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La malattia è curabile?    

di Roberto Tamborini   

Si va delineando il quadro delle riforme del sistema finanziario in corso d'opera. Prima la legge Dodd-Frank negli Stati Uniti, poi l'istituzione di nuovi organismi di regolazione e supervisione nella UE, infine le nuove regole bancarie note come Basilea III.

Il giudizio prevalente di osservatori ed esperti è, in sintesi: si va nella giusta direzione, ma le riforme sono ancora (molto) insufficienti. Vero, ma fino a che punto un sistema interconnesso e complesso come la finanza internazionale è riformabile e governabile?

Lo sforzo riformatore più consistente sembra essere stato quello dell'Amministrazione americana, dove nella legge Dodd-Frank compare l'unico intervento strutturale, la cosiddetta Volker Rule, che dovrebbe disincentivare la commistione tra attività bancaria tradizionale e operazioni puramente finanziarie ad alto rischio. Brescia Morra (su questo sito ) ha evidenziato i limiti dei nuovi organismi di regolazione e supervisione istituiti dalla UE. Il panorama del sistema finanziario europeo assomiglierà a quei teatri operativi militari dove sono in campo eserciti privati agguerriti e ben equipaggiati, eserciti nazionali con stendardi e pennacchi, ma di fatto semi-impotenti (in qualche caso con qualche generale compiacente),  caschi blu e altri osservatori internazionali, di cui sono note audacia, determinazione e incisività. Sappiamo come, di solito, va a finire.

Barucci (su questo sito ) ci ha descritto il topolino di Basilea III: aumento del requisito patrimoniale (il rapporto tra capitale primario e attivi ponderati per il rischio passa dal 2% al 4,5%), un airbag aggiuntivo per le emergenze, ulteriormente gonfiabile a scopi anticiclici. Il tutto da realizzarsi in 8 anni. Sì, sostanzialmente questo è tutto.

Barucci ricorda maliziosamente che, mentre salivano le lamentazioni dei banchieri (non tutti), i mercati hanno brindato con un rialzo dei titoli bancari. E' vero che non ci fidiamo tanto della razionalità dei mercati, però … Una rapida visita dei maggiori siti internazionali fornisce lo stesso clima di delusione, e dunque di preoccupazione. Per esempio Yves Smith, su RoubiniGlobalEconomics , è particolarmente negativo, e rileva che Basilea III non fornirebbe nessuna protezione per una crisi simile a quella del 2007.

Le parole-chiave evocative delle riforme desiderate sono: più estese, più strutturali, più sistemiche. Una lista parziale che soddisfa questa desideri comprende:
- smembrare i conglomerati finanziari "troppo grandi per fallire"
- segmentare mercati e operazioni dei conglomerati finanziari "troppo interconnessi per fallire"
- ri-specializzare gli intermediari finanziari
- ri-incentivare e rivitalizzare l'attività bancaria tradizionale

E' probabile che, senza interventi di questa natura, quanto è stato fatto finora possa rivelarsi una difesa inconsistente nel momento di un nuovo terremoto. Infatti, le riforme dovrebbero inserirsi nella nuova cornice concettuale del governo del sistema finanziario internazionale, la quale consiste di tre strumenti:
- regolazione microprudenziale
- regolazione macroprudenziale
- regolazione macroeconomica

Il primo strumento è chiaro e sappiamo di cosa si tratta: è la regolazione bancaria di tipo Basilea III. Anche il terzo ha un significato noto e familiare: sostanzialmente si tratta della politica monetaria (magari rivista e corretta per tener conto meglio degli indicatori finanziari). La regolazione macroprudenziale, invece, è un concetto relativamente nuovo e piuttosto nebuloso: dovrebbe riguardare il monitoraggio, controllo e regolazione dell'andamento e della rischiosità del sistema finanziario nel suo insieme. Questa è la dimensione regolativa e di policy che, alla luce delle lezioni della crisi, appare  indispensabile per dare un senso compiuto al nuovo approccio. Ma ne sappiamo ancora poco, e soprattutto, richiederebbe proprio quegli interventi strutturali più penetranti e profondi che vediamo via via evaporare ad ogni nuovo Gn. La regolazione microprudenziale e quella macroeconomica, concepite separatamente, senza il fondamentale anello della dimensione sistemica, saranno incongruenti ed inefficaci.

