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thewalking

Gli esiti mutevoli della deflazione

di Maurizio Sgroi

La spinta alla crescita

2012 01 18 14 37 49Per quanto tendiamo a non farci caso, siamo figli della nostra storia. Ed è stupefacente notare come eventi da noi lontanissimi, ormai dimenticati, si riverberino sui comportamenti presenti e, peggio ancora, sulle nostre convinzioni, conducendo sovente a scelte errate che alimentano ulteriormente i nostri pregiudizi.

Siamo figli della storia, pure se ci piace rappresentare il nostro pensiero razionale come un tutt’uno avulso dalle sue declinazioni pratiche. E anche in questo scorgo l’eco di un abito mentale remotissimo che ognuno di noi cova nell’intimo pure senza conoscere il mito della caverna di Platone.

In questo pantheon affollato di usi e luoghi comuni, che qui si limita al discorso economico, trova un posto d’onore il concetto di deflazione che le cronache hanno fatto risorgere all’attualità dopo averlo confinato per decenni sui libri di storia, e segnatamente negli anni ’30, quando la deflazione apparve nel suo volto più mostruoso, che ancora oggi giustifica il suo inserimento di diritto nella categorie delle cose cattive che possono accadere a un’economia.

Ma, come sempre accade, il diavolo non è mai così’ brutto come lo si dipinge. E la storia, pittore esclusivo delle nostre convizioni, la si può raccontare in tanti modi, come ci ricorda un recente articolo (“The costs of deflations: a historical perspective“) pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis.

Gli autori, Claudio Borio, Magdalena Erdem, Andrew Filardo e Boris Hofmann, hanno svolto un’imponente ricognizione storica su un panel di dati che fanno riferimento al periodo 1870-2014, riferiti a 38 economie, cercando di guardare il mostro in faccia, per una volta senza pregiudizi.

Parlare di volto del mostro, poi, è di per sé ingannevole. La deflazione, definita genericamente come una situazione in cui i prezzi declinano, di facce ne ha diverse, almeno quanti sono i tipi di deflazione possibili e relativamente a come il calo dei prezzi si rapporta ora con la crescita, ora col debito.

In tal senso l’analisi contenuta nell’articolo, seppure parziale e necessariamente densa di caveat, ha il merito di incidere nella carne viva dei nostri pregiudizi spiegandoci la deflazione nella multiformità dei suoi esiti, teorici quanto pratici.

La prima considerazione che ne ho tratto, scorrendo l’articolo, è perfettamente coerente con la premessa di questo post. Ciò che pensiamo di sapere della deflazione lo dobbiamo ai terribili anni ’30, quando il mostro, che già si era manifestato anche nell’età del gold standard (1870-1914), ha fatto la sua comparsa in una forma e una virulenza mai conosciuta prima.

Un box contenuto nell’articolo ci ricorda che fra il 1929 e il 1933, negli Stati Uniti, dove la deflazione spiegò i suoi esiti più nefasti, il prodotto nazionale cadde di quasi un terzo e i prezzi al consumo di quasi un quarto, mentre i salari nominali si contraevano di un un quinto e il tasso di disoccupazione passava dal 3 al 25%.

Eccola qui la radice della nostra memoria, che però è imperfetta. Gli autori ci ricordano che quello fu un tempo di crollo del valore degli asset e di crisi bancarie, per lo più concentrato negli Usa, che infatti non si ripresero fino a quando non scoppiò la guerra, a differenza di altre economie che già nel ’38 avevano superato in mediana il livello del prodotto del ’29 del 12%.

Individuata la radice della paura della deflazione, i “Trenta ingloriosi”, dobbiamo fare un altro passo in avanti, ossia distinguere esattamente per tipo di deflazione.

La prima distinzione che dobbiamo fare è quella che riferiamo alla deflazione definita genericamente come calo dei prezzi di beni e servizi, avendo cura anche di sottolineare la differenza fra una deflazione persistente e una transitoria.

I dati mostrano che la deflazione è stata un fenomeno molto comune prima della seconda guerra mondiale, mentre nella face successiva al secondo conflitto si registrano solo quattro episodi di deflazione persistente, due dei quali in Giappone e due in Cina e a Hong Kong.

