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L'Impero e la guerra

Danilo Zolo

starwars3Mi propongo in questo saggio di presentare una ricognizione linguistica e un'analisi critica degli usi della nozione di "impero" che oggi ricorrono sempre più spesso nella letteratura politologica e internazionalistica occidentale. Vorrei che la mia riflessione offrisse un minimo contributo alla precisazione del concetto teorico-politico di "impero" e alla giustificazione, a certe condizioni, del suo uso contemporaneo. Non si tratta di un esercizio di lessicografia accademica. Il riemergere della nozione di "impero" è uno degli indici della profonda trasformazione degli assetti politici internazionali legata ai processi di integrazione globale e all'affermarsi di fenomeni di crescente polarizzazione del potere e della ricchezza su scala planetaria (1).

Nello stesso tempo è in atto un processo di dislocazione delle sovranità statali a favore di nuovi attori internazionali - militari, politici, economici, giudiziari - come la NATO, il G8, l'Unione Europea, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Corti penali internazionali, e così via. All'interno di questa arena transnazionale emerge l'egemonia di alcune grandi potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti d'America.

E gli Stati Uniti svolgono sempre più il ruolo di una potenza imperiale "globale" che si pone al di sopra del diritto internazionale e in particolare del diritto bellico. Essa è in grado di ricorrere all'uso della forza in palese violazione del diritto internazionale e ottenendo per di più dalle istituzioni internazionali prestazioni di legalizzazione dello status quo. Ciò si verifica sia in termini di legittimazione normativa dei risultati di guerre di aggressione mascherate come interventi umanitari o come guerre preventive contro il "terrorismo globale", sia in termini di ricorso alla giustizia penale internazionale ad hoc. Dal Tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia al Tribunale speciale iracheno - iracheno, ma in realtà imposto dagli Stati Uniti - si perpetua il "modello di Norimberga": una "giustizia dei vincitori" che le grandi potenze applicano agli sconfitti e ai popoli oppressi.

Questi fenomeni hanno subìto una forte accelerazione alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, dopo la conclusione della guerra fredda, il crollo dell'Unione sovietica, il tramonto dell'ordine bipolare del mondo, l'affermazione degli Stati Uniti come la sola superpotenza planetaria e il diffondersi del terrorismo a livello internazionale. Ed hanno conosciuto un'ulteriore accelerazione dopo l'11 settembre 2001 e le guerre di aggressione condotte dagli Stati Uniti contro l'Afghanistan e contro l'Iraq.


1. Un'avvertenza metodologica

Il lemma "impero", così come oggi viene usato in Occidente, presenta valori semantici in larga parte non coincidenti con le accezioni di "impero" e di "imperialismo" caratteristiche del pensiero marxista e largamente diffuse nel secolo scorso (2). Rispetto alle teorie marxiste gli usi recenti sono meno ambiziosi sul piano politico e anche meno elaborati sul piano teorico, ma proprio per questo essi svolgono rilevanti funzioni simboliche e comunicative. Va segnalato, a questo proposito, che secondo un certo numero di autori "impero" non è lo strumento concettuale più appropriato per denotare l'attuale assetto delle relazioni internazionali e per favorirne una interpretazione e comprensione adeguata.

Michael Doyle, ad esempio, propone, se non altro, di tenere nettamente distinta la nozione di "impero formale" da quella di "impero informale", la sola eventualmente pertinente al mondo contemporaneo. Nell'impero formale, rappresentato essenzialmente dal "modello romano", il dominio viene esercitato attraverso l'annessione territoriale. E l'amministrazione dei territori annessi è affidata a governatori coloniali sostenuti da truppe metropolitane e da collaboratori locali. L'impero informale, secondo il "modello ateniese", esercita invece il suo potere attraverso la manipolazione e la corruzione delle classi politiche locali, e lo esercita su territori contigui e nei confronti di regimi legalmente indipendenti (3).

