprio, in cui non si è «a casa» o sul quale non si può esercitare alcun influsso. Il soggetto alienato diventa estraneo a se stesso, si esperisce non più come un «soggetto attivo ed effettivo», ma come «un oggetto passivo»,[8] alla mercé di forze sconosciute. Si può parlare di alienazione «laddove gli individui non si ritrovano nelle proprie azioni»[9] o laddove noi non possiamo essere «padroni dei poteri che noi stessi siamo» (Heidegger). L’alienato è quindi – così il primo Alasdair MacIntyre – «a stranger in the world that he himself has made». [10]

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Già da questo primo approccio si può vedere come l’alienazione sia un concetto dai «contorni sfocati». Le «somiglianze di famiglia» e le molteplici sovrapposizioni con altri concetti – come quello di «reificazione», d’«inautenticità» o di «anomia» – sono tanto caratteristiche per il campo in cui il concetto opera, quanto l’intreccio reciproco tra l’uso ordinario e quello del linguaggio filosofico. Se da una parte il «contenuto di esperienza»[11] del concetto si è nutrito di esperienze storiche e sociali che in esso hanno trovato espressione, d’altra parte, in quanto concetto filosofico, il concetto di alienazione ha avuto effetti sulle interpretazioni di sé e del mondo degli individui oltre che dei movimenti sociali. È in questi «impuri»[12] rapporti di commistione che si dischiude il molteplice campo di fenomeni associati al concetto di alienazione.

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Teoria dell’alienazione – «una crisi nella coscienza del tempo»

Che cosa è dunque l’alienazione? «Sembra che quando avverte che qualcosa non è come dovrebbe essere, lo designi in termini di alienazione»[13] – questa osservazione di Richard Schacht riferita a Erich Fromm sembra descrivere in modo appropriato il modo in cui il concetto viene spesso impiegato (e non solo da Fromm). E tuttavia, per quanto diversi possano essere i fenomeni sopra enumerati, essi ci consegnano un primo abbozzo del concetto di alienazione. Una relazione alienata è una relazione deficitaria che si ha con se stessi, con il mondo e con gli altri. Indifferenza, strumentalizzazione, oggettivazione, assurdità, artificialità, isolamento, insensatezza, impotenza – questi diversi modi di caratterizzare i fenomeni sono forme di questo deficit. Una caratteristica peculiare del concetto di alienazione è quindi che esso si riferisce non solo all’assenza di libertà e all’assenza di potere, ma anche a un peculiare «impoverimento» della relazione con sé e con il mondo. (Questo è anche il modo in cui dovremmo intendere il doppio significato che Marx ha di mira quando descrive l’alienazione come una «doppia perdita di realtà» del mondo e dell’uomo: l’individuo, divenuto irreale, esperisce se stesso come non più «effettivo» e il mondo, divenuto irreale, è insensato e indifferente). È la complessità di questi nessi che ha reso il concetto di alienazione il concetto chiave delle diagnosi della crisi della modernità e uno dei concetti fondamentali della filosofia sociale.

In quanto espressione di una crisi nella «coscienza del tempo» (Hegel), la moderna discussione sull’alienazione si estende da Rousseau e Schiller, passando per Hegel, fino a Kierkegaard e Marx. Elevata a «malattia della civilizzazione par excellence»[14] l’alienazione diviene dal XVIII secolo in poi la cifra con la quale s’intende «l’insicurezza, la lacerazione e la scissione» nel rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo che hanno accompagnato l’espansione dell’industrializzazione; una diagnosi che la teoria dell’alienazione di Marx ha catturato e volto in una critica del capitalismo. «La perdita da parte dell’uomo moderno di una destinazione essenziale»[15] determina anche la domanda della filosofia dell’esistenza derivante da Kierkegaard, su ciò che significa essere se stessi e perdere se stessi. Nell’ambito di questa tradizione, l’esperienza d’indifferenza e di radicale estraneità appare nient’altro che un disconoscimento, ontologicamente situato, del mondo e della relazione che l’uomo ha con se stesso e con il mondo; ciò che, al di là di tutte le divergenze, ha qualcosa in comune con la diagnosi di Marx. La diagnosi di alienazione – nella sua forma moderna – concerne sempre (per esempio) la libertà e l’autodeterminazione e l’impossibilità di realizzarle. Così intesa, l’alienazione è quindi non solo un problema della modernità, ma anche un problema moderno.

