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Il realismo, fase suprema del postmodernismo?

Note su «New Realism», post modernità e idealismo

Diego Fusaro

«Realismo ingenuo, realismo scientifico, realismo filosofico: malgrado tutte le pretese dei difensori ostinati, esso è sempre molto ingenuo, perché ci vorrebbe assai poco ad accorgersi che tutto ciò che si trova, o si escogita, o si costruisce col pensiero, non può essere altro che pensiero» (G. Gentile, Genesi e struttura della società).

postmodern new realism1. La segreta complementarietà di realismo e postmodernismo

Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del realismo. È lo stesso Maurizio Ferraris, nelle pagine programmatiche del Manifesto del nuovo realismo1 (2012), a evocare l’incipit del manifesto marx-engelsiano per alludere all’odierno dilagare ipertrofico del realismo in tutte le sue forme (politiche, sociali, economiche, filosofiche). Analogamente a Marx ed Engels, che si richiamavano allo spettro del comunismo come a una forza già esistente e pronta a seminare il panico nella vecchia Europa, Ferraris adombra come quella del realismo sia una presenza “spettrale” perché vaga e, insieme, materialmente già esistente e affermata. Una presenza reale, appunto, e insieme dai contorni evanescenti, come emerge non appena si consideri che la categoria multicomprensiva di realismo alberga oggi, al proprio interno, tali e tante determinazioni concettuali differenti da rendere, eo ipso, ambigua, scivolosa e sfuggente la stessa categoria. E, non di meno, come subito cercherò di chiarire, al di là di questa strutturale proteiformità della formula, è possibile individuare un comun denominatore tra le molteplici determinazioni semantiche sussunte sotto l’etichetta di realismo.

In particolare, se è vero che di realismo si sente quotidianamente parlare urbi et orbi, non deve sfuggire come ciò avvenga immancabilmente in riferimento – ora aperto, ora nascosto – al principio fondamentale per cui occorre tornare all’effettività del reale, abbandonando chimere e sogni per registrare l’inemendabilità o, comunque, l’ineludibile consistenza dell’esistente, del mondo-realmente-dato. Realismo, dunque, come debita e ineludibile considerazione del peso della realtà o, se si preferisce, del suo primato ontologico: l’esistente impone una considerazione seria e spregiudicata, ma poi soprattutto la sua accettazione come punto di partenza, nella migliore delle ipotesi, o come intrascendibile condizione in cui permanere, nella peggiore.

Poiché larga parte del testo di Ferraris e, più in generale, della sua proposta teorica quale è venuta prendendo forma negli ultimi anni mira a congedare dalle forme ingenue di realismo per delineare un new realism all’altezza dei tempi e, insieme, tale da mantenere un approccio critico e non adattivo, nella prima parte di questo mio saggio per «realismo» non intenderò la posizione specifica di Ferraris (di cui mi occuperò nella seconda sezione del presente lavoro), bensì quella galassia semantica amorfa e non precisata che va oggi sotto il nome di realismo, nel senso prima precisato: l’esigenza di prendere atto della datità dell’esistente, contro ogni progetto trasformativo che pretenda di contrapporre chimericamente il dover essere all’essere o, più precisamente, di individuare nel reale una forma storicamente determinata e, dunque, non intrascendibile. Ferraris stesso – lo ripeto – non si esime dal criticare questa forma di realismo ingenuo, oggi egemonica.

A un primo sguardo, quando nell’estate del 2011 divampò lo scontro tra «postmodernisti» e «nuovi realisti», sembrò scontato che il conflitto tra le due posizioni fosse insanabile: pareva, in effetti, che si trattasse di un contrasto tra due prospettive teoriche sideralmente distanti e, di più, polarmente opposte, tali da escludere alternative (tertium non datur). Se per i primi, sulle orme di un Nietzsche riletto come teorico di sinistra dell’Oltreuomo2 e del postmoderno, non esistono fatti ma solo interpretazioni (secondo una declinazione nichilistica dell’ermeneutica che – giova ricordarlo – nulla ha a che fare con la prospettiva veritativa dell’ermeneutica gadameriana3), per i secondi, in maniera diametralmente opposta, non esistono interpretazioni ma solo fatti, costituendo il reale nella sua nuda datità il punto di partenza per ogni teoria della conoscenza e per ogni interpretazione filosofica.

Il dibattito che per svariati mesi ha occupato le pagine culturali delle principali testate giornalistiche assumeva sempre, come presupposto, l’opposizione inconciliabile tra le due visioni del mondo, peraltro implicitamente assunte come le sole due possibili (a cui tutte le altre possono in certa misura essere ricondotte). Si tratta, però, di un ingenuo fraintendimento (nella migliore delle ipotesi) o di un’ideologia (nella peggiore). Occorre, dunque, prendere le mosse da una radicale problematizzazione del presupposto dell’opposizione totale dei due orientamenti filosofici per poi analizzare, in seconda battuta, la natura del new realism di Ferraris.

Nei Dialoghi dei profughi, Brecht rileva che chi non ha senso dell’umorismo non può comprendere la dialettica hegeliana, nella misura in cui essa mostra come una stessa cosa alberghi in sé opposti contraddittori e la sua intima essenza stia nell’essere un’unità sintetica di antitesi in correlazione essenziale4. Occorre ugualmente essere dotati di senso dell’umorismo per decifrare l’effettiva portata della relazione tra realismo e postmodernismo: lungi dall’essere posizioni antinomiche, sono due opposti in segreta correlazione essenziale, configurandosi, avrebbe detto Lukács, in un rapporto di solidarietà antitetico-polare. Il realismo e il postmodernismo si muovono infatti (condividendolo integralmente) sul terreno dell’accettazione dell’esistente, che deve essere rispecchiato – e dunque assunto come intrascendibile – per il realismo e infinitamente interpretato ermeneuticamente per il postmodernismo. Se per il realismo, non ci sono interpretazioni ma solo la forza bruta della fattualità, con annesso rispecchiamento santificante delle asimmetrie del potere, per il postmodernismo la realtà non c’è neppure, ed esiste solo l’infinito gioco prismatico delle interpretazioni, tutte ugualmente valide perché tutte ugualmente distanti da una presunta verità (aprioristicamente decretata inesistente).

In entrambi i casi, il mondo-così-com’è permane stabilmente e a essere neutralizzata è l’istanza della critica trasformatrice, vuoi anche quella che la tradizione legata al nome di Marx aveva qualificato come «filosofia della prassi»5. Ne scaturisce il trionfo di quello che propongo di chiamare il “teorema cartesiano”, che caratterizza ugualmente il realismo e il postmodernismo al di là delle diverse prospettive e dei differenti presupposti teorici: «cambiare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo»6 (plûtot changer mes désires que l’ordre du monde), come recita la terza regola della «morale provvisoria», ossia sopportare il mondo7 assumendolo come la sola realtà possibile (realismo) o come oggetto di un illimitato proliferare ermeneutico sempre a distanza di sicurezza dalla prassi, assunta aprioristicamente, in modo incondizionato, come responsabile di violenza (postmodernismo). “Consumate, e sopportate il mondo”, recita il principale comandamento dell’odierna civiltà dei consumi, a cui fa da sfondo il più terribile degli articoli di fede della religione capitalistica: “non avrai altra società all’infuori di questa”.

Non soltanto postmodernismo e realismo costituiscono due posizioni polarmente opposte nella loro segreta complementarietà: essi corrispondono anche a due diversi momenti interni all’evoluzione dialettica del capitalismo in quella sua fase che, altrove8, abbiamo tratteggiato come «speculativa», «sintetica» e «assoluto-totalitaria». Li si potrebbero idealmente concepire come due Gestaltungen, come due “figure” dell’evoluzione dello Spirito tratteggiata nella Phänomenologie des Geistes hegeliana: come nel capolavoro di Hegel l’«ascetismo della morale» si rovescia dialetticamente nel «regno animale dello spirito, così il postmoderno trapassa nel realismo. In un primo momento, nell’orizzonte postmoderno, occorre abbandonare ogni emancipazione trasformatrice e l’idea stessa di verità, accontentandosi del «mondo dentro il capitale»9 assunto come intrascendibile «gabbia d’acciaio» con però privilegio dell’illimitato proliferare ermeneutico delle interpretazioni (sempre a distanza di sicurezza dalla realtà, dichiarata addirittura inesistente) e, insieme, dello sgargiante politeismo dei valori e degli stili di vita, della ridefinizione della liberazione come gesto individualistico di scolpimento di sé all’ombra del potere.