Altri autori - fra questi alcuni teorici neorealisti delle relazioni internazionali come Robert Gilpin, Kenneth Waltz e Robert Keohane - di fronte all'alternativa fra il concetto di "impero" e quello di "egemonia" optano decisamente per il secondo. Keohane, in particolare, ha elaborato con notevole successo la nozione di hegemonic stability, che assume il primato di una o più grandi potenze come fattore di stabilizzazione delle relazioni internazionali e concepisce questo primato in termini molto lontani dall'idea di una conflittualità espansionistica permanente, secondo il modulo imperiale classico (4). Altri ancora ritengono che il termine "impero" debba essere rigorosamente limitato alle formazioni politiche universalistiche che hanno preceduto la nascita, nell'Europa del Seicento, del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. La prevalenza entro i sistemi politici delle grandi potenze contemporanee del potere economico e dell'influenza culturale rispetto al potere politico-militare - si sostiene - è di per sé sufficiente a consigliare l'abbandono del modello imperiale o a raccomandare, quanto meno, una sua radicale riformulazione (5). Per contro, altri autori - fra questi, come vedremo, Alain de Benoist - si richiamano all'autorità di Carl Schmitt per legittimare l'uso del termine "impero" con riferimento alla dilatazione imperialistica della "dottrina Monroe", praticata dagli Stati Uniti a partire dal cosmopolitismo wilsoniano e che a loro parere ha continuato a influenzare profondamente le strategie espansionistiche della grande potenza americana (6).

E' dunque necessaria un'avvertenza metodologica per quanto riguarda il significato generale che il termine "impero" presenta oggi all'interno della cultura politica occidentale. In questo contesto il termine assume un valore semantico e una portata simbolica che tendono a cristallizzarsi in un vero e proprio paradigma. Al di là di varianti di dettaglio, questo paradigma imperiale allude ad una forma politica contraddistinta dalle tre seguenti caratteristiche morfologiche e funzionali:

1.1. La sovranità imperiale è una sovranità politica molto forte, accentrata e in espansione. Attraverso di essa l'impero esercita un potere di comando "assoluto" sulle popolazioni che risiedono nel territorio della madrepatria. A questo potere diretto si aggiunge un'ampia sfera di influenza politica, economica e culturale su altre formazioni politiche, più o meno contigue territorialmente, che conservano a pieno titolo la loro sovranità formale, per quanto si tratti, di fatto, di una sovranità limitata. Da questo punto di vista, come ha sostenuto Carl Schmitt, la "dottrina Monroe", applicata inizialmente dagli Stati Uniti nel subcontinente americano e poi dilatata al mondo intero, è stata una tipica espressione di espansionismo imperiale (7).

1.2. Al centralismo e all'assolutismo degli apparati di potere imperiale - l'autorità imperiale è per definizione legibus soluta sul piano internazionale ed esercita all'interno un potere non "rappresentativo" - si accompagna un ampio pluralismo di etnie, comunità, culture, idiomi e credenze religiose diverse, separate e distanti fra loro. Rispetto ad esse il potere centrale svolge un controllo più o meno intenso, ma che tuttavia non minaccia la loro identità e relativa autonomia culturale. In questo senso specifico assume un valore paradigmatico il modello dell'Impero ottomano, con l'istituto del millet e una diffusa pratica di tolleranza confessionale (8). La combinazione di assolutismo antiegualitario e di pluralismo etnico-culturale connota l'impero opponendolo al carattere rappresentativo e nazionale dello Stato di diritto europeo.