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Marx: lavoro e alienazione

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx distingue quattro risultati conseguenti dal «fatto economico-politico» del lavoro alienato:[16] in primo luogo, il lavoro alienato, estraniato, estranea il lavoratore dal prodotto del suo lavoro; in secondo luogo dalla sua stessa attività; in terzo luogo da ciò che Marx, rifacendosi a Feuerbach, chiama «l’essenza di genere»; in quarto luogo dagli altri uomini. L’alienazione può essere intesa quindi come il disturbo di un rapporto che si ha o si dovrebbe avere con sé e con il mondo (tanto quello sociale quanto quello naturale). Viceversa, il lavoro non alienato, non estraniato, in quanto forma specifica di appropriazione del mondo attraverso la produzione, è la condizione necessaria per sviluppare una relazione appropriata con sé, con il mondo oggettivo e con gli altri.

Già da questa breve esposizione riusciamo a cogliere quelli che costituiscono – secondo la mia tesi – i due più importanti aspetti della concezione dell’alienazione di Marx. In primo luogo, il campo di tensione tra appropriazione ed estraneità stabilisce una connessione tra due problemi che è tutt’altro che ovvio pensare assieme: da una parte la perdita di senso, l’«impoverimento» del mondo, dall’altra l’impotenza o la perdita di potere nei confronti del mondo. In secondo luogo, in questo testo centrale della teoria marxiana dell’alienazione, si può cogliere quale sia la svolta specifica che Marx imprime al problema dell’assenza di relazione tra il mondo e l’uomo: lo scandalo dell’alienazione consiste nel fatto che si tratta di un’estraneazione da ciò che il sé ha fatto. Sono le nostre azioni e i nostri prodotti, le istituzioni sociali e i rapporti che noi stessi abbiamo realizzato, a essere divenuti potenze estranee. Con Charles Taylor, possiamo denominare questa la svolta «prometeico-espressivistica» che Marx – seguendo il modello dell’esteriorizzazione (Entäußerung) dello spirito di Hegel e il concetto di proiezione di Feuerbach – imprime alla propria interpretazione del problema dell’alienazione.[17]

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Dimensioni dell’alienazione

Possiamo identificare due forme di deficit nel rapporto con sé e con il mondo che vengono teorizzate da Marx attraverso il concetto di «alienazione»: in primo luogo, l’incapacità di identificarsi in un modo dotato di senso con ciò che si fa e con coloro con cui lo si fa; in secondo luogo, l’incapacità di esercitare controllo su quello che si fa – ossia l’incapacità di essere, individualmente o collettivamente, «soggetti delle proprie azioni». L’alienazione dagli oggetti – dal prodotto della propria attività – significa allo stesso tempo perdita di controllo ed espropriazione: il lavoratore alienato (in quanto venditore della propria forza lavoro) non può disporre di ciò che egli stesso ha prodotto; questo prodotto non gli appartiene più. Il prodotto è scambiato in un mercato che egli non controlla, sulla base di condizioni che non controlla. Alie- nazione significa inoltre che l’oggetto deve apparirgli frammentato: lavorando sotto le condizioni della specializzazione e della divisione del lavoro, il lavoratore non ha alcuna relazione con il prodotto del suo lavoro come prodotto intero, compiuto. Coinvolto in uno solo dei molteplici atti specializzati necessari alla produzione del famoso spillo di Adam Smith, il lavoratore non ha alcun rapporto con lo spillo in quanto prodotto finito, per quanto piccolo questo possa essere. Il prodotto del suo lavoro specializzato – cioè della parte specifica di lavoro che egli ha svolto nella produzione dello spillo – non si ricompone di fronte a lui, o in altre parole: non si ricompone come una totalità piena di senso, come un’unità carica di significato.