Quando l’opera di disincantamento postmoderno si sia finalmente radicata, delegittimando integralmente l’idea di verità filosofica e, con essa, la conoscenza della totalità storico-sociale, la sua valutazione assiologica e la sua trasformazione prassistica, lo stesso postmoderno può trapassare in una nuova figura dello spirito: si ha allora il ritorno alla realtà come dato inemendabile, come inaggirabile orizzonte entro cui pensare e agire, assumendola come intrascendibile a livello sia simbolico sia pratico. Annientate le utopie, desertificato l’immaginario, abbandonata ogni passione rivoluzionaria, è alla nuda forza della realtà (il mondo della produzione realmente dato) che occorre tornare, nella forma di un realismo che assuma, rispecchi e riproduca simbolicamente l’esistente: non più interpretazioni senza verità e senza passione progettuale, bensì realtà come opprimente peso dei rapporti di forza e delle tetragone asimmettrie del potere che devono essere rispecchiate sub specie mentis. Variando la formula di Lenin, il realismo non è altro che la fase suprema del postmodernismo.

Prendiamo allora le mosse dall’orizzonte postmoderno, per mostrarne la genesi e la funzione simbolica, per poi volgere lo sguardo al realismo ingenuo. Nietzsche, Heidegger e Foucault – certo anche al di là delle loro intenzioni – vengono assunti come numi tutelari di un pensiero che deve liquidare la dialettica hegelo-marxiana, con la sua «passione per la realtà»10 e con la sua assunzione del divenire come tratto essenziale di ogni forma sociale e storica: Nietzsche è elevato dai suoi “addomesticatori” accademici a sulfureo vate del proliferare illimitato delle differenze e, insieme, di un’ermeneutica nichilistica in cui non vi sono fatti ma solo interpretazioni; Nietzsche, dunque, come surreale differenzialista e teorico dell’Oltreuomo flessibile e antiborghese in coerenza con l’odierno proliferare del multiculturalismo del consumo, funzionale al monoculturalismo del mercato. Heidegger, dal canto suo, viene assunto come teorico oracolare della Tecnica come Gestell, come «dispositivo-impianto» intrascendibile, rispetto al quale «solo un Dio ci può ancora salvare»11 (nur noch ein Gott kann uns retten), in un programmatico abbandono della prassi umana come via per superare le contraddizioni reali a cui seguono, di riflesso, l’accettazione integrale del pur deplorato ordine del mondo e una sindrome di impotenza storica. Non siamo ancora stati salvati, né lo saremo mai12. Di qui l’esigenza di riconciliarsi con l’esistente. La Tecnica heideggeriana non è altro che il marxiano modo di produzione capitalistico privato però della possibilità del suo superamento, con annessa sostituzione dell’imperativo «proletari di tutto il mondo, unitevi!» con il disincantato auspicio «solo un Dio ci può salvare». La Gelassenheit, ossia l’«abbandono» che lascia essere le cose come sono, ne è il più coerente corollario.

Foucault, infine, diventa il profeta tanto della dissoluzione del soggetto (cancellato «come sull’orlo del mare un volto di sabbia»13) quanto del nesso inscindibile tra verità e potere: la verità è, in quanto tale, autoritaria e antidemocratica, secondo il foucaultiano nesso alchemico tra verità e potere tanto celebrato dal postmodernismo14. In coerenza con la passione postmoderna per il pop, per l’ironia dissacrante che mette deleuzianamente i baffi all’immagine di Hegel, il nesso sapere-potere si compendia nei versi di quella canzone di non troppi anni fa: «la verità, lo sai, mi fa male …». Solo il nichilismo relativista può garantire la democrazia, ripete il coro virtuoso dei Postmoderni: una posizione, questa, su cui Ferraris stesso pone criticamente l’attenzione, e che in realtà può essere confutata anche solo con un esempio, quello di Spinoza, il pensatore più “forte” e meno relativista dell’intera modernità e, insieme, quello che tiene a battesimo una politica della democrazia incardinata sulla tolleranza e sulla libertas philosophandi.

Non credo, a differenza di Ferraris, che il vero bersaglio del postmoderno sia l’Illuminismo15: come ho cercato di chiarire altrove16, lo ravviserei piuttosto nell’hegelo-marxismo, come peraltro è provato esemplarmente dalla stessa vicenda di Lyotard, entusiasta teorico di Socialisme ou Barbarie, poi disinvoltamente passato al rassegnato disincantamento postmoderno come elaborazione del lutto per il proprio abbandono dell’utopia rivoluzionaria. La fine della «metanarrazione» marxista svolge in Lyotard lo stesso ruolo che in Nietzsche svolge la «morte di Dio»: dopo l’iniziale vertigine del nichilismo, il disincanto viene razionalizzato e si scoprono chances positive nel Nulla che si è prodotto in forza del duplice movimento di assolutizzazione del mercato e di rinuncia all’utopia trasformatrice. La temporalità comincia così a essere concepita come un vano veleggiare verso il nulla, in un vorticare policromo di valori contrastanti che devono essere vissuti con euforismo (nella transizione nietzscheana dal “nichilismo passivo” a quello “attivo”). La tragicità weberiana del politeismo dei valori diventa così lo sgargiante ballo postmoderno nel flusso edenico del Nulla del mercato, tra le onde del «sensibilmente sovrasensibile» della forma merce innalzata a orizzonte unico. Della realtà non si può nemmeno più parlare, perché non esiste, sostituita dal flusso della volontà di potenza e delle interpretazioni soggettivamente variabili: la realtà data dei rapporti di forza e dell’alienazione planetaria può così essere dichiarata inesistente, in armonia con quello che Ferraris stesso individua come uno dei capisaldi del postmodernismo, quello per cui «la verità può essere un male e l’illusione un bene, e che questo sia il destino del mondo contemporaneo»17.

Il postmoderno, dunque, come derealizzazione volta a occultare la terribile prosa reificante dell’esistente dietro la maschera del proliferare di interpretazioni del tutto sganciate da ogni valore veritativo e da ogni riferimento all’esistente. A esistere non è il monoteismo dell’economia, ma solo le infinite e illimitatamente vorticanti interpretazioni che si producono nella cornice di questo nichilismo disarmante di un mondo che ha smesso di credere a Dio ma non al Mercato. Si produce così una totale cecità rispetto alla terribile logica illogica, realmente esistente, della produzione illimitata e dello smisurato accumulo delle merci. Nella forma di un nichilismo relativistico, il postmoderno si regge tacitamente sul fundamentum inconcussum del mercato, che pretende uguaglianza e accetta tutto, a patto che si sia nelle condizioni di poterlo acquistare: se letto in trasparenza, il relativismo postmoderno segnala che tutto è ormai relativo al solo potere d’acquisto dell’homo consumens, in un’integrale riduzione dell’identità dell’uomo a mero consumatore18.

Ferraris adombra quello che, dal mio punto di vista, resta il segreto per comprendere la vera natura del postmoderno come funzione espressiva della prima fase del capitalismo speculativo: la fantasmagoria dei desideri (si pensi alla «macchina desiderante» di Deleuze19) non coincide affatto con l’emancipazione, secondo il modo trionfale con cui si contrabbanda. A differenza di Ferraris, tuttavia, che pone in relazione l’elogio postmoderno del desiderio con elementi conservatori o reazionari, legati «all’arcaico, all’infanzia, alle madri»20, ho proposto altrove21 di metterli in rapporto con la prospettiva postborghese e ultracapitalistica in cui il postmoderno si inquadra. L’illimitatezza del desiderare, contro le istanze edipiche della cultura borghese che aspira all’incanalamento dei desideri, è l’immagine vivente del funzionamento a pieno regime del capitalismo speculativo, che si è affrancato dai limiti (morali, religiosi, ecc.) che la cultura borghese era ancora in grado di opporgli22. È un capitalismo assoluto, appunto, perché «sciolto da» (absolutus) ogni precedente vincolo borghese, tale dunque da inseguire la logica fantasmagorica dell’illimitatezza veicolata dal polimorfo proliferare della dismisura dei desideri indotti e funzionali al riprodursi della civiltà dei consumi.

Derealizzazione, desublimazione e ironizzazione, come suggerisce Ferraris23, vanno così a costituire una costellazione unitaria, in cui la realtà scompare (sostituita dalle interpretazioni) e l’ironia dipinge la tonalità emotiva dominante (bisogna ridere rortyanamente di tutto, soprattutto dell’idea di verità, senza prendere nulla sul serio24): il postmodernismo non è altro che lo scetticismo trasformato in una filosofia della storia che narra di come vi fu un tempo in cui si credeva ingenuamente nella verità, poi si abbandonò tale insana credenza, perché l’Essere stesso si era «consumato» (Vattimo25) o perché le grandi utopie trasformatrici si erano rivelate infondate (Lyotard), e da ultimo si approdò alla lieta accettazione dell’esistente come trionfo babelico di differenze deleuziane e di nietzscheana volontà di potenza, apprendendo a cogliere le chances emancipative all’interno del caos babelico del mercato divenuto l’Assoluto immanente26.