Prendiamo la regolazione microprudenziale. La crisi ci ha insegnato che quella esistente è stata del tutto inutile, sia perché è stata aggirata, ma anche perché  era stata concepita con un difetto di costruzione, che per semplicità possiamo chiamare misura statica dei rischi. Il punto di partenza di qualunque regola bancaria è: quanto sono rischiose le poste attive? Per rispondere, in buona sostanza, si guarda al passato: si prendono i titoli che ha in portafoglio la banca, si misurano le variazioni dei loro prezzi e rendimenti (volatilità) su un certo orizzontale di tempo passato, si fa una classifica della rischiosità e si misura il patrimonio in rapporto alle diverse classi di rischio. Supponiamo che la banca superi l'esame di Basilea III (che sarà un poco più severo di Basilea II). Il dubbio che sorge (dovrebbe sorgere) spontaneo ad una persona di buon senso è: se la banca è sicura oggi, in base a quello che è successo sui mercati ieri, lo sarà anche domani? La risposta data dalla crisi è una drammatico NO. Il difetto concettuale della misura statica dei rischi è che, per (in)determinate circostanze, l'attivo (o il passivo) di una banca può deteriorarsi rapidamente in maniera anomala rispetto alle statistiche passate. Ma queste sono proprio le circostanze cruciali per la stabilità del sistema. I famosi stress test (adesso) cercano di porre rimedio simulando condizioni di mercato anomale, ma naturalmente sono discutibili in quanto basati su ipotesi del tutto arbitrarie (e anche facilmente manipolabili, come si vocifera nel caso della banche europee). Il problema ha strettamente a che fare proprio con la dimensione sistemica dei rischi, che evolvono dinamicamente lungo le interconnessioni tra i diversi operatori finanziari. La salute di un banca non si può misurare in maniera statica e isolata dal contesto: dipende da quella di tutte le altre banche e clienti a monte e a valle.

Ora guardiamo al problema dal punto di vista della politica monetaria. Alla vigilia della crisi dominava la Greenspan-Bernanke Doctrine: non è necessario che la banca centrale si preoccupi degli indicatori finanziari, bastano PIL e inflazione (dei prezzi dei beni di consumo). Ora prevale l'idea che le banche centrali siano parte integrante e attiva dei sistemi di sicurezza e stabilità finanziaria. Presumibilmente, da questi nuovi compiti esse dovrebbero trarre anche indicazioni per la politica monetaria preventiva, visto che abbiamo imparato che monitorare PIL e inflazione non basta. Ma come, se non è chiaro come reagisce il sistema a disturbi di varia natura, tra cui gli interventi stessi della banca centrale, se non sappiamo come il rischio sistemico evolve dinamicamente in seguito a tali disturbi? Se la banca centrale alza i tassi (o li abbassa) sappiamo che il sistema diventa meno liquido (o più liquido), ma diventa più o meno rischioso? Per esempio, quando la Fed, dopo la crisi del 2001, abbassò i tassi (e li tenne bassi per tre anni) il sistema divenne molto liquido e molto rischioso.

Il problema ha anche radici teoriche e concettuali. Buona parte degli strumenti di macroeconomia  ed economia finanziaria sviluppati negli ultimi vent'anni non hanno superato lo stress test della crisi. Erano del tipo fligth instructions for fine weather (come pilotare quando c'è bel tempo). Durante il ciclone c'è stata navigazione a vista, e così si sta andando avanti. Ora, mentre saltano fuori dai cassetti e si scartabellano affannosamente testi ritenuti obsoleti o bizzarri (Keynes, Minsky, Tobin), o si presta ascolto a qualche Nobel tenuto fuori dai policy circles (Stiglitz, Krugman, Akerlof, Kahneman), vengono anche messi a punto nuovi concetti e strumenti in grado di affrontare concretamente i problemi  posti da un sistema complesso come quello finanziario. La teoria dei sistemi complessi ha fatto il suo timido ingresso anche in economia, dopo aver conquistato un ruolo stabile e rilevante nelle scienze naturali e in altre scienze sociali. Una sua derivazione particolarmente adatta per la finanza è la network analysis, l'analisi dei sistemi di rete.

Qualsiasi sistema finanziario minimamente sviluppato è un sistema di rete. Le reti hanno dei "nodi" (banche, istituti finanziari, banche centrali, clienti, ecc.) e hanno della "connessioni" (le relazioni finanziarie reciproche). Di questa struttura possiamo fare una fotografia in un dato momento (per esempio incrociando i bilanci dei vari nodi), ottenendo la "topologia" della rete. Possiamo anche misurare la distribuzione di nodi e connessioni (quanti nodi sono collegati con quanti altri e con quale intensità). Codificando la rete in un programma, è possibile fare esperimenti, per esempio colpire la rete con diversi tipi di shock ed esaminare accuratamente sia risultati di sistema (quanti nodi falliscono e quanti sopravvivono), sia di parti di esso (come si modificano le relazioni tra i nodi, quali diventano più grandi  e quali più piccoli). A un livello più sofisticato i nodi non sono solo registrazioni di poste di bilancio, ma sono veri e propri agenti economici che prendono decisioni sui loro bilanci. L'idea che i rischi di ciascuno, e quindi il rischio sistemico, evolvono dinamicamente ed endogenamente diventa concreta, tangibile ed osservabile.

Lo strumento quindi è promettente e si sta diffondendo non solo tra ricercatori insoddisfatti dello stato dell'arte ma anche nelle istituzioni deputate alla politica economica. Naturalmente ci sono ancora lati oscuri e limiti. Il primo è quello della qualità dei dati. Affinché una simulazione di rete dia indicazioni affidabili occorre avere una grande mole di dati di dettaglio sui componenti della rete stessa. Naturalmente non è facile, ma è un problema che può essere superato con l'impegno delle istituzioni pubbliche di vigilanza, e non sembra terribilmente più grave rispetto agli strumenti per gli stress test tradizionali. Il secondo problema è in realtà un insieme di problemi e risvolti metodologici su cui vorrei fare qualche riflessione.

Un aspetto fondamentale delle reti, come in generale dei sistemi complessi, sono le cosiddette proprietà emergenti. La cosa eccita terribilmente i ricercatori, giustamente, in particolare coloro che sono convinti che un aggregato non si comporta come la somma dei comportamenti dei suoi componenti. Questa è, molto grossolanamente, la definizione di proprietà emergente. In una rete finanziaria, la robustezza agli shock non dipende solo dalla salute ex-ante dei singoli nodi, ma dalla topologia della rete e dal tipo di shock. Vale a dire che la configurazione finale della rete è il risultato delle interazioni locali reciproche, dei processi di diffusione, amplificazione o attenuazione degli shock, con modalità altamente combinatorie e non lineari che non sono prevedibili a priori (questa è un'altra definizione un po' più precisa di sistema complesso). Consideriamo uno dei temi caldi delle riforme strutturali: cosa fare con i conglomerati "troppo interconnessi per fallire"? Dobbiamo promuovere o inibire le interconnessioni? Tra i molti risultati in letteratura ce n'è uno che merita di essere ricordato a mo' di esempio, le cosiddette reti robust-yet-fragile. Secondo le caratteristiche strutturali dei nodi e della rete, al crescere delle interconnessioni la robustezza del sistema aumenta, ma, raggiunto un punto critico, comincia a diminuire. Dove ci troviamo in questo momento, e dove dobbiamo fermarci con la segmentazione del sistema?

Non è per buttarla sui massimi sistemi, da solito economista, e distogliere lo sguardo da molti problemi più mondani che potrebbero e dovrebbero essere decisamente corretti, qui e ora. Ma se prendiamo sul serio l'idea che i sistemi finanziari sono complessi, dobbiamo essere consapevoli che si renderà necessario un duro lavoro di lunga lena per ricercatori e responsabili istituzionali, disseminato di difficoltà concettuali e tecniche, non ultimo un sostanziale cambio di paradigma, di "visione del mondo" rispetto a quello ereditato da prima della crisi. Tocco in superficie solo alcuni punti.

Primo, la regolazione microprudenziale è importante ma non bisogna chiederle (e promettere) quello che non può dare: la sicurezza sistemica. Secondo, la sicurezza sistemica non è un vestito di regole con la stessa taglia e la stessa foggia per tutti i casi e per tutte le stagioni; è piuttosto una scienza induttiva, le cui previsioni e prescrizioni sono condizionate da molte informazioni di contorno e di dettaglio, che richiedono continui monitoraggi e verifiche. Inoltre, come proposto recentemente da Oliver Hart e Luigi Zingales, bisognerà dedicare molta più attenzione alle regole d'intervento spot, operatore per operatore, cioè attrezzarsi a circoscrivere e spegnere princìpi d'incendio nelle abitazioni quando e dove si presentano i sintomi. Terzo, uno dei padri fondatori della teoria dei sistemi complessi, Friedrich von Hayek, disse che "nessuno può conoscere un sistema complesso nella sua interezza", e pensava di conseguenza che questi sistemi sono il regno delle "conseguenze inattese delle proprie azioni", le azioni di avidi risk manager, ma anche quelle dei loro regolatori e guardiani.. Se questo è vero, come sembrano confermare gli sviluppi delle scienze del complesso, allora si spiega perché la gran parte della teoria economica e finanziaria moderna, cresciuta su presupposti diametralmente opposti, non risulta adatta allo scopo. Ma se non vogliamo alimentare nuove illusioni e nuovi errori, tutti - economisti, opinione pubblica, istituzioni - dobbiamo essere consapevoli dei limiti assoluti della nostra conoscenza, e quindi della nostra capacità di controllo e di governo di questi sistemi.

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