Lo stesso abbinamento tra mancanza di potere e perdita di senso (o impoverimento) caratterizza l’alienazione del lavoratore dalla propria attività. Da una parte il lavoro alienato è un’attività non libera, è un lavoro in cui e a cui si è costretti. Nel suo lavoro, il lavoratore alienato non è padrone di ciò che fa. Sottoposto a un comando esterno, nel suo lavoro è eterodiretto (fremdbestimmt). «Se egli si rapporta alla propria attività come a un’attività non libera, si rapporta a quella attività come a un’attività che viene compiuta al servizio, sotto il dominio, la costrizione e il giogo di un altro uomo».[18] Impotente, il lavoratore non può né controllare né vedere l’intero processo, di cui lui è solo una parte e che per lui rimane oscuro. Allo stesso tempo, il lavoro alienato è caratterizzato da una frammentazione e da un impoverimento delle azioni – che rappresenta la vera e propria controparte della frammentazione del prodotto. Marx considera alienato anche il carattere di limitatezza e di ottusità del lavoro stesso, che «fa dell’uomo un essere quanto mai possibile astratto, un tornio, e lo trasforma fino allo sfinimento spirituale e fisico» (così Marx nel frammento su Mill). Anche l’alienazione «dagli altri», dal mondo delle relazioni sociali della cooperazione, riflette queste due dimensioni: lavorando in modo alienato, il lavoratore non ha alcun controllo su ciò che – insieme ad altri – fa. E nel lavoro alienato, gli altri sono per lui, come si potrebbe dire, «strutturalmente indifferenti».[19]

È interessante, e di grande importanza per il carattere della sua teoria, che Marx stigmatizzi non solo la strumentalizzazione del lavoratore da parte del proprietario della sua forza lavoro, ma anche il rapporto strumentale con se stesso che il lavoratore acquisisce in questo modo. Nella prospettiva di Marx, anche il rapporto strumentale che il lavoratore sviluppa (o è costretto a sviluppare) con se stesso e con il suo lavoro nelle condizioni dell’alienazione, appare problematico – o formulato in maniera più forte: «inumano». Ciò che è alienante nel lavoro alienato è il fatto che esso non ha nessuno scopo intrinseco, non è compiuto (per lo meno anche) per se stesso. Le attività che vengono svolte in modo alienato sono comprese non come «fini» ma soltanto come «mezzi». E allo stesso modo le capacità che nel lavoro si acquistano o s’impiegano diventano per noi mezzi e noi stessi ci trasformiamo in mezzi. In altre parole: non ci si identifica con ciò che si fa. La diagnosi della strumentalizzazione sfocia quindi, nuovamente, in quella di una complessiva mancanza di senso: quando Marx dice che, nelle condizioni di una vita aliena- ta, la vita stessa diventa un mezzo («La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita»)[20] – ciò che dovrebbe essere un fine assume il carattere di un mezzo –, sta descrivendo un evento completamente privo di senso, o si potrebbe dire: la struttura stessa di una mancan- za di senso. Formulato diversamente: per Marx «l’infinito regresso» nei fini è la stessa mancanza di senso. Sotto questo aspetto, Marx è aristotelico: ci deve essere uno scopo che non sia a sua volta un mezzo.[21]

Possiamo vedere qui la multidimensionalità del concetto: in quanto alienati, non si possiede ciò che si è prodotto, si è quindi sfruttati ed espropriati;[22] non si dispone di e non si determina ciò che si fa, si è quindi privi di potere e non liberi; e non ci si può realizzare nelle proprie attività, si è consegnati quindi a rapport privi di senso, impoveriti e strumentalizzati: rapporti con i quali non ci si può identificare e nei quali si è scissi. Viceversa, la «reale appropriazione» che Marx contrappone a questo tipo di alienazione rappresenta una forma di «ricchezza»[23] che va al di là della mera distribuzione di beni. L’«appropriazione» in questo senso ha di mira allo stesso tempo la presa di possesso, l’acquisto di potere e il senso. Quindi, il contenuto di ciò che si potrebbe definire la «concezione della vita buona» di Marx, è un’idea di realizzazione di sé intesa come riferimento (Bezugnahme) identificativo e appropriante a sé e al mondo.[24]

 