Razionalizzazione del disincanto, il pensiero postmoderno corrisponde dunque a quella che altrove, sulle orme di Costanzo Preve27, abbiamo definito come «fase antiborghese e ultracapitalistica» dello sviluppo dialettico del capitalismo: quest’ultimo abbandona la «coscienza infelice» della borghesia e compie l’Anpassung, l’«adattamento» irriflesso all’esistente, razionalizzando la rinuncia alle promesse inevase della modernità (emancipazione, libertà, trascendimento della morfologia mercatistica del reale) e optando per la rassegnata riconciliazione con il reale.

Dalla razionalizzazione dell’Entzauberung seguono due conseguenze decisive, in cui credo sia legittimo ravvisare i tratti quintessenziali del postmoderno: 1) la sostituzione del programma fichtiano-marxiano di «ringiovanimento del mondo» mediato dalla praxis con l’elogio incondizionato delle differenze, coincidenti, di fatto, con il sistema di illimitata circolazione dei consumi e delle merci; 2) l’abbandono di un’idea unitaria di storia come processo dialettico di emancipazione e di universalizzazione della libertà, sostituita da quella riesplosione babelica di storie e di punti di vista che corrisponde al venir meno di ogni fondamento e, per ciò stesso, dell’idea di verità. Emblematica di questo orizzonte storico è, allora, l’inversione che il postmoderno Odo Marquard ha attuato dell’undicesima delle marxiane Thesen: «i filosofi hanno solo trasformato il mondo in modi diversi; si tratta però di risparmiarlo»28. Tale inversione, con il suo duplice presupposto del mantenimento illimitato del mondo-così-com’-è e dell’esorcizzazione della possibilità della trasformazione, comporta, con il lessico di Fichte, un’inattesa rivincita ex post del dogmatismo sull’idealismo, ossia – fichtianamente – della dogmatica assunzione dell’esistente come dato a prescindere dalla soggettività umana.

Ha allora ragione Ferraris quando sostiene che il postmoderno «riesce a captare con esattezza lo spirito dei tempi»29, ma non credo colga nel segno quando ritiene che lo Zeitgeist vada semplicemente identificato con la «sazietà nei confronti dei vecchi paludamenti accademici» e l’«avanzare dei media nella considerazione pubblica»30: lo identificherei, piuttosto, nella produzione flessibile di un capitalismo postborghese e postproletario, che si riproduce politicamente al centro, economicamente a destra e culturalmente a sinistra31. Come suggerito da Jameson32, il Postmoderno non è altro che the cultural logic of late capitalism, la sovrastruttura di una struttura coincidente con la produzione postfordista flessibile e precaria33: l’elogio incondizionato delle differenze e dell’assenza di verità, il lievitare incuranti, senza punti fermi e certezze, si presentano così come il completamento ideologico per un mondo in cui sono egemonici il pluralismo degli stili di vita, la flessibilità del lavoro, l’assenza di verità altre rispetto al credo mercatistico, in cui si destruttura l’idea stessa di un’emancipazione a venire in nome della quale adoperarsi collettivamente34. Il capitalismo diventa culturalmente “di sinistra” (flessibile, libertario, postborghese, permissivo, ecc.), secondo una transizione magnificamente condensata nel passaggio dal Superuomo di destra all’Oltreuomo di sinistra.

Sulla stessa lunghezza d’onda, non credo che gli esiti più perversi del postmoderno siano, come crede Ferraris, il «populismo mediatico» o il «negazionismo storico»35: una lotta contro i quali resta, certamente, un obiettivo nobile e condivisibile, ma che non deve indurre a dimenticare come la prima contraddizione del presente sia il capitalismo speculativo come struttura di cui il postmoderno è una sovrastruttura simbolica.

Il realismo, dal canto suo, corrisponde a una fase successiva di questo sviluppo dialettico interno al «capitalismo speculativo»: svolto il suo compito storico, ossia la destrutturazione (la «decostruzione», secondo la grammatica di Derrida) di ogni metafisica, di ogni valore veritativo della filosofia, di ogni passione progettuale che non si limiti a interpretare variamente il mondo, è alla realtà che occorre tornare, ai reali rapporti di forza, al «giudizio dei mercati», alla dittatura delle borse e delle multinazionali, al fanatismo cieco dell’economia, teologia della disuguaglianza sociale. Se è questa la realtà del capitalismo assoluto-totalitario, la portata ideologica di ogni invito al realismo appare, da subito, lampante. All’abitatore del tardo capitalismo si chiede dapprima di accomiatarsi dalle illusioni per abbracciare il disincanto e abbandonare la metafisica (fase postmoderna) e, poi, di accettare come unico sapere valido e all’altezza della realtà la scienza empirica, l’inerte rispecchiamento realistico dell’esistente (fase realista). È nel realismo metodologico delle scienze empiriche che si coagula quell’«attrazione irresistibile della forza delle cose»36 che caratterizza il desolato paesaggio di cui siamo abitatori noi, ergastolani del presente.

Non è certo un caso che oggi si insista con tanta enfasi sulle due istanze – anche in questo caso segretamente complementari – della weberiana «avalutatività» (Wertfreiheit) e del metodo scientifico. Decostruita la metafisica come sistema scientifico della verità (conoscenza ontologica e valutazione assiologica dell’Intero), la filosofia – se vuole continuare a esistere – è chiamata ad assimilare i metodi delle scienze empiriche e l’avalutatività che le contraddistingue: attenersi al piano empirico, rispecchiarlo gnoseologicamente e non formulare mai giudizi di valore (sono ammesse solo descrizioni, mai prescrizioni). Il realismo ne è il più coerente corollario: il vero viene ritradotto come certezza, come corretta rappresentazione dell’oggetto dato da parte del soggetto conoscente, senza alcuna valutazione assiologica e in un mero rispecchiamento del mondo realmente dato. È, heideggerianamente, il compimento del processo, avviato da Cartesio, di traduzione del problema della verità filosofica in certezza del soggetto rappresentante37, avente come presupposto la distinzione ermetica tra soggetto (mero conoscitore del mondo) e oggetto (la datità dell’esistente). Conoscere significa rispecchiare l’oggetto così com’è, e dunque santificarlo, accettarlo nella sua datità, assumerlo come un presupposto e, di più, come un datum naturale che deve essere accertato, ma la cui esistenza ed intrasformabilità non possono neppure sensatamente essere messe in discussione.

È così neutralizzata in partenza la possibilità di una filosofia che possa conoscere, valutare e trasformare l’Intero, la totalità falsa del mondo a morfologia capitalistica: non è ammesso alcun rilievo critico e antiadattivo come quello dei Minima moralia adorniani38, secondo cui «l’Intero è falso» (das Ganze ist das Unwahre). L’Intero non è conoscibile né valutabile, perché trascende il piano empirico: solo la parte può essere conosciuta, e questa non è mai né buona né vera, ma solo certa, a patto che venga correttamente rispecchiata. Avalutatività e realismo sono, allora, legati da un nesso simbiotico: l’avalutatività è già realismo, e il realismo è già avalutatività. Quest’ultima comporta l’accettazione supina del reale senza un suo giudizio, assumendolo dunque nella sua bruta datità, non perché sia buono o giusto, ma semplicemente perché si dà realisticamente. L’avalutatività è, appunto, l’ideologia di chi rinuncia a valutare l’esistente perché interessato a conservarlo nella sua effettiva configurazione.

La più coerente manifestazione ideologica di questa prospettiva è la completa destoricizzazione che il realismo produce a propria immagine e somiglianza: dall’esplosizione postmoderna delle storie al plurale, dei frammenti storici non rapportabili a un’unica storia39, contro ogni linguaggio della totalità e della razionalità del divenire, si passa così, fin troppo disinvoltamente, alla rimozione completa della storicità. Tipico dell’ideologia – di ogni ideologia – non è forse, del resto, il duplice e sinergico movimento di naturalizzazione e di destoricizzazione di ciò che è socialmente e storicamente determinato? Si torna così a una forma naturalizzata di capitalismo, assunto come un mondo già-da-sempre dato (capitalismus sive natura).