1.3. L'ideologia imperiale è pacifista e universalista. L'Impero viene concepito come un'entità perenne: è un potere supremo, garante di pace, di sicurezza e di stabilità per tutti i popoli della terra. La pax imperialis è per definizione una pace stabile e universale: l'uso della forza militare ha come scopo esclusivo la sua promozione. L'Imperatore è il solo, unico imperatore che per mandato divino (o per un destino provvidenziale) comanda, di fatto o potenzialmente, sul mondo intero: un solo basileus, un solo logos, un solo nomos. In quanto imperator, l'imperatore è il supremo capo militare; in quanto pontifex maximus è il sommo sacerdote; in quanto princeps esercita una giustizia sovrana. Il regime imperiale si autoconcepisce e si impone come un regime mono-cratico, mono-teistico e mono-normativo.

E' chiaro che la fonte remota ma determinante di questo paradigma è l'Impero romano, da Augusto a Costantino, con le sue strutture, la sua prassi, la sua ideologia (9), sia pure in una versione tendenzialmente "informale", nell'accezione proposta da Doyle. Ovviamente, se si volesse cogliere nella sua complessità la genesi di questo archetipo romanistico, si dovrebbero studiare le esperienze imperiali che si sono sviluppate in Europa dopo la caduta dell'Impero romano e che al suo modello si sono più o meno direttamente ispirate. Si pensi, ad esempio, a formazioni politiche come l'Impero germanico-feudale, l'Impero bizantino, l'Impero ottomano, l'Impero spagnolo (10). Nessuna diretta influenza sembra invece essere stata esercitata dall'esperienza degli imperi antichi: mediorientali, mesopotamici, cinesi. Scarso rilievo nella formazione di questo paradigma sembra che si debba attribuire sia all'esperienza dell'Impero napoleonico (11), sia alle vicende degli imperi coloniali, dai più risalenti, come quello britannico, ai più recenti (12).

Sono quattro gli usi della nozione di "impero" - corrispondente all'archetipo romanistico, attenuato in senso "informale" - che a mio parere sono presenti nella letteratura politologica e internazionalistica contemporanea, inclusa la nozione marxista di "imperialismo" che conserva un rilievo non del tutto marginale nella scia di alcune dottrine neo-marxiste delle relazioni internazionali che si sono affermate negli anni sessanta e settanta del secolo scorso.


2. Imperialismo e impero nell'uso neo-marxista

La nozione di "impero" implicata dalle teorie marxiste dell'imperialismo, basate sulla concezione classista della storia e sulla critica "materialista" dell'economia capitalistica, è ancora oggi presente in una parte della letteratura politologica occidentale (13). "Impero" in questo senso è nozione in larga misura destoricizzata e inserita nel contesto di una filosofia della storia che fa dell'imperialismo l'esito necessario dello sviluppo dell'economia capitalistica.

Questa dottrina dell'imperialismo oggi gode di un credito molto più limitato rispetto ad un passato anche recente. Ciò che di questa teoria dell'impero oggi è sottoposto a critica è soprattutto la tesi dell'esistenza di un "fattore causale", di natura economica, che determinerebbe il passaggio dal capitalismo all'imperialismo come necessaria condizione di sviluppo (o di sopravvivenza) dell'economia di mercato. L'imperialismo, in questo senso, è una dinamica di espansione dell'economia di mercato oltre il suo ambito naturale - l'area dei paesi industriali occidentali -, che arriva a coinvolgere nei suoi meccanismi di sfruttamento la forza-lavoro dei paesi industrialmente arretrati. Da questo punto di vista imperialismo e colonialismo sono fenomeni strettamente connessi. Per Lenin, come è noto, il "fattore causale" era la caduta tendenziale del saggio di profitto e la crescente concorrenza fra i capitalisti, mentre per Rosa Luxemburg questa funzione era svolta dal sottoconsumo dovuto all'impoverimento del proletariato europeo (14).