L’antropologia del lavoro di Marx

Decisiva per questa comprensione dell’appropriazione e dell’alienazione è la loro fondazione in un concetto filosofico di lavoro, che per Marx rappresenta la vera e propria relazione paradigmatica dell’uomo con il mondo. Il lavoro è qui concepito come un’esteriorizzazione e un’oggettivazione delle forze essenziali dell’uomo. Detto molto schematicamente: le «forze essenziali umane» – la volontà, gli scopi, le capacità dell’uomo – diventano oggettive, si materializzano, solo in quanto sono «esteriorizzate» nel mondo attraverso il lavoro. La capacità di lavoro, concepita come un processo materiale di scambio con la natura, trasforma simultaneamente il mondo e l’essere umano. L’essere umano produce se stesso e il suo mondo in uno stesso atto. Nel produrre il suo mondo, egli produce se stesso, e viceversa. E nella misura in cui questo processo riesce, si appropria allo stesso tempo del mondo oggettivo e di se stesso. Egli si «riconosce» (si potrebbe tradurre: riconosce la sua volontà e la sua capacità) nelle sue attività e nei suoi prodotti e trova se stesso attraverso il rapporto con questi ultimi; egli si «realizza», quindi, in una relazione di appropriazione con il mondo come prodotto delle sue attività. In questo senso il lavoro – quello non alienato – è per Marx una determinazione essenziale dell’uomo.[25] Ciò che costituisce l’essere umano come tale è il fatto che, a differenza dell’animale, è capace di dare forma a se stesso e al suo mondo in modo consapevole e attraverso la cooperazione sociale e che non solo egli «realizza» se stesso in questo processo ma anche «produce se stesso», nel senso molto concreto che le sue capacità, i suoi sensi e i suoi bisogni si sviluppano nella misura in cui egli si rapporta al mondo, lavorando e dandogli forma.

Ora, la seguente svolta è ricca di conseguenze per la discussione sul concetto di alienazione: se una relazione riuscita con sé e con il mondo attraverso il lavoro è concepita come un processo di esteriorizzazione, di oggettivazione e di appropriazione di queste forze essenziali umane – come rapporto di appropriazione della propria forza lavoro oggettivata – allora l’alienazione può essere letta come il fallimento di questo processo, come l’impedimento del ritorno a sé da questa esteriorizzazione. Ciò che fallisce, quindi, in senso proprio, è una sorta di movimento di ripresa che deve «riconsegnare» ciò che è stato esteriorizzato al soggetto che lo ha esteriorizzato. Chi produce qualcosa si esteriorizza nel mondo, oggettiva se stesso o le sue «forze essenziali» in esso, e dopo se ne riappropria, in termini mediati, attraverso il prodotto. Questo è precisamente quanto viene espresso dalla famosa immagine dell’industria come «specchio» delle attività di genere dell’uomo. In questa immagine, la riconciliazione – il superamento dell’alienazione – significa una perfetta corrispondenza tra l’immagine riflessa nello specchio e chi viene rispecchiato. Viceversa, l’alienazione è l’appropriazione impedita delle proprie forze essenziali esteriorizzate, l’incapacità quindi di riconoscersi allo specchio o la distorsione dell’immagine dello specchio.[26] Ora, questo modello di lavoro e di esteriorizzazione, insieme all’idea che l’accompagna – ossia che un piano «interno» si materializzi verso «l’esterno» – è problematica per diverse ragioni.[27] La cosa più importante nel nostro contesto è che, secondo questa concezione, l’appropriazione va intesa sempre come la ri-appropriazione di qualcosa che già esiste. Il quadro concettuale sotteso a questo modello di lavoro non contempla la possibilità che le conseguenze delle azioni – anche al di là di distorsioni alienanti – possano sviluppare una dinamica propria e che i rapporti, anche quando sono «realizzati da noi», non sempre appaiano come pienamente trasparenti e disponibili.

Se quindi la «svolta prometeica» del problema dell’alienazione porta a pensare che i risultati delle proprie azioni si rivoltino contro i loro produttori come un «potere estraneo», ciò vuol dire che l’estraneo è ciò che una volta era proprio, e che l’alienazione consiste nel problema di non disporre (più) di ciò che (una volta) era a propria disposizione (in quanto risulta dalla nostra stessa attività). Alienato o reificato è qualcosa che è stato fatto ma che appare come dato (in maniera quasi naturale e indisponibile). Questo modello di analisi si trova già – sotto l’influsso della critica feuerbachiana della proiezione religiosa e della concezione filosofica dello spirito di Hegel – negli scritti che precedono i Manoscritti economico-filosofici (la Questione ebraica e la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico). Essa è il rimando ricorrente al carattere «idolatrico» dei rapporti umani che, nonostante vengano creati da noi stessi, assumono un’esistenza autonoma e si rivoltano contro di noi. Un motivo, questo, che riappare nel Capitale, nella metafora del carattere feticistico della merce. Questa tematica – il fatto che ciò che è proprio assume una forma estranea – si mantiene anche nella critica dell’economia politica come critica «denaturalizzante», che svela il carattere sociale di ciò che si presenta come rapporto naturale.