È un passaggio decisivo, su cui è bene insistere: il rovesciamento dialettico del postmoderno nel realismo porta con sé, sul piano temporale, il transito dalla temporalità multidirezionale e framentaria (postmoderna) alla contrazione completa della dimensione del tempo (fase realista), a quell’eterno presente che altrove ho qualificato come «essere-senza-tempo»40: l’assenza di tempo a cui sono condannati gli uomini in balia dell’odierno feticismo dei mercati, per un verso, si determina come mancanza concreta del tempo per fare tutto ciò che potremmo e vorremmo fare se la nostra esistenza non fosse risucchiata nei vortici della fretta imposta dal sistema della produzione; per un altro verso, si profila come assenza di tempo storico, nella forma della contrazione del futuro, desertificato dalle prestazioni ipertrofiche di un presente che aspira a farsi eterno, neutralizzando eo ipso la temporalità storica come luogo del divenire e della trasformazione. La realtà cessa di essere concepita come il risultato di un processo storico e dunque, essa stessa, come un momento transeunte lungo l’asse mobile della storia e viene assolutizzata in forma ideologica, contrabbandata nella forma di un ideale-eterno.

La nietzscheana «malattia storica» (historische Krankheit) si capovolge, così, nell’opposto male di quell’assenza completa della storicità che caratterizza il nostro orizzonte presente. È con l’avvento del postmoderno che si consuma l’abbandono della ricerca di un senso unitario tra le pieghe della storia; abbandono che dà luogo alla già richiamata riesplosione delle storie, molteplici, frammentarie, disorganiche, sconnesse, babeliche e non direzionate41. Con il realismo, l’idea stessa di uno svolgimento dialettico, temporalmente mediato, si dissolve e resta il «questi», come lo chiama Hegel nelle Fenomenologia dello Spirito, la «certezza sensibile» della mera datità delle cose concepite nella loro bruta oggettività. Il capitalismo aspira a pensarsi come il solo mondo possibile, storicamente non determinato: non ci chiede altro che di essere realisti. Ha ragione Ferraris quando sostiene che «è necessaria una filosofia ricostruttiva»42, che operi sulle macerie del postmoderno e del realismo ingenuo. Occorre ora valutare se il new realism da lui proposto assolva in modo soddisfacente a questo compito.

 

2. «New realism» e idealismo: l’oggettività non oggettiva del mondo sociale

Sarebbe ingeneroso e, di più, fuorviante rubricare senza riserve il new realism codificato da Ferraris come un episodio del realismo ingenuo che abbiamo poc’anzi tratteggiato, definendolo come la fase suprema del postmodernismo. Nel Manifesto del nuovo realismo, l’autore prende a più riprese posizione contro un realismo così declinato, mostrando non solo la differenza che lo separa ermeticamente dal new realism, ma anche come il primo debba essere inteso non già come l’anticamera del secondo, bensì come l’esito del postmodernismo43. Come suggerisce Ferraris, è tipico del realismo ingenuo assumere come indistinti l’essere naturale e l’essere sociale, pretendendo di risolvere il secondo nel primo: come se i rapporti economici o le istituzioni giuridiche e politiche godessero dello stesso statuto ontologico di alberi e montagne.

Un tale esito è coerente con l’unione mistica operata dal postmoderno tra l’essere naturale e quello sociale: il pensiero postmoderno non soltanto non ha distinto i due ambiti, ma, facendo valere la tesi per cui non esistono fatti (naturali e sociali), ma solo interpretazioni, ha finito per unificarli idealmente, preparando il terreno per la rinascita dell’odierno realismo ingenuo in tutte le sue eterogenee declinazioni. La negazione postmoderna di ogni riferimento alla realtà sociale e a quella naturale poste indebitamente sullo stesso piano si capovolge così, dialetticamente, nella realistica assunzione dell’esistente – sia naturale, sia sociale – come dato da rispecchiare gnoseologicamente e conservare praticamente. Anche in questo caso, il realismo si configura come la fase suprema del postmodernismo.

La conseguenza che ne discende è quella della naturalizzazione del mondo sociale, ossia dell’indebita assunzione della sua datità come se fosse un dato di fatto naturale: in modo ideologicamente tutt’altro che neutro, rapporti sociali, leggi, istituzioni economiche vengono allora considerati analoghi alle catene montuose, esistenti in modo incondizionato e oggettivamente reale, tale da dover semplicemente essere registrato, mai messo in discussione. È quella che Marx chiama «ideologia»44, il rispecchiamento santificante dell’esistente trasfigurato nel solo mondo possibile perché già da sempre dato.

Del resto, si tratta di un movimento del tutto coerente con quello che oggi contraddistingue il capitale, il quale – come dicevo poc’anzi – si autocontrabbanda ideologicamente in forma naturalistica come solo-mondo-possibile perché naturalmente già da sempre esistente. Prova ne è, del resto, che le leggi della finanza valgono oggi per gli uomini come una necessità naturale e gli stessi movimenti del mercato, imprevedibili come i terremoti, si abbattono sulla società con la stessa inevitabilità delle catastrofi naturali45. Poiché il mondo economico che produce a propria immagine e somiglianza la dittatura dei mercati è una realtà esistente in modo naturale alla stregua di una catena montuosa, occorre adeguarvisi e sopportarlo: si tratta, è evidente, di un processo di feticizzazione reificante (il mondo sociale, storicamente e soggettivamente prodotto, viene ipostatizzato in un oggetto naturalmente esistente, le «leggi dell’economia» e il «volere dei mercati») e, insieme, di una dinamica ideologica promossa dallo stesso sistema della produzione (che si giustifica rimuovendo il proprio elemento storico e sociale, naturalizzandosi).

Ferraris prende ripetutamente congedo dal realismo ingenuo e dalla sua unificazione mistica di essere sociale ed essere naturale, tramite la distinzione tra «oggetti sociali» e «oggetti naturali»46. Secondo un esempio che gli è particolarmente caro, le promesse godono di uno statuto ontologico sideralmente distante da quello delle catene montuose. Queste ultime esistono, si potrebbe dire, in modo «oggettivamente oggettivo», mentre l’esistenza delle promesse o dei rapporti economici si dà nella forma di un’«oggettività non oggettiva», giacché essi esistono oggettivamente nella misura in cui sono stati posti da un soggetto sociale. È proprio in questa distinzione che occorre valutare la portata critica del new realism: se, come Ferraris afferma, «il realismo è la premessa della critica»47, ciò accade in virtù del fatto che per criticare l’esistente e poi trasformarlo prassisticamente occorre valutarlo quale realmente è, pena il riprecipitare nella postmoderna assunzione dell’inesistenza della realtà al cospetto dell’ipertrofico proliferare delle interpretazioni. Realismo, dunque, non come mero accertamento santificante dell’esistente, bensì come suo giudizio critico, alla luce del fatto che gli oggetti sociali sono oggettivamente non oggettivi e, dunque, possono essere prassisticamente trasformati. Conoscere la realtà, dunque, valutarla e poi eventualmente trasformarla sul piano pratico. È in questo senso che il new realism può presentarsi come «il primo passo sulla strada della critica e della emancipazione»48.

L’accertamento del fatto realmente oggettivo che il lupo stia a monte e l’agnello stia a valle e che, di conseguenza, il primo non possa intorbidare l’acqua al secondo, è la base per valutare la situazione oggettiva e, poi, per agire concretamente in vista del ristabilimento della giustizia. Se si trattasse di un semplice «oggetto naturale», sarebbe sufficiente rispecchiarlo gnosoelogicamente, secondo i canoni delle scienze naturali (fermo restando che anche i cosiddetti «oggetti naturali» esistono sempre e solo tramite la mediazione della coscienza, ci si danno cioè sempre mediati dal pensiero). Ma poiché si tratta di un «oggetto sociale», occorre trasformarlo in modo tale che corrisponda maggiormente alla soggettività che l’ha posto in essere, in modo cioè che l’oggettivazione sociale sia più conforme al concetto stesso di “uomo” e di rapporti tra individui liberi e uguali. In questo senso, «il richiamo agli oggetti sociali ha un valore intrinsecamente critico»49, come spiega Ferraris, perché la considerazione del reale diventa la base per valutarlo e per agirvi concretamente. Ed è solo distinguendo tra oggetti sociali (oggettivamente non oggettivi) e oggetti naturali (oggettivamente oggettivi) che ciò diventa possibile.

Abbiamo, in questo caso, quella che recentemente Badiou ha qualificato come «passione per il reale»50 – identificandola come tratto saliente della prima metà del Novecento –, assunto, appunto, come oggetto non già da rispecchiare, come se si trattasse di un «oggetto naturale», bensì da valutare e da trasformare tramite la prassi. Si situa in questo orizzonte l’affermazione di Ferraris secondo cui «l’argomento decisivo per il realismo non è teoretico bensì morale, perché non è possibile immaginare un comportamento morale in un mondo senza fatti e senza oggetti»51. E ancora, in riferimento al new realism: «è una dottrina critica in due sensi. Nel senso kantiano del giudicare cosa è reale e cosa non lo è, e in quello marxiano del trasformare ciò che non è giusto»52. Il riferimento al reale diventa esso stesso la base per modulare la critica dell’esistente e la sua trasformazione.