Assai più presenti al dibattito politologico contemporaneo sono le dottrine neo-marxiste dello sviluppo capitalistico e dei suoi approdi imperialistici, come la teoria del capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy, la "teoria della dipendenza", elaborata, fra gli altri, da André Gunder Frank, o la teoria del "sistema mondiale" di Immanuel Wallerstein (15). Rispetto all'ortodossia marxista-leninista, in queste versioni neomarxiste la nozione di "impero" tende ad assumere caratteristiche assai più vicine all'"archetipo romanistico" cui ho sopra accennato. Baran e Sweezy, ad esempio, hanno collegato l'evoluzione imperialistica del "capitalismo monopolistico" - concentrato e centralizzato - alla necessità, assai più politica che economica, che i paesi industriali avanzati hanno di destinare il surplus a investimenti di natura militare. La gerarchia delle nazioni che compongono il sistema capitalistico - hanno sostenuto Baran e Sweezy - presenta un assetto piramidale: i paesi collocati al vertice sfruttano quelli situati a un livello più basso, sino a giungere all'ultimo paese che non ha più nessuno da sfruttare. Il vertice della gerarchia è la "metropoli imperiale" mentre i gradini più bassi formano la "periferia coloniale". La vocazione militarista degli Stati Uniti d'America - che occupano l'intero spazio metropolitano - dipende dall'esigenza che la loro forza armata venga usata sistematicamente per mantenere e, se possibile, irrobustire, la loro posizione di leadership nella gerarchia dello sfruttamento (16).

Naturalmente anche le versioni neo-marxiste dell'imperialismo sono state sottoposte a critica. Per autori liberal come Robert Gilpin o come Joseph Stiglitz, ad esempio, il crescente divario fra paesi ricchi e paesi poveri non dipende da forme di oppressione "imperialistica", formale o informale che sia. La globalizzazione economica e l'apertura mondiale dei mercati non può essere interpretata secondo lo schema della "gerarchia" imperiale dello sfruttamento capitalistico. La polarizzazione crescente nella distribuzione delle risorse globali dipende dal diverso grado di produttività dei sistemi economici nazionali, e quindi dai livelli di cultura, qualificazione tecnica, competenza amministrativa e capacità di iniziativa che caratterizzano i diversi paesi. E' su questi parametri che, secondo Gilpin e Stiglitz, occorrerebbe intervenire, oltre che sulla regolazione degli scambi commerciali internazionali e dei movimenti dei capitali. E a questo fine sarebbe necessaria una profonda trasformazione delle politiche adottate negli ultimi decenni dalle istituzioni economiche internazionali, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale, sottoposte al Washington consensus (17).


3. Un'Europa imperiale?

Oggi è la cosiddetta "Nuova destra" francese, rappresentata in particolare da Alain de Benoist, a riproporre un'idea imperiale che si richiama direttamente alla elaborazione schmittiana. C'è in de Benoist e nel movimento Grece (Groupement de recherches et d'études pour la civilisation européenne) che al pensiero di de Benoist si ispira, un netto rifiuto del nazionalismo e del liberalismo in nome sia di un europeismo culturale, sia di un "pluralismo localista". Questa è la radice dell'idea di un''Europa imperiale" che ammetta un'ampia pluralità politica interna, non nazionalistica ma etnica e regionalistica. De Benoist respinge l'idea gollista dell''Europa delle patrie"; liberalismo e nazionalismo statalistico sono da lui denunciati come dispositivi economici e ideologici che producono sradicamento e uniformità culturale. Alla americanizzazione della Francia e dell'Europa de Benoist oppone una cultura "pagana" che egli fa risalire alle origini indo-europee della tradizione europea. E alla proposta di un europeismo imperiale fa corrispondere una dura polemica contro l'imperialismo degli Stati Uniti, accusati di essere espressione suprema della disumanizzazione, della volgarità e della stupidità. L'Europa imperiale, egli proclama, o si farà contro gli Stati Uniti o non si farà (18).