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Critica della critica dell’alienazione

(...) Sembra quindi evidente l’assunzione che laddove qualcosa è alienato o ci si aliena da qualcosa, ci sia qualcosa di essenzialmente «proprio» da cui ci si aliena. Se l’alienazione consiste nella «contraddizione tra l’esistenza e l’essenza dell’uomo» (un’espressione, questa, del giovane Marx), allora l’alienazione non è soltanto qualcosa che non dovrebbe esserci, bensì qualcosa che in un certo senso non è. L’«apparenza», cioè la condizione alienata, è già dal punto di vista logico-ontologico nel torto. E nella misura in cui l’alienazione è definita come «contraddizione» che si manifesta in diversi passaggi storici, la storia (in quanto scena del processo di alienazione) spinge verso la «riconciliazione» e il superamento della condizione alienata. Questo è, in ogni caso, il modo in cui si può comprendere la strategia hegeliana volta a trovare una risoluzione della critica dell’alienazione nel quadro di una filosofia della storia, le cui tracce sono rinvenibili facilmente anche in Marx. Se si pensa l’alienazione come un «essere fuori da sé» e il suo superamento come un «tornare a sé», l’alienazione è qualcosa come un «meccanismo incorporato di superamento».[28]

Sono diverse le critiche alle quali si espone in questo modo il teorema dell’alienazione. Da quando Althusser ha criticato l’«umanesimo» di Marx e il suo ideale di autotrasparenza e di autonomia del soggetto – stigmatizzando la critica dell’alienazione dall’interno di una prospettiva marxista – la critica dell’essenzialismo è divenuta una sorta di «senso comune» della discussione filosofica contemporanea.[29] Oltre a ciò, nessuno oggi sottoscriverebbe il tipo di giustificazione offerta dalla filosofia della storia di Hegel con la sua visione normativo-teleologica dello sviluppo storico. D’altra parte, privare il discorso sull’alienazione dell’impianto di filosofia della storia e ridurlo ad un elemento di una teoria sulla «vita buona» lo espone all’accusa di paternalismo. Così, sono fondamentalmente due le posizioni contemporanee che si oppongono al ricorso al teo- rema dell’alienazione: il «liberalismo» filosofico (sulla scia di Rawls), che si astiene da definizioni oggettive della buona vita, e la critica poststrutturalista del soggetto, che mette in questione la concezione del soggetto che la teoria dell’alienazione sembra presupporre.

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Poter disporre di se stessi – Ricostruzione del concetto di alienazione

La mia tesi (..)  è la seguente: al giorno d’oggi la critica dell’alienazione non può, ma neanche deve necessariamente essere fondata su presupposti «essenzialistici» o «metafisici»[30] in senso forte; essa non può, ma neanche deve necessariamente fare riferimento ad argomenti paternalistici o perfezionistici. La dimensione della critica dell’alienazione rilevante per la filosofia sociale e per l’etica può essere resa accessibile anche senza quei modelli argomentativi fortemente oggettivistici che vengono spesso associati a essa. Ci si può inoltre avvalere del significato critico della diagnosi dell’alienazione senza dovere confidare sulla certezza di un’armonia o di una riconciliazione definitive, sull’idea di un individuo completamente trasparente a se stesso o sull’illusione di potere avere se stessi e il mondo completamente a propria disposizione. La problematica sollevata dal concetto di alienazione cessa di essere interessante precisamente nel momento in cui si presuppone un’armonia prestabilita tra i rapporti, un’«unità» intatta degli individui con se stessi o con il mondo; essa diventa produttiva, invece, quando mette in questione queste relazioni senza assumere che esse possano essere completamente libere da conflitti. Concentrandosi su ciò che impedisce di vivere pienamente la propria vita, essa mette in rilievo le condizioni dei rapporti riusciti con sé e con il mondo, che dal punto di vista normativo possono essere descritte in modo relativamente parco ma non privo di qualsiasi contenuto.