Lascio qui a margine la questione – secondaria rispetto al tema di questo saggio – circa la possibile compatibilità del codice marxiano con quello kantiano53, e soffermo invece l’attenzione su tre nuclei problematici reciprocamente interconnessi. In primo luogo, una volta chiarita la distinzione tra oggetti naturali e oggetti sociali, il new realism sembra prestare ancora poca attenzione ai nessi sociali concretamente esistenti. Se gli oggetti sociali esistono in quanto posti in essere dal soggetto sociale (nella forma, appunto, di una sua oggettivazione), la strada più feconda da intraprendere mi pare, plausibilmente, quella dell’ontologia dell’essere sociale di Lukács: il new realism, infatti, anziché porre l’accento sul’elemento storico e sociale della questione, si concentra in modo unilaterale sull’oggettivazione in quanto tale, ossia sull’esistenza oggettiva di quegli oggetti sociali di cui pure riconosce l’oggettività non oggettiva (il loro carattere di prodotti sociali ontologicamente eterogenei rispetto a montagne e alberi).

Nell’orizzonte del new realism, la dimensione storica, sociale, politica, il concreto orizzonte materiale della produzione che fa da base per la concreta materializzazione degli oggetti sociali, tende ad arretrare sullo sfondo: a emergere in primo piano è l’indagine sullo statuto ontologico degli oggetti sociali, trascurando però le condizioni materiali (storicamente e socialmente determinate) che li rendono possibili. Ne nasce quella che propongo di definire un’ontologia sociale spogliata della sua forma storica e dei concreti nessi sociali: di oggetti sociali come i titoli di borsa o le istituzioni economiche, al new realism interessa non tanto la dimensione sociale, politica e storica – il concreto mondo che li produce –, quanto piuttosto che cosa siano tali oggetti sociali in quanto tali. L’attenzione è tutta, cioè, per il momento oggettivo, e non tanto per quello genetico che li pone in essere. La scoperta dell’oggettività non oggettiva degli oggetti sociali viene per ciò stesso obliata nell’atto con cui è scoperta e tematizzata. In particolare, l’elemento storico – in coerenza con il realismo ingenuo – tende a sparire completamente e, con esso, un concetto decisivo come quello di «ideologia» nel senso marxiano.

Il rischio di una ricaduta nel realismo ingenuo è lampante: anziché una critica glaciale del mondo storico come presupposto degli oggetti sociali, il new realism concentra l’attenzione sull’esistenza stessa degli oggetti sociali, sul loro funzionamento, sulla loro descrizione fenomenologica, come se – di fatto – fossero oggetti autonomamente esistenti (si pensi al caso della “ontologia del telefonino“ studiata da Ferraris). Se è vero che gli oggetti sociali sono oggettivi e insieme soggettivi, in quanto esistono oggettivamente come materializzazione di un’attività soggettiva, il new realism sembra, volens nolens, attribuire maggiore importanza alla determinazione oggettiva, minimizzando la pur ammessa importanza dell’elemento soggettivo.

L’egemonia assegnata, sia pure indirettamente, all’aspetto oggettivo produce una conseguenza degna di rilievo, ed è questo il secondo degli aspetti prima enunciati su cui vorrei ora portare l’attenzione. Tale conseguenza può così essere formulata: l’egemonia del momento oggettivo finisce per imporre una priorità dell’elemento gnoseologico su quello pratico e, insieme, una ricaduta, anche in questo caso “preterintenzionale”, nell’ambito della teoria del rispecchiamento propria delle scienze naturali (l’accertamento dell’oggettività data).

In questo modo, sia pure distinti dagli oggetti naturali, gli oggetti sociali finiscono per poter essere conosciuti in modo affine rispetto ad essi: tramite accertamento, nella forma dell’adaequatio rei et intellectus. Se, infatti, si pone l’accento sull’elemento oggettivo, trascurando quello soggettivo, ossia il concreto gesto storicamente e socialmente condizionato dai concreti rapporti di forza che mutano lungo l’asse mobile della storia, allora gli oggetti sociali finiscono indebitamente per essere concepiti alla stregua di quelli naturali: non si tratta di trasformare il mondo in vista di una sua sempre maggiore conformazione al soggetto, ma, viceversa, di conoscerlo in modo sempre più prossimo alla certezza scientifica. Non, dunque, una teoria critico-trasformativa, bensì un’immensa classificazione – al centro, ad esempio, di Documentalità54 – degli oggetti sociali come effettivamente si danno nel mondo, considerati appunto nella loro realtà oggettiva: ancora una volta, non prassi trasformatrice, bensì accertamento rispecchiante. Il rischio è, una volta di più, quello di una ricaduta nell’abisso del realismo ingenuo, ossia dell’assunzione dell’«‘inemendabilità’, il carattere saliente del reale»55, come valida anche per il piano dell’essere sociale.

La sola via per aggirare questo rischio risiede nell’enfatizzazione del momento soggettivo, ossia tanto dell’atto concreto che pone in essere gli oggetti sociali, quanto del concreto «mondo storico» che fa da base per la loro produzione reale. Ora, questa correzione del new realism ci riporta nell’alveo dell’idealismo tedesco. Il compito che Ferraris assegna al new realism, «vedere nel mondo sociale l’opera della costruzione umana, che tuttavia – proprio nella misura in cui è una interazione sociale – non costituisce una produzione puramente soggettiva»56, non corrisponde forse, sia pure tramite la mediazione di concetti differenti e di una diversa grammatica filosofica, alla soggetto-oggettività idealistica, ossia al nesso inscindibile tra soggetto e oggetto?

L’idealismo tedesco, nei suoi tre principali esponenti (Fichte, Hegel e Marx57), può pertanto costituire un fondamentale termine di confronto, poiché opera in modo particolarmente coerente la deoggettivazione del mondo oggettivo, mostrandone la genesi sociale e storicamente determinata. È l’idealismo tedesco, infatti, a scoprire per primo, come suggerito da Lukács, «una connessione dialettica dietro l’oggettività apparentemente morta degli oggetti e delle istituzioni della società, in modo tale che l’oggettività di tutti gli oggetti perda il suo carattere morto e appaia come premessa e risultato dell’attività del soggetto»58, in una triplice rinuncia all’accettazione della morta positività del reale, alla riconversione della verità filosofica in certezza scientifica e all’immutabilità dell’esistente.

In Fichte, Hegel e Marx – ed è questo, al di là delle differenze, il loro comune codice filosofico di marca idealistica – la soggetto-oggettività allude all’unità inscindibile di soggettività umana trascendentalmente e ideamente unificata e di storia universale del genere umano come serie delle sue oggettivazioni spazio-temporalmente connotate. I rapporti economici, l’ordine sociale, i nessi giuridici, le istituzioni politiche non sono “cose”, oggetti naturali e a sé stanti, tali da dover essere semplicemente contemplati nella loro datità: essi sono il frutto dell’attività oggettivante degli uomini e, in quanto tali, non hanno nulla di definitivo o di fatale. Il soggetto sociale li ha prodotti e può sempre da capo trasformarli in vista di una loro coincidenza, mediata dalla prassi, con il soggetto stesso.

In termini hegeliani, la certezza valida per gli oggetti naturali nulla ha a che fare con la verità degli oggetti sociali. Con le parole dell’hegeliana Enciclopedia (§ 213), «la Verità consiste nella corrispondenza dell’Oggettività (Objektivität) al Concetto (Begriff) – non nella corrispondenza di cose esteriori alle mie rappresentazioni, nel qual caso queste sono soltanto rappresentazioni esatte (richtige Vorstellungen59. Mentre la corrispondenza delle rappresentazioni con gli oggetti naturali produce la certezza scientifica operativa nell’essere naturale, la verità filosofica si dà solo come processo temporalmente mediato di identità del soggetto e dell’oggetto, ossia del riconoscimento del mondo degli oggetti sociali come libera posizione del soggetto stesso e, di conseguenza, come prassi orientata a far sì che essi corrispondano pienamente al soggetto stesso. Non rispecchiamento gnoseologico degli oggetti sociali, bensì loro attiva trasformazione pratico-critica. Ha ragione, allora, Ferraris quando, in riferimento al pensiero postmoderno, sostiene che «dire addio alla verità non è solo un dono senza controdono che si fa al ‘Potere’, ma soprattutto la revoca della sola chance di emancipazione che sia data all’umanità»60, mediante la verità: a patto però che tale verità sia concepita idealisticamente come processo di corrispondenza del soggetto (l’umanità) con l’oggetto (i propri oggetti sociali storicamente posti) mediata dalla prassi.