Al contrario le fase di deflazione transitoria sono state assai comuni anche dopo la seconda guerra. Gli autori hanno censito oltre 100 casi nelle 38 economie considerate.

Nella fase fra le due guerre, invece, le deflazioni persistenti sono state assai più comuni, persino nei ruggenti anni Venti, che precedettero il crollo dei Trenta.

Detto ciò, la prima domanda che bisogna porsi è se ci sia un collegamento fra la deflazione dei prezzi, così come genericamente definita, e nelle forme di transitoria e persistente, e l’andamento della crescita. La prima risposta che danno gli autori è che “la deflazione dei prezzi ha coinciso sia con tassi di crescita positivi che negativi”.

Ciò significa che un generico calo dei prezzi può avere esiti positivi sulla crescita del prodotto.

Le ragioni possono essere molteplici. “La deflazione – ricordano gli autori – può anche derivare da un aumento dell’offerta. Gli esempi includono miglioramenti di produttività, una maggiore concorrenza nel mercato dei beni, o più economici e abbondanti input, come il lavoro o i beni intermedi come il petrolio. La deflazione dal lato dell’offerta deprime i prezzi, aumentando nel contempo i redditi e il prodotto”.

Ed ecco il primo raggio di luce insidiarsi nella fosca notte del nostro pregiudizio. Tanto più quando si osserva che “un confronto fra gli anni di inflazione e quelli di deflazione suggerisce che solo di poco gli anni di inflazione hanno condotto a una maggiore crescita”.

Ciò con l’eccezione del periodo della Grande Depressione, dove il pesante calo dei prezzi ha avuto evidenti conseguenza sulla crescita.

Ancora una volta, un evento straordinario come quello accaduto nei primi anni ’30 ha orientato e orienta tuttora la nostra percezione di questo fenomeno economico.

Pregiudizio talmente forte da offuscare un’altra evidenza illustrata nell’articolo, ossia che “nell’epoca del secondo dopoguerra, nella quale la deflazione transitoria ha dominato, il tasso di crescita è stato superiore durante gli anni di deflazione, il 3,2%, rispetto a quelli senza, il 2,7%”.

Ulteriori analisi hanno confermato che “esiste solo una debole associazione fra la deflazione e un rallentamento della crescita”. E forse è per questo che alcuni studiosi hanno iniziato a parlare di una deflazione “buona”, ossia che giova alla crescita, così come è stata quella alla quale abbiamo assistito dopo la seconda guerra mondiale.

A questo punto dobbiamo fare un altro passo in avanti e conoscere un altro volto della deflazione: quella che si riferisce al calo dei prezzi degli asset. Gli autori si chiedono quale sia più costosa per un’economia: una deflazione generica dei prezzi o una deflazione degli asset?

Ma questa è un’altra storia.

 

La colpa del mattone

Mi risuonano in mente echi di lontane memorie austriache mentre leggo di una “deflazione buona”, nell’articolo della Bis (“The costs of deflations: a historical perspective“) pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis.

Continuo a leggere, mentre la robusta analisi storica dei quattro autori ( Claudio Borio, Magdalena Erdem, Andrew Filardo e Boris Hofmann) fa piazza pulita di tanti pregiudizi così faticosamente costruiti, quando mi ritrovo davanti un’altro volto di questa bestiaccia dalla quale continuamente ci mettono tutti in guardia, e contro la quale le banche centrali di tutto il mondo hanno usato l’arsenale delle grandi occasioni, pur conoscendo i danni che ne conseguiranno.

Mi trovo così faccia a faccia con una particolare forma di deflazione: l’asset price deflations, ossia il crollo dei prezzi relativi all’equity e agli immobili. La domanda che si pongono gli autori è fino a che punto una deflazione dei prezzi, che come abbiamo visto può anche essere benigna, diventa un problema qualora interessi il mattone e gli asset finanziari. Domanda non peregrina, atteso che i prezzi di questi beni hanno effetti diretti non soltanto sulla ricchezza dei possessori, ma sono intimamente legati agli sviluppi del credito.

