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manifesto

La potenza redentrice di un pensiero

 di Alberto Burgio

«Giordano Bruno» di Michele Ciliberto per Mondadori. L'avventura esistenziale di un pensatore «maledetto» dove vita e filosofia coincidevano

giordano brunoLa vita come filosofia, la filosofia come autobiografia e come esperienza teatrale. I pensieri come fatti vissuti, i fatti come figure concettuali da rappresentare sulla scena del mondo. Tutto questo è Giordano Bruno. Qui sorgono, nello stesso tempo, il suo programma teorico e la sua idea di sé e dell'esistenza. A cominciare dalla propria, per destino straordinaria.

Non è una novità. Chi legga Bruno sa di dover fare i conti, sempre, con una connessione indissolubile di vita, filosofia e autobiografia. Con una vita che si fa, consapevolmente, sostanza teorica e che come tale si comprende e si narra. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla dialettica dei contrari. Dove il contrasto tra le diverse dimensioni della propria personalità diviene principio di comprensione del mondo e delle sue trasformazioni. E dove il conflitto, la contraddizione, si rovescia, da motivo di disgregazione, in ragione di forza. Da fonte di scomposizione, in fattore di unità e di coerenza dinamica.


 Corpo a corpo col Cristo

Non è una novità, è un fatto acquisito. Ma è un fatto che si può subire o, invece, assumere e far proprio, magari traendone linfa per nuove e più penetranti forme dell'impresa ermeneutica. La poderosa ricostruzione della vita di Bruno che ora Michele Ciliberto ci consegna (Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, pp. 555, euro 30) lo dimostra in maniera esemplare. È una biografia a modo suo unica precisamente per come raccoglie la sfida di ripercorrere e narrare una vita in se stessa filosofica: trasfigurata - resa pensiero, concetto e testo - nel momento stesso in cui fu vissuta e, appunto, rappresentata. Messa in scena.


Ciliberto coglie qui un risultato inseguito da tempo. Questo stesso intreccio fondava già le sue precedenti letture bruniane (ricordiamo le più note soltanto, da La ruota del tempo, 1986, al Giordano Bruno laterziano del '90, a L'occhio di Atteone, 2002). Ma ora il crogiolo si direbbe raggiungere la completa fusione. E offrire un riuscito gioco di specchi grazie al quale l'indagine sul pensiero rischiara la vita e la vicenda esistenziale illumina a sua volta la filosofia, svelandone le riposte intenzioni, l'immanente necessità: un gioco perfetto, grazie al quale davvero il profilo di Bruno sfuma nel ritratto di Teofilo.

Valga, per tutti, il riferimento al rapporto con la figura del Cristo, asse portante dell'intera ricostruzione perché punto focale verso cui tende l'incoercibile pulsione bruniana alla propria «eroica» autotrasfigurazione. Che cosa fu questo rapporto, questa sconvolgente competizione, questa inesausta sfida che celebrò i propri fasti sul rogo di Campo de' Fiori? Fu vita o filosofia? Teatro o pensiero? Passione o polemica teologica? O fu piuttosto incalzante contenzioso sui mali del mondo, sulle colpe della religione e della Chiesa, sull'«impostura» e sul peccato di chi si pretese figlio di Dio ma non ebbe nemmeno la forza di una morte dignitosa?


La sapienza mondana


Fu tutto questo e altro ancora, risponde Ciliberto. Fu anche (si pensi allo Spaccio) il fondamento di una lettura della crisi del mondo alle soglie della modernità. E fu la base di un progetto di rinnovamento filosofico, religioso e politico capace di restituire giustizia al merito e di instaurare un rapporto diretto con la natura attraverso la sapienza mondana che Bruno chiama «magia».

Ma certo la vita rivendica, nell'aspro corpo a corpo col Cristo, un primato che il pensiero non saprebbe contenderle. Anche per questo lo studio biografico si rivela strumento principe. L'ingiustizia del mondo è, in primo luogo, dolore dell'uomo. Ferita aperta nel costato di chi, dapprima, nella divinità e nella potenza redentrice del Cristo, che di quella ingiustizia è complice e reo, credette. Sino a farne il proprio ossessivo modello. Per questo l'ingiustizia diviene offesa intollerabile. Per questo il peccato non conosce redenzione e scatena una violenza rabbiosa, che sempre di nuovo sorprende. Ciliberto sostiene che vi è «qualcosa di personale e persino di inquietante» in questa scandalosa reazione («Christo è un cane becco fottuto can»), in questo disprezzo inaudito. Scrive di un «risentimento troppo acuto e profondo» perché non si pensi al tramonto di una fervida speranza, financo alla caduta di un «amore tradito».

Di certo c'è che la rilettura di questo tema dà finalmente ordine a un magma di pensieri e di immagini altrimenti non padroneggiabile. Grazie a questo filo narrativo la vita di Bruno e il suo pensiero traggono forma nello scambio reciproco di motivi e ragioni. Fino all'ultima scena - scena, poiché qui davvero trionfa la dimensione teatrale del vivere e del pensare - della morte sul rogo. È come un'apoteosi, come il compiersi glorioso di un temerario progetto di potenza che riscrive, rovesciandolo, il racconto evangelico.


Il Golgota di un uomo


Una morte decisa, scrive con forza Ciliberto. Voluta, non subìta. Accolta e praticata come strumento di autoaffermazione, di riscatto e di libertà. Come tragica rappresentazione della propria dignità. Il teatro della vita si chiude nell'ultima recita che il condannato tiene da «grande attore». Il suo epilogo non si risolve in una perdita, si ribalta in un sovvertimento. Campo de' Fiori è il Golgota di un uomo - quindi dell'uomo - restituito alla piena consapevolezza delle proprie ragioni. Nel momento della morte, la vita vince. E vince la filosofia, che della vita è stata anima e sostanza: ispiratrice di una riflessione teologica e di una riforma spirituale tese ad affermare l'avvento di una prassi laica.

Questo libro è una ben strana cosa. Non sapremmo collocarlo: non ha un genere, travalica molti confini. Avremmo potuto concludere dicendo, ragionevolmente, che è il coronamento di una feconda stagione di studi, di una Bruno Renaissance che in questi anni ha prodotto preziose edizioni e sofisticati strumenti filologici. E dischiuso nuove prospettive d'indagine che hanno complicato l'idolo Rinascimento restituendone un volto moderno ma liberandolo, ad un tempo, dal compito improprio di «anticipare» temi e tempi di poi. È certamente anche tutto questo. Ma è soprattutto altro. È la definitiva autobiografia che Giordano Bruno ci consegna, inaspettata, quattro secoli dopo la propria estrema e «suprema rappresentazione».

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