Nell’idea fondamentale – architrave dell’idealismo – secondo cui non c’è un oggetto senza il soggetto (secondo la formula fichtiana, kein Objekt ohne Subjekt61) è già racchiuso, virtualmente, il rifiuto del mondo come un datum e, dunque, come una «cosa in sé» che deve essere rispecchiata (come se si trattasse, appunto, di un «oggetto naturale»), conosciuta e, in ogni caso, accettata nella sua consistenza di oggettualità esistente a prescindere dal soggetto agente. In altri termini, Fichte per primo scopre che il mondo oggettivo, lungi dall’esistere autonomamente, si dà come non-Io, ossia come esito della soggettività umana che si materializza, con la prassi, nell’oggettività sociale; in modo convergente, come precisato da Lukács, «Hegel comincia a vedere sempre più chiaramente che i settori ‘positivi’ della società moderna sono anch’essi prodotti dell’attività umana, che essi sorgono e periscono, si sviluppano o si irrigidiscono, in continua interazione con l’attività degli uomini; essi non appaiono più, a Hegel, come un ‘destino’ già dato, finito, inesorabilmente oggettivo»62.

Con la genesi dell’idealismo si verifica, dunque, una svolta epochemachend che segna la transizione, sul piano simbolico, dalla concezione dell’esistente come immodificabile «cosa in sé» (Ding an sich) al nesso tensionale tra i due poli in correlazione essenziale del soggetto (sociale, comunitario) e dell’oggetto. Quest’ultimo, secondo la grammatica della prima delle Thesen marxiane su Feuerbach, non deve essere concepito come un Objekt, ossia come un «oggetto naturale» autonomamente esistente, bensì come un Gegenstand, come un «oggetto sociale», ossia come «oggettività non-oggettiva» perché posta dal soggetto stesso. Lungi dal dover solo essere rispecchiato, il mondo può ontologicamente e deve moralmente essere trasformato, razionalizzato, accordato con i princìpi della soggettività umana. Nella prospettiva schiusa dall’idealismo, come l’oggetto è dato tramite la mediatezza del porre del soggetto, analogamente la società è il risultato sempre di nuovo ricreato dell’attività degli uomini: tutto ciò che appare socialmente positivo è in realtà il prodotto della prassi umana, e lo stesso processo storico di formazione dell’umanità consiste nell’acquistare una sempre più marcata consapevolezza dell’identità di soggetto e oggetto (fichtianamente, il non-Io come posizione dell’Io stesso). Come Fichte chiarisce nel Sistema di etica del 1798, «secondo il punto di vista trascendentale il mondo è fatto, secondo il punto di vista comune è dato»63.

In Fiche non meno che in Hegel, l’idealismo – pensiero della defatalizzazione dell’esistente – matura come acquisizione della consapevolezza che il sistema delle mediazioni sociali in cui si cristallizza la strutturazione della società, lungi dal presentare lo statuto della morta positività propria di una «cosa in sé», è il prodotto sempre riprodotto dell’attività sociale degli uomini: il presupposto fichtiano kein Objekt ohne Subjekt diventa, allora, il codice segreto della concezione sociale e politica dell’idealismo, nonché della sua soggettività pratica. In Fichte, ben prima che in Hegel, troviamo codificato un processo dialettico in cui l’umanità pensata come un unico soggetto agente (Ich) si crea e si ritrova in ciò che ha creato, acquistando autocoscienza: si tratta di un processo dialettico ritmato da alienazione, disalienazione e acquisizione dell’autocoscienza tramite la prassi e mediato da quella temporalità storica di cui nel codice del new realism non sembra esservi traccia.

Sempre in Fichte, del resto, è già attiva l’idea – che sarà anche di Hegel e di Marx – per cui il raggiungimento della razionalità da parte della coscienza del singolo consiste nel fatto che il soggetto riconosce gradualmente il vero carattere della società e della storia come un prodotto comune delle oggettivazioni della prassi del genere umano socializzato (la Sostanza pensata come Soggetto, secondo la grammatica della Vorrede dell’hegeliana Phänomenologie). È come se la coscienza individuale si orientasse in un mondo sociale alienato dalla stessa attività umana e non fosse ancora pervenuta alla comprensione del fatto che l’oggettività non oggettiva di questo mondo è il prodotto dell’alienazione posta in essere dal genere umano stesso, che dunque può porvi rimedio tramite quella stessa prassi che l’ha posta in essere64. Il concetto di «alienazione» (Entfremdung) – assente nella grammatica filosofica del new realism – è anch’esso decisivo. Esso coincide con il processo, socialmente condizionato, con cui il soggetto oblia l’oggettività non-oggettiva dell’oggetto, ossia l’esistere di quest’ultimo come esito di una posizione ad opera del soggetto stesso come inesauribile attività determinantesi nella prassi (l’odierno realismo ingenuo può con diritto essere concepito come l’apice di questo processo di alienazione): con le parole di Fichte, «l’intero sistema degli oggetti per l’Io deve essere prodotto dall’Io stesso»65. Come sul piano gnoseologico l’oggetto si dà sempre tramite l’atto del soggetto che, pensandolo, lo pone (così in Fichte, ma poi anche in Gentile), analogamente, sul piano sociale, la società esiste come prassi soggettiva cristallizzata e sempre trasformabile.

Solo l’idealismo può allora concretamente porre rimedio alle aporie del new realism, ponendo l’attenzione sul momento sociale, storico, soggettivo della creazione degli oggetti sociali, evitando in questo modo di riprecipitare in ogni forma di realismo ingenuo o di identificazione del mondo sociale con quello naturale. Se è vero, come Ferraris ammette esplicitamente, che mai come oggi occorre effettuare «una scelta di campo, una fiducia nell’umanità»66, tale fiducia può essere garantita solo dall’idealismo e dalla sua duplice dinamica di defatalizzazione dell’esistente e di responsabilizzazione del soggetto agente nel teatro della storia. «La filosofia trascendentale – scrive Fichte – mette l’uomo sui suoi piedi»67, responsabilizzandolo e rendendolo libero artefice della sua storia e delle sue oggettivazioni.