Il punto fondamentale nel concetto di alienazione potrebbe allora risiedere proprio nella sua capacità di mediare tra alternative non soddisfacenti – tra soggettivismo e oggettivismo etico, tra un’astensione neutrale dalle questioni etiche e l’orientamento a concezioni etiche sostanziali della buona vita, tra l’abbandono dell’idea di autonomia e il rimanere ancorati a concezioni illusorie della soggettività. Il potenziale del concetto potrebbe consistere non tanto nell’assicurare una robusta teoria etica sostanziale, ma piuttosto nell’essere capace di criticare il contenuto di forme di vita, senza dover fare riferimento a un patrimonio di valori etici sostanziali fondato in termini metafisici. Inoltre, il potenziale del concetto potrebbe consistere nella possibilità di qualificare i modi di rapportarsi a se stessi senza dover presupporre un soggetto unitario e padrone di sé. Una vita non alienata, allora, non sarebbe una vita riconciliata, né felice, forse neanche la buona vita. Non essere alienato significherebbe, invece, un certo modo di condurre la propria vita e un certo modo di mettersi in rapporto con se stessi e con le condizioni in cui si vive e da cui si è determinati: significherebbe potersene appropriare.

 

L’alienazione come rapporto di appropriazione impedito

(..) Il concetto di «appropriazione» indica qui un modo di mettersi in relazione con se stessi e con il mondo, di rapportarsi al mondo e di poter disporre di esso e di se stessi. L’alienazione, in quanto distorsione di questo rapporto, riguarda (..)  la modalità di realizzazione del rapporto con se stessi e con il mondo e quindi la non riuscita dei processi di appropriazione o il loro impedimento. (..)  L’alienazione può quindi essere compresa come il danneggiamento di processi di appropriazione (o come prassi di appropriazione deficitaria). Se quindi il superamento dell’alienazione sembra essere un rapporto di appropriazione riuscito, si possono indagare le condizioni della sua riuscita senza che esso debba perciò essere considerato un processo di tipo teleologico o che può concludersi in maniera definitiva. E tantomeno è necessario pensare questo processo – in termini essenzialistici – come il recupero di un’essenza – già da sempre propria e determinata.

Un simile procedimento – una ricerca rivolta alle distorsioni dei rapporti di appropriazione – ha delle conseguenze per gli esempi cui si è accennato sopra: anziché definire da un punto di vista materiale o di contenuto i potenziali che l’uomo «onnilaterale» dovrebbe sviluppare, quest’analisi si rivolge alle distorsioni nello sviluppo di interessi e capacità. Anziché rimanere impigliati nei paradossi svianti di una definizione dei «veri» desideri, contrapposti a quelli non autentici e alienati, si tratta qui di svolgere un’analisi delle condizioni della formazione della volontà e dei diversi modi di integrare i desideri. E anziché ricostruire le relazioni sociali a partire da schemi di moralità sostanziale, ci si occuperà qui delle condizioni di attuazione delle pratiche sociali e delle condizioni della loro formazione.

I seguenti aspetti sono quindi decisivi per il mio approccio ai rapporti di appropriazione:

  • Il concetto di «appropriazione» fa riferimento a una concezione ampia dei rapporti pratici con se stessi e con il mondo. Con esso ci si riferisce a una capacità di rapportarsi a se stessi intesa in senso ampio, alla capacità di avere accesso o «poter disporre» di se stessi e del mondo, ossia di fare propria la vita che si conduce, di potersi identificare con ciò che si vuole e ciò che si fa o in altri termini: di potersi realizzare in ciò.
  • Dal punto di vista della teoria dell’alienazione il rapporto con il mondo e il rapporto con se stessi sono cooriginari. Il danneggiamento del rapporto con sé, il «non poter disporre di se stessi» deve quindi essere sempre compreso anche come un danneggiamento del rapporto con il mondo. Che si tratti dell’appropriazione della storia della propria vita, del «compito di divenire se stessi attraverso le proprie azioni» che trova il suo eco nella «decisione» heideggeriana o nell’appropriazione marxiana delle proprie attività: ci si riferisce qui sempre all’appropriazione del «mondo» e con essa all’appropriazione dei presupposti (variamente determinati) del proprio agire. In questo senso è alienato chi non può rapportarsi a se stesso e (quindi anche) ai suoi presupposti e non può quindi farli propri.
  • Se da una parte il modello dell’appropriazione così schizzato si rifà al «denso» concetto dell’appropriazione che troviamo anche in Marx, d’altra parte nella mia ricostruzione si tratta proprio di non concepire l’appropriazione come mera riappropriazione di qualcosa di essenzialmente dato. L’appro- priazione è un processo produttivo, ciò di cui ci si appropria 
è allo stesso tempo risultato del processo di appropriazione. I presupposti ai quali ci si dovrebbe rapportare – in modo non alienato – e la relazione – non alienata – che si dovrebbe realizzare non sono quindi, e questo è determinante, né «inventati» né «costruiti».