Per de Benoist non ci sono che due modelli per costruire l'Europa: l'impero e la nazione. La nazione è ormai troppo grande per regolare i problemi locali e troppo piccola per occuparsi delle questioni globali, in particolare di quelle economiche. "L'Impero, nel senso più tradizionale del termine - sostiene de Benoist - è il solo modello che possa conciliare l'uno e il molteplice: è la politia che organizza l'unità organica delle sue diverse componenti, rispettando la loro autonomia" (19). L'inconveniente, aggiunge de Benoist, è che da Maastricht in poi non emerge il disegno di un'Europa autonoma, politicamente sovrana, decisa a dotarsi dell'equivalente di ciò che la "dottrina Monroe" è stata per gli Stati Uniti (è particolarmente chiara qui l'influenza del pensiero di Schmitt). Siamo invece in presenza di un'Europa senza progetto, legittimità e identità politica.

La proposta di de Benoist non è priva di aspetti interessanti, anche se, è appena il caso di dire, il modello euro-imperiale non sembra che possa essere accolto nè da forze politiche europee di ispirazione liberale, né da una sinistra europea modellata sulla tradizione liberal-democratica. Il paradigma imperiale, come abbiamo visto, comporta una concezione assolutistica e antiegualitaria del potere, anche se tollerante e compatibile con il pluralismo etnico-culturale. E non sembra agevolmente proponibile neppure l'idea di un'Europa "pagana" - non semplicemente laica -, se è vero che la cultura europea è frutto della filosofia greca, del diritto romano e dell'illuminismo, ma lo è anche dei tre monoteismi che sono fioriti sulle sponde del Mediterraneo: quello israelitico, quello cristiano e, last but not least, quello islamico.

Si può inoltre osservare che non è chiaro se, nel riferirsi, sulle orme di Schmitt, al modello della "dottrina Monroe", de Benoist pensi ad una "Europa imperiale" sotto l'influenza di uno o più Stati egemoni - eventualmente la Francia e la Germania - e se la sua idea di impero sia compatibile con una strutturazione egualitaria dei rapporti fra le diverse cittadinanze europee e quindi con l'eguale tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei, tematiche entrambe relativamente estranee alle elaborazioni della "nuova destra" francese (20).


4. Hardt e Negri: un'apologia dell'Impero globale

Nel loro fortunatissimo volume, Empire, Michael Hardt e Antonio Negri sostengono che il nuovo "ordine mondiale" imposto dalla globalizzazione ha portato alla scomparsa del sistema vestfaliano degli Stati sovrani (21). Non ci sono più Stati nazionali, se non per le loro esangui strutture formali che ancora sopravvivono entro l'ordinamento giuridico e le istituzioni internazionali. Il mondo non è più governato da sistemi politici statali: è governato da un'unica struttura di potere che non presenta alcuna analogia significativa con lo Stato moderno di origine europea. E' un sistema politico decentrato e deterritorializzato, che non fa riferimento a tradizioni e valori etnico-nazionali, e la cui sostanza politica e normativa è l'universalismo cosmopolitico. Per queste ragioni i due autori ritengono che "Impero" sia la denotazione più appropriata per il nuovo tipo di potere globale.

Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che l'Impero - o il suo nucleo centrale ed espansivo - sia costituito dagli Stati Uniti d'America e dai loro più stretti alleati occidentali. Né gli Stati Uniti, né alcun altro Stato nazionale, Hardt e Negri dichiarano con forza, "costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista" (22). L'Impero globale è tutt'altra cosa rispetto all'imperialismo classico e sarebbe un grave errore teorico confonderlo con esso.

Questo è un punto molto delicato sia sul piano teorico, sia su quello politico, e che ha sollevato un'ampia discussione. Si è sostenuto che nelle pagine di Hardt e Negri l'Impero sembra sfumare in una sorta di "categoria dello spirito"; è presente in ogni luogo poiché coincide con la nuova dimensione della globalità. Ma, si è obiettato, se tutto è imperiale, niente è imperiale. Come individuare i soggetti sovranazionali portatori degli interessi o delle aspirazioni imperiali? Contro chi rivolgere la critica e la resistenza anti-imperialistica? Chi, se si escludono gli apparati politico-militari della grandi potenze occidentali - in primis degli Stati Uniti - esercita le funzioni imperiali (23)?

C'è un secondo aspetto della teoria dell'Impero di Hardt e Negri che ha sollevato obiezioni. E' un aspetto che sembra tributario dell'implicita "ontologia" che fa da contrappunto delle analisi di Hardt e Negri: la dialettica della storia, in una accezione caratteristica dell'hegelo-marxismo e del leninismo. Secondo i due autori l'Impero globale rappresenta un superamento positivo del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. Avendo posto fine agli Stati e al loro nazionalismo, l'Impero ha messo fine anche al colonialismo e all'imperialismo classico ed ha aperto una prospettiva cosmopolitica che deve essere accolta con favore.

Secondo Hardt e Negri, ogni tentativo di far risorgere lo Stato-nazione in opposizione alla presente costituzione imperiale del mondo esprimerebbe una ideologia "falsa e dannosa". La filosofia no-global ed ogni forma di ambientalismo naturalistico e di localismo vanno dunque rifiutate come posizioni primitive e antidialettiche e cioè, in sostanza, "reazionarie". I comunisti - tali si dichiarano Hardt e Negri - sono per vocazione universalisti, cosmopoliti, "cattolici"; il loro orizzonte è quello dell'umanità intera, della "natura umana generica", come scriveva Marx. Nel secolo scorso le masse lavoratrici hanno puntato sull'internazionalizzazione delle relazioni politiche e sociali. Oggi i poteri "globali" dell'Impero devono essere controllati, ma non demoliti: la costituzione imperiale va conservata e finalizzata ad obiettivi non capitalistici. Per Hardt e Negri, anche se è vero che le tecnologie poliziesche sono il "nocciolo duro" dell'ordine imperiale, quest'ordine non ha nulla a che vedere con le pratiche delle dittature e del totalitarismo del secolo scorso.

Dal punto di vista della transizione ad una società comunista la costruzione dell'Impero è "un passo avanti": l'Impero "è meglio di ciò che lo ha preceduto" perché "spazza via i crudeli regimi del potere moderno" e "offre enormi possibilità creative e di liberazione" (24). Affiora qui una sorta di ottimismo imperiale le cui radici affondano, a mio parere, nella metafisica dialettica dell'hegelomarxismo. Un ottimismo imperiale che, come vedremo, si oppone al realismo e all'antiuniversalismo schmittiano, pur propenso a prendere atto della fine dell'ordinamento "statale" dello jus publicum europaeum e a proporre uno schema di ordine mondiale fondato sulla nozione post-statale di Grossraum.


5. Impero globale e guerra

Michael Ignatieff - autorevole esponente liberal anglo-americano - ha di recente sostenuto che gli Stati Uniti sono un impero. Si tratta di un impero di tipo nuovo, egli sostiene, che si ispira ai principi del libero mercato, dei diritti umani e della democrazia: una vera e propria "scoperta negli annali della scienza politica". Ma per quanto significative siano le novità e le specificità della loro egemonia globale, gli Stati Uniti, come tutti gli imperi del passato, hanno il loro pesante fardello di impegni e di responsabilità. Fra questi rientra la garanzia "della pace, della stabilità, della democratizzazione e dell'approvvigionamento di petrolio" nel Medio Oriente e nell'Asia centrale, dall'Egitto all'Afghanistan (25).

Gli Stati Uniti si trovano a svolgere il ruolo che in passato era stato garantito prima dall'Impero ottomano e poi dagli imperi coloniali della Francia e della Gran Bretagna. E' questa la ragione per cui, dopo aver sconfitto il regime dei Talebani e occupato l'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno dovuto intervenire militarmente in Iraq, per scongiurare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, prevenire l'azione dei network terroristici e rovesciare