Note
1 Cfr. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. X-XI.
2 Si vedano soprattutto G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, 1962; tr. it. a cura di F. Polidori – D. Tarizzo, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002; G. Vattimo, Il soggetto e la maschera: Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1974.
3 Il cuore dell’ermeneutica gadameriana non è infatti il relativismo nichilistico per cui la verità si risolve nell’interpretazione («non esistono fatti ma solo interpretazioni»), ma, al contrario, la tesi per cui ogni verità deve essere mediata da interpretazioni, ossia dal dibattito dialogico mosso da una sincera intenzionalità veritativa. Cfr. O. Ottaviani, Esperienza e linguaggio: ermeneutica e ontologia in Hans-Georg Gadamer, Carocci, Roma, 2010.
4 B. Brecht, Flüchtlings-gespräche, 1940, in Id., Prosa, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977, II, p. 215.
5 Su questo punto, mi permetto di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano, 2012, con saggio introduttivo di A. Tagliapietra, pp. 480 ss.
6 R. Descartes, Discours de la méthode. Pour bien conduire sa raison, et chercher la vérité dans les sciences, 1637; tr. it. a cura di G. Belgioioso, Discorso sul metodo, in Id., Opere (1637-1649), Bompiani, Milano, 2009, p. 53.
7 Sul tema della «sopportazione del mondo», si veda soprattutto P. Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, 2009; tr. it. a cura di P. Perticari, Devi cambiare la tua vita, Cortina, Milano, 2010.
8 Rimando ancora al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, op. cit., pp. 340 ss. Si veda inoltre C. Preve, Storia dell’etica, Petite Plaisance, Pistoia, 2007.
9 Cfr. P. Sloterdijk, Im Weltinnenraum des Kapitals. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrischen Globalisierung, 2005; tr. it. a cura di S. Rodeschini, Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma, 2006.
10 Si veda A. Badiou, Le siècle, 2005; tr. it. a cura di V. Verdiani, Il Secolo, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 36 ss.
11 M. Heidegger, Nur noch ein Gott kann uns retten, 1976; tr. it. a cura di A. Marini, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, Parma, 1987, p. 136.
12 Si veda P. Sloterdijk, Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, 2001; tr. it. a cura di A. Calligaris, Non siamo ancora stati salvati: saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano, 2004, p. 59: «il tardo annuncio di Heidegger che solo un dio ci potrebbe salvare, rende ancora una volta più chiaro che, per lui, neanche in seguito l’uomo entra in questione come il soggetto della svolta».
13 M. Foucault, Les mots et les choses, 1966; tr. it. a cura di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 19703, p. 414.
14 Emblematico, a questo proposito, il testo di G. Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma, 2008.
15 «La storia recente ha confermato la diagnosi di Habermas che trent’anni fa vedeva nel postmodernismo un’ondata anti-illuminista»: M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 31.
16 Rinvio al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, op. cit., pp. 350 ss.
17 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 4.
18 Questo punto è stato sottolineato da Z. Bauman, Consuming Life, 2007; tr. it. a cura di M. Cupellaro, Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari, 20093; Id., Does Ethics Have a Chance in a World of Consumers?, 2008; tr. it. a cura di F. Galimberti, L’etica in un mondo di consumatori, Laterza, Roma-Bari, 2010.
19 Si veda soprattutto G. Deleuze, Rhizome, 1976; tr. it. a cura di S. di Riccio, Rizoma, Pratiche, Parma, 1977.
20 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 17.
21 Rinvio al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, op. cit., pp. 420 ss.
22 Ancora più di Deleuze, Negri è venuto ponendo al centro della sua riflessione una critica incondizionata del capitalismo “imperiale” che tuttavia assume, in modo aporetico, l’antropologia del desiderio come base della propria elaborazione, con la conseguenza per cui l’appagamento dei flussi di desideri delle “moltitudini” globali non può che essere ottenuto all’interno della produzione capitalistica stessa. Il “nemico” non è individuato nel capitalismo come luogo dell’alienazione universale, ma nel potere, nel gendarme francese ispirato alla razionalità cartesiana e all’autoritarismo degaulliano. La differenza tra l’apologeta del capitalismo e l’anarchico deleuziano risiede soltanto nel fatto che, figli della stessa antropologia del desiderio, il primo è disposto a pagare per consumare, mentre il secondo aspira al consumo senza il pagamento. Le “moltitudini desideranti” non sono altro che il rovescio delle moltitudini sradicate e deterritorializzate che fanno da sostanza e supporto al consumatore globalizzato e differenziato, attraversato da flussi incontrollati di desideri. La negazione di Negri di ogni legittimità della questione nazionale è il sogno di un imperialismo che vuole l’annullamento delle nazioni come base residuale di dominio del politico sull’economico. L’Impero combattuto da Negri può essere tratteggiato come uno spazio capitalistico globalizzato e unificato, attraversato da correnti impotenti di no-global che rifiutano la lotta all’imperialismo come obsoleto prodotto veteromarxista e nazionalistico e che, al tempo stesso, accettano integralmente l’alienazione del desiderio come loro condizione di esistenza. Il movimento con cui Negri critica l’assetto del mondo è lo stesso con cui lo legittima integralmente, consegnando il progetto di trasformazione a moltitudini impotenti, teorizzando un impero senza imperialismo, accettando supinamente l’antropologia del desiderio su cui si regge il sistema globale, svalutando le forme di resistenza nazionali e condividendo acriticamente il presupposto cosmopolitico della globalizzazione. Cfr. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Manifestolibri, Roma, 2005, pp. 217-222; A. A. Borón, Impero & imperialismo. Una lettura critica di Michael Hardt e Antonio Negri, Punto Rosso, Milano, 2003; N Kohan, Toni Negri y los desafíosdeImperio, 2002; tr. it. Toni Negri e gli equivoci di Impero, Massari, Bolsena, 2005; S. Žižek, Have Michael Hardt and Antonio Negri Rewritten the Communist Manifesto For the Twenty-First Century?, in “Rethinking Marxism”, Volume 13, Number 3 (2001), pp. 190-198; C. Preve, Un secolo di marxismo, op. cit., pp. 107-119.
23 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., pp. 15 ss.
24 Cfr. R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, 1979; tr. it. a cura di G. Vattimo – D. Marconi, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano, 2004; Id., Contingency, Irony, and Solidarity, 1989; tr. it. a cura di G. Boringhieri, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Roma-Bari, 2001. «Uso il termine ‘ironico’ per designare un individuo che guarda a viso aperto la contingenza delle sue credenze e dei suoi desideri più fondamentali, uno che è storicista e nominalista quanto basta per aver abbandonato l’idea che tali credenze e desideri rimandino a qualcosa che sfugge al tempo e al caso» (ibidem, pp. 3-4).
25 In Vattimo la “consumazione” della metafisica si presenta dietro la maschera dell’interpretazione di Nietzsche e di Heidegger, e più precisamente di un Nietzsche inteso come profeta di un Oltreuomo di sinistra e portatore di una religione etica indebolita (compendiabile nel motto “credere di credere”), opportunamente privata delle istanze messianico-rivoluzionarie, e di un Heidegger ridotto a “consumatore” delle illusioni della metafisica occidentale. Cfr. G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano, 1996; Id., Al di là del soggetto: Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano, 1984.
26 Cfr. S. Franchini – P. Perticari (a cura di), Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione, Mimesis, Milano, 2011.
27 Si veda C. Preve, Storia dell’etica, op. cit., pp. 115 ss.; Id., Storia della dialettica, Petite Plaisance, Pistoia, 2007.
28 O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, p. 13.
29 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 12.
30 Ibidem, p. 12.
31 Rinvio ancora al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, op. cit., pp. 430 ss.
32 Si veda F. Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism, 1984; tr. it. a cura di S. Velotti, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989.
33 Cfr. L. Boltanski – E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris, 1999, p. 150. Cfr. inoltre S. Lash – J. Urry, The End of Organized Capitalism, Polity Press, Cambridge, 1987, pp. 285-313.
34 Cfr. T. Eagleton, After Theory, Basic Books, New York, 2003; Id., The Illusions of Postmodernism, 1996; tr. it. Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma, 1998; G. Nectarios – G. Limnatis – L. Pastore (a cura di), Prospettive sul postmoderno, Mimesis, Milano, 2005, 2 voll.
35 Si veda M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., pp. 32 ss.
36 P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, 2 Bände, 1983; tr. it. a cura di M. Perniola, Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano, 1992, p. 36.
37 Si veda M. Heidegger, Der europäische Nihilismus, 1961; tr. it. a cura di F. Volpi, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, 20103, p. 205. «L’‘aspetto nuovo’ della determinazione essenziale della verità consiste nel fatto che la verità è ora ‘certezza’»: ibidem, p. 177. E ancora: «il conoscere come percipere e cogitare, nel senso di Descartes, ha il suo contrassegno distintivo nell’ammettere come conoscenza soltanto ciò che, mediante il rappresentare, è fornito al soggetto come indubitabile» (ibidem, p. 205). Per Cartesio – spiega Heidegger – «la verità significa la fornitura sicura del rap-presentato entro il rap-presentare che si rappresenta; la verità è certezza» (ibidem, p. 231), corretto accertamento sottratto al dubbio da parte dell’ego cogitans.
38 T. W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, 1951; tr. it. a cura di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino, 1979, p. 48. Cfr. P. Nolan, Capitalism and Freedom. The Contradictory Character of Globalisation, Anthem, London, 2008, pp. 43-144.
39 Secondo la ricostruzione di Vattimo, la modernità può dirsi tramontata esattamente nel momento in cui «non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario» (G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano, 2000, terza edizione accresciuta, p. 8) e «si arriva a dissolvere l’idea di storia come corso unitario» (ibidem, p. 9). Cfr. anche Id., Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino, 1989, p. 18: «la fine della modernità è la fine della storia come corso metafisicamente giustificato e legittimante».
40 Mi permetto di rimandare al mio Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita, Bompiani, Milano, 2010, con presentazione di A. Tagliapietra.
41 Per una interpretazione del rapporto tra postmoderno e storia, cfr. anche L. Niethammer, Posthistoire. Ist die Gesellschaft zu Ende?, Rowohlt, Reinbek, 1989; U. K. Heise, Chronoschisms. Time, Narrative and Postmodernism, Cambridge University Press, Cambridge, 1996, pp. 11-76; F. R. Ankersmit, Historiography and Postmodernity, in «History and Theory», n. 28 (1989), pp. 137-153; P. Zagorin, Historiography and Postmodernism: Reconsiderations, in «History and Theory», n. 29 (1990), pp. 263-274; H. Nowotny, Time: the Modern and Postmodern Experience, Polity Press, Cambridge, 1994; J. Topolski (a cura di), Historiography between Modernism and Postmodernism: Contributions to the Methodology of the Historical Research, Rodopi, Amsterdam, 1994; W. Thompson, Postmodernism and History, MacMillan, New York, 2004; E. Domanska, Encounters: Philosophy of History after Postmodernism, University Press of Virginia, London, 1998; J. C. Clark, Our Shadowed Present: Modernism, Postmodernism and History, Stanford University Press, Stanford, 2004.
42 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 60.
43 Scrive Ferraris, a rimarcare la distanza del suo realismo da quello ingenuo di stampo positivistico: «il realismo che propongo si presenta come antitetico rispetto al positivismo» (ibidem, p. 58).
44 Si vedano i seguenti testi: T. Eagleton, Ideology. An Introduction, 1991; tr. it. a cura di S. Negrini, Che cos’è l’ideologia, Il Saggiatore, Milano, 1993; F. Rossi-Landi, Ideologia. Per l’interpretazione di un operare sociale e la ricostruzione di un concetto, Meltemi, Roma, 2005. Mi permetto inoltre di rinviare al mio saggio monografico L’“Ideologia tedesca” tra critica della spettralità e fondazione della scienza filosofica, in K. Marx – F. Engels, Die deutsche Ideologie, 1845-1846 (1932); tr. it. a cura di D. Fusaro, Ideologia tedesca, Bompiani, Milano, 2011, con presentazione di A. Tagliapietra, pp. 19-306.
45 Cfr. A. Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica, Petite Plaisance, Pistoia, 2011.
46 Si veda M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 74.
47 Ibidem, p. 30.
48 Ibidem, p. 63.
49 Ibidem, p. 76.
50 Cfr. A. Badiou, Il Secolo, op. cit., pp. 36 ss.
51 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 63.
52 Ibidem, p. 61.
53 Rinvio ancora a Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, op. cit., pp. 350 ss.
54 Si veda M. Ferraris, Documentalità, Laterza, Roma-Bari, 2011.
55 Id., Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 30. Si veda anche ibidem, p. 48.
56 Ibidem, p. 79.
57 Su Marx come idealista, si veda soprattutto C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra materialismo e idealismo, Il Prato, Padova, 2007, pp. 37 ss.; Id., Ripensare Marx. Filosofia, idealismo, materialismo, Ermes, Potenza 2007. Mi permetto di rinviare anche a Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (op. cit., pp. 320 ss.) e a Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (Bompiani, Milano, 2009).
58 G. Lukács, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft, 1948; tr. it. a cura di R. Solmi, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi, Torino, 1960, 2 voll., I, p. 183. Cfr. anche B. De Giovanni, Hegel e il tempo storico della società borghese, De Donato, Bari, 1970.
59 G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 1830; tr. it. a cura di E. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bompiani, Milano, 2000, p. 387.
60 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 112.
61 J. G. Fichte, Sämmtliche Werke, a cura di I.H. Fichte, Veit, Berlin, 1845-1846, I, p. 183.
62 G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, op. cit., I, p. 441.
63 J. G. Fichte, System der Sittenlehre, 1798; tr. it. a cura di E. Peroli, Sistema di etica, Bompiani, Milano, 2008, p. 803.
64 In particolare, per il giovane Hegel, nel periodo bernese, la “positività” è quella propria delle istituzioni opposte alla soggettività dell’uomo socialmente inteso, soprattutto alla prassi umana. Nel periodo francofortese, poi, Hegel viene maturando una visione dialettica della positività, insistendo sulla dinamica che ha portato il nesso tra prassi umana e istituzioni sociali a farsi “positivo”. La prassi ha posto in essere il mondo sociale, che, di conseguenza, non esiste come “cosa in sé”. Si veda G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, op. cit., II, pp. 400 ss. Si veda inoltre E. Bloch, Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel, 1949 e 1962; tr. it. Soggetto-oggetto. Commento a Hegel, Il Mulino, Bologna, 1962.
65 J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach Principien der Wissenschaftslehre, 1796-1797; tr. it. a cura di L. Fonnesu, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 26.
66 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, op. cit., p. 32.
67 J. G. Fichte, Rückerinnerungen, Antworten, Fragen, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Fromman-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, II, 5, p. 123.