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NOTE
 [1] Schaff A., Alienation as a Social Phenomenon, Pergamon Press, Oxford 1980, p. 3. Similmente nota Shlomo Avineri: «L’alienazione» è diventata «la formula più popolare di Marx». Avineri S., The Social and Political Thought of Karl Marx, Cambridge University Press, Cambridge (Massachusetts) 1969, p. 2.
[2] Per una discussione filosofica sul tema si veda tra gli altri Anderson E., Value in Ethics and Economics, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1993; Radin M.J., Contested Commodities, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1996; Jaeggi R., Der Markt und sein Preis, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», vol. 47, n. 1, 2000, pp. 987-1004
[3] Nel dicembre 1999 un editoralista della rivista «Newsweek» commentava così le proteste militanti scoppiate a Seattle a margine delle giornate della World Trade Organization contro la globalizzazione economica: «Sembra ci sia un diffuso senso di alienazione tra un numero sorprendente di americani. Dan Seligman, capo dell’ufficio commerciale The Sierra Club, definisce questo nuovo stato d’animo un sentimento di «perdita di controllo» in un mondo di turbo-capitalismo globale in rapido mutamento».
[4] Boltanski L. e Chiapello E., Il nuovo spirito del capitalismo, trad. it. Schianchi M., Mimesis, Milano 2014.
[5] Sulle ambivalenze di questi sviluppi si veda anche Honneth A. (a cura di), Befreiung aus der Mündigkeit. Paradoxien des gegenwärtigen Kapitalismus, Campus, Frankfurt am Main/ New York 2002.
[6] Misik R., Genial dagegen. Kritisches Denken von Marx bis Michael Moore, Aufbau-Ver- lag, Berlin 2005.
[7] Si veda anche la ricostruzione di Honneth del teorema della reificazione nel quadro di una teoria del riconoscimento: Honneth A., Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, trad. it. Sandrelli C., Meltemi, Roma 2007.
[8] Isreal J., Der Begriff Entfremdung – Zur Verdinglichung des Menschen in der bürokrati- schen Gesellscahften, Rowohlt, Reinbeck 1985.
[9] Habermas J., Teoria della morale, trad. it. Tota E., Laterza, Roma-Bari 1994, p. 45.
[10] MacIntyre A., Marxism: An Interpretation, SCM Press, London 1953, p. 23.
[11] Riprendo questa espressione da Oskar Negt e Alexander Kluge. In questo senso, i concetti rendono possibili le esperienze, così come viceversa quelli vivono di queste. Cfr. Negt O. e Kluge A., Öffentlichkeit und Erfahrung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972.
[12] Come dice Raymond Geuss: «Tutti i più interessanti concetti filosofici sono impuri» (Geuss R., Glück und Politik, Berliner Wissenschafts-Verlag, Berlin 2004, p. 56).
[13] Schacht R., Alienation, Doubleday, New York 1970, p. 116. 46
[14] Nicolaus H., Hegels Theorie der Entfremdung, Manutius Verlag, Heidelberg 1995, p. 27.
[15] Theunissen M., Selbstverwirklichung und Allgemeinheit, Walter de Gruyter, Berlin/ New York 1981.
[16] Per un’interpretazione esauriente e molto istruttiva di questi scritti cfr. Wildt A., Die Anthropologie des jungen Marx, inedito, Studienbrief der Fernuniversität, Hagen 1987.
[17] Charles Taylor parla, in relazione a Marx, di un «espressivismo prometeico» volendo fare riferimento al fatto che Marx cerca di riconciliare il bisogno espressivo (così Taylor descrive questa problematica) – in permanente conflitto con il disincanto moderno del mondo – con l’enfasi moderna sul potere di dare forma alle cose. Questo espressivismo è prometeico perché in esso non è in gioco l’espressione di un ordine cosmico dato o di una volontà divina, ma della stessa capacità di esprimersi attraverso i prodotti realizzati dall’uomo. Cfr. su questo Taylor C., Hegel e la società moderna, trad. it. La Porta A., il Mulino, Bologna 1998, pag. 216.
[18] Marx K., Manoscritti economico-filosofici, a cura di Bobbio N., Einaudi, Torino 2004, p. 78.
[19] Alludo qui all’interpretazione della forma di associazione comunista come «amicizia strutturale», data da Daniel Brudney. Brudney D., Zur Rechtfertigung einer Konzeption des guten Lebens beim frühen Marx, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», vol. 50, n. 3, 2002, pp. 395-423.
[20] Marx K., Manoscritti economico-filosofici, op. cit., p. 74.
[21] Si potrebbe argomentare che questa estensione del divieto (kantiano) di strumentalizzazione ai rapporti con se stessi – quindi un’interpretazione «etica» del divieto di strumentaliz- zazione – è ciò che rende possibile la convergenza tra dominio e mancanza di senso.
[22] «Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’o- peraio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui». Marx K., Manoscritti economico-filosofici, op. cit., p. 77. Qui l’alienazione è ricondotta a un rapporto di dominio. Più avanti si dimostrerà, in ogni caso, che si tratta sempre di un rapporto di dominio strutturale.
[23] Per un confronto dettagliato e critico con la teoria di Marx dell’alienazione e la rap- presentazione di ricchezza si veda Lohmann G., Indifferenz und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991.
[24] Cfr. su questo Brudney D., Zur Rechtfertigung einer Konzeption des guten Lebens beim frühen Marx, op. cit.
[25] «Un’attività è specificamente umana» – in termini perfettamente aristotelici – se essa non è determinata esclusivamente dal «bisogno» e dalla costrizione naturale. Si può interpre- tare, quindi, il richiamo di Marx ai tratti distintivi del lavoro umano come il rimando non solo al fatto che il lavoro umano non è guidato dagli istinti ed è un agire pianificato, ma anche al fatto che l’uomo «forma gli oggetti secondo le leggi della bellezza». In modo analogo va interpretato quindi il suo riferimento al fatto che il lavoratore, lavorando in modo alienato, è animale nelle sue funzioni umane e umano nelle sue funzioni animali: «ciò che è animale diventa umano e ciò che è umano diventa animale» (Marx K., Manoscritti economico-filosofici, op. cit., p. 72).
[26] Nella misura in cui, con questo paradigma, il mondo può essere compreso solo ed esclu- sivamente come l’estraneazione del sé, la critica di Hannah Arendt a Marx – citata nell’in- troduzione – è quindi giustificata. Ho dettagliatamente discusso questo punto in Jaeggi R., Welt und Person – Zum anthropologischen Hintergrund der Gesellschaftskritik Hannah Arendts, Lukas Verlag, Berlin 1997, capitolo 5.
[27] Il confronto più approfondito con questa problematica si trova nello studio molto istruttivo di Lange E.M., Das Prinzip Arbeit, Ullstein, Berlin 1980.
[28] Furth P., Phänomenologie der Enttäuschung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, p. 45.
[29] Cfr. la tesi di Althusser della «rottura epistemologica» in Althusser L., Per Marx, trad.  it. Cantimori D., Editori Riuniti, Roma 1974.
[30] Uso qui il concetto «metafisica» nell’accezione (limitatamente) peggiorativa che è ormai divenuta di uso comune nella discussione contemporanea. In questo senso esso si riferisce (anche se a volte in maniera poco precisa) a «valori ultimi» giustificati con riferimento a fonti trascendenti, i quali si distinguono dal mondo dell’apparenza.

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