Anche qui giova tornare in attimo indietro e guardare cosa accadde negli anni Trenta, che sono una specie di bibbia della deflazione.

Gli autori notano che mentre la deflazione generale dei prezzi iniziava a manifestarsi già dalle seconda metà degli anni Venti, i prezzi delle attività, segnatamente degli immobili e delle azioni, continuarono a salire fino al picco che precedette la robusta contrazione post ’29.

Inoltre, i dati mostrano come la deflazione dei prezzi al consumo, oltre ad essere iniziata prima del ’29, sia stata meno pesante di quella registrata negli asset. Il declino mediano dei prezzi al consumo, infatti fra i diversi paesi si collocò intorno al 18%, a fronte del quale, dopo il ’29, si registrarono perdite sull’immobiliare superiori al 20% dopo il crash e nel mercato azionario superiori al 50%, con il picco negativo registrato negli Usa del 67%.

Tutto ciò lascia ipotizzare che la deflazione degli asset segua cicli e logiche affatto differenti da quella generale dei prezzi, e che i fattori che la scatenano siano altrettanto differenti.

Ciò non può che influenzare l’effetto che la deflazione degli asset ha sulla crescita. In particolare l’analisi di regressione svolta dagli autori mostra che esiste una forte correlazione fra la crescita e l’andamento di questi prezzi, che esprime tutta la sua potenza quando questi prezzi collassano, sempre come è accaduto negli anni Trenta.

Ciò conferma la prima parte dell’analisi. La correlazione fra calo dei prezzi e calo della crescita non è significativa, tranne che nel periodo della Grande Depressione, quando però si verificò un sostanziale calo dei prezzi degli asset.

Ciò conferma che “la crescita del prodotto è consistentemente più bassa durante una deflazione degli asset, azionari e immobiliari” E soprattutto, che “l’importanza dei prezzi immobiliari è anche più grande nel periodo del secondo dopoguerra”.

Qui si è osservato che “il prodotto cade consistentemente dopo che i prezzi della proprietà hanno raggiunto un picco”. Anzi “lo slowdown che segue a un picco dei prezzi immobiliari appare persino più forte nel periodo che inizia con secondo dopoguerra”.

Insomma: il mattone è divenuto uno degli arbitri del nostro destino, come peraltro era facile immaginare guardando quello che è successo nel 2008 e dopo.

Ma la “colpa” del mattone ne sussume necessariamente un’altra: quella del credito.

Solo che questa storia si deve ancora scrivere.

 

Il peso del debito

E infine arriviamo al punto: quale esito comporta una deflazione prolungata in un contesto economico caratterizzato da un pesante livello di indebitamento?

Cerco una risposta nell’articolo “The costs of deflations: a historical perspective“, pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis, incoraggiato da una domanda che si pongono gli autori: la debt-deflations è importante?

Prima di rispondere, bisogna rispolverare un po’ di storia.

Il concetto di debt-deflation risale, come gran parte delle nostre opinioni sulla deflazione, agli anni della Grande Depressione, e in particolare venne coniato da Irving Fisher, che nel 1933 pubblicò un celebre studio (The debt-deflation theory of great depressions) nel quale si proponeva di analizzare le interazioni fra il debito e la deflazione dei prezzi, partendo da un semplice principio. In caso di prezzi declinanti, il valore dei debiti aumenta.

In un contesto di alto indebitamento ciò può provocare crisi bancarie e default.

Gli autori della Bis ci ricordano che quandò inventò il termine, Fisher si preoccupava del settore business, che nei magici anni Venti era quello più esposto al debito. “Oggi – osservano – il focus è forte, se non più forte, sulle famiglie e il settore pubblico”.

Due grafici mostrano con chiarezza il motivo di tale affermazione. Nel panel considerato di 16 economie si osserva con chiarezza che il debito del settore pubblico sfiora ormai il 90% del Pil e quello del settore privato i 170%.

Questo tipo di deflazione è l’ennesima variante delle deflazioni possibili, diversa quindi da quella dei prezzi al consumo e diversa da quella degli asset, ognuna delle quali, come abbiamo visto, ha esiti assolutamente diversi.