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Eros Barone
Saturday, 23 July 2016 23:24
Come afferma Maurizio Ferraris, qui citato, uno dei sintomi più interessanti dell’emergere di una nuova tendenza realistica nella riflessione filosofica contemporanea starebbe nel fatto che “si sia tornati a considerare l’estetica non come una filosofia dell’illusione, bensì come una filosofia della percezione”. Stupisce quindi che nell’articolo qui riportato, di cui non condivido in generale la linea interpretativa e i riferimenti, caratterizzati da uno spiritualismo archeologico di stampo decisamente littorio, a Gentile e a Fichte, manchi qualsiasi accenno al realismo socialista.
Un aneddoto può giovare a porre in luce la crescente importanza del realismo socialista. Alcuni anni fa il direttore dell’accademia di Francoforte, arrivato a Mosca con l’intenzione di organizzare una retrospettiva dedicata al lavoro di Kandiskij, entrò in crisi durante il tragitto dall’aeroporto all’albergo, perché notò che l’autostrada era costellata da manifesti pubblicitari di due tipi: da un lato, vi erano quelli ispirati dalla globalizzazione capitalistica con i grandi marchi occidentali della Levi’s e della Coca Cola in primo piano; dall’altro, quelli realizzati per pubblicizzare prodotti russi, che mostravano una netta differenza estetica rispetto ai primi, giacché si richiamavano tanto nell’organizzazione spaziale quanto nello stile pittorico all’arte del periodo staliniano. Insomma, gli autori di questi manifesti, pur essendo a conoscenza delle ultime tendenze internazionali, preferivano ispirarsi alla forza propagandistica del realismo socialista per dare espressione alle proprie finalità. A questo punto, si impone una domanda: se il realismo socialista è capace di ispirare, anche ai nostri giorni, un’elaborazione particolarmente efficace delle immagini (basti pensare allo stile che caratterizza le illustrazioni degli odierni libri scolastici russi), perché è così scarsa l’attenzione che gli viene prestata?
Per fornire una prima risposta a questa domanda occorre considerare che in Russia, diversamente da quanto avvenne con la tradizionale arte di regime, ad esempio nel periodo nazista, le sperimentazioni degli artisti d’avanguardia confluirono direttamente nei primi sviluppi del realismo socialista, imprimendogli un carattere inconfondibile attraverso tecniche come la fotografia o il collage. Accadde così che molti artisti delle avanguardie del primo ’900 contribuissero attivamente alla nascita di un’arte del popolo capace sia di porre fine, in virtù dell’abolizione del mercato, all’adeguazione meccanica e coattiva dell’offerta artistica alla domanda solvibile, sia di dischiudere la possibilità di una diffusione delle proprie ricerche su larga scala e presso un pubblico sterminato. Tra l’altro, vale la pena di precisare che la partecipazione attiva e diretta di diversi artisti d’avanguardia alla costruzione di una cultura visiva che intendeva essere autenticamente di massa obbliga a ripensare quell’antinomia tra avanguardia e cultura di massa (o ‘kitsch’) che per tutto il secolo scorso è stata considerata un vero e proprio truismo. Del resto, la carica rivoluzionaria espressa dagli artisti d’avanguardia nasceva dalla volontà di creare non solo un nuovo pubblico, ma anche un nuovo tipo di essere umano, che avrebbe condiviso il loro gusto e avrebbe visto il mondo attraverso i loro occhi. L’obiettivo era quello di cambiare il genere umano, non solo l’arte.
La riprova di questo discorso può essere colta in due temi figurativi particolarmente frequentati, in quanto connessi a due protagonisti, come Lenin e Stalin, della storia della Russia novecentesca. Che questi personaggi campeggino nella produzione delle opere del realismo socialista non deve sorprendere, poiché le opere che li raffigurano non erano certo pensate per finire nelle sale dei musei, bensì per essere esibite nelle biglietterie delle stazioni ferroviarie e negli atri delle scuole e dei teatri, al fine di sprigionare tutta la carica mitopoietica ìnsita in quei protagonisti della storia russa. Una carica mitopoietica che spiega anche quel caso esemplare di inversione del rapporto, concepito ingenuamente come unidirezionale, tra il verosimile estetico e la realtà storica, che si ritrova nella famosa scena del film “La caduta di Berlino”, in cui il regista Mikhail Chiaureli decise di mostrare Stalin mentre arrivava di persona a Berlino e conquistava la capitale tedesca, benché naturalmente questo non fosse mai avvenuto. Quando Stalin vide il film non protestò per la licenza poetica, ma disse al regista che la verosimiglianza del suo personaggio gli faceva pensare di essere stato davvero presente in quel periodo a Berlino. Mi sembra dunque che non manchino le ragioni per sostenere che il confronto con la poetica e con le realizzazioni del realismo socialista avrebbe sicuramente accresciuto lo spessore di un saggio teso a dimostrare che “il realismo è la possibilità estetica…di confliggere ‘dentro e contro’ i confini di verosimiglianza imposti”.
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