Per quanto difficoltosa, l’analisi degli autori si propone di valutare la consistenza della relazione fra l’andamento dei prezzi e del debito e vedere se esiste una qualche forma di correlazione fra quest’ultimo, sia pubblico che privato, e la crescita. Per dirla con le lor oparole, il tentativo è quello di stabilire “l’intensità del link fra un rallentamento del prodotto successivo a un picco e il debito nel caso di un episodio di deflazione persistente”.

Chissà perché mi fischiano le orecchie.

Pur se con mille caveat, dovuti principalmente alla disponibilità di dati, i risultati dell’analisi mostrano un risultato che solo in parte assevera la teoria della debt-deflations.

In particolare ciò che emerge con forza è “l’interazione dannosa del debito con i prezzi degli asset, in particolare con quelli immobiliari“. O, per dirla altrimenti, “il debito rende le deflazioni dei prezzi immobiliari più costose, almeno quando interagisce con la misura del credit gap”.

Il credit gap, così come è stato definito, misura gli scostamenti negli andamenti del credito rispetto al suo trend naturale. Una sorta di boom creditizio, insomma.

“Il risultato inoltre suggerisce che un alto debito o un periodo di crescita eccessiva del debito non aumenta un modo visibile il costo della deflazione dei beni e dei servizi, al contrario di quanto accade quando si parla di deflazione degli asset, in particolare di quelli immobiliari”. E questo dimostra ancora una volta, qualora fosse ancora necessario, che ” i boom e bust finanziari, o cicli finanziari, meritano una maggiore attenzione”.

La spiegazione del perché una deflazione dei beni e dei servizi  non impatti sul debito mentre quella degli immobili sì, si può trovare, scrivono gli autori, nel cosiddetto effetto-ricchezza, sul quale il mattone ha sicuramente un peso relativo importante.

Come esempio viene citato il caso americano. Gli autori hanno stimato che il costo della deflazione degli asset dopo il picco del 2008 sia stato di 9,1 trilioni di dollari per gli immobili e di 11,3 trilioni per i detentori di titoli dello S&P 500. Una ipotetica deflazione dell’1% l’anno per tre anni avrebbe provocato un costo di debt-deflation, ossia di aumento del valore del debiti privato e pubblico, di circa 1,1 trilioni, dei quali 0,4 a carico delle famiglie e il resto in parti uguali fra imprese non finanziarie e settore pubblico.

E’ chiaro insomma che una deflazione degli asset ha effetti molto più devastanti, quando il debito è alto, rispetto alla debt-deflation ipotizzata da Fisher, che esiste ma ha un peso specifico inferiore. E soprattutto, ha esiti sociali diversi. La deflazione degli asset colpisce i possessori di ricchezza. La deflazione dei beni e dei servizi ha effetti redistributivi. L’aumento del costo del debito ipotizzato da Fisher, infatti, oltre ad essere pagato da tutti, specie quando riferito al settore pubblico, arricchisce i creditori.

Come si può sintetizzare tutto ciò?

La prima conclusione che fanno gli autori è che la deflazione non è il male assoluto. Ci sono diversi tipi di deflazione e quella che ha fatto più danni, anche in tempi a noi vicini, è stata quella dei prezzi immobiliari. Inoltre, un livello di debito elevato rende costosa la deflazione, ma tale costo è assi più significativo in presenza di una deflazione degli asset. Infine, che il ciclo finanziario, ossia il boom creditizio che sostiene i picchi di valore nominale degli asset, è assai più pericoloso di quanto si pensi.

Ciò che ne ho tratto io, da questa lunga analisi, è che ciò che ci nutre (il credito) contiene il seme (il debito) che minaccia di distruggerci. E soprattutto la sensazione che la deflazione dei prezzi, che così tanta pubblicistica ha avuto ai tempi nostri, sia stata un pretesto per contrastare quella degli asset.

Il QE è servito a salvare i prezzi degli immobili e delle azioni, non quello del pane. Oltre che scaricare sui creditori parte del costo del riaggiustamento.

Ma questo si poteva capire da tempo.

Solo che non si può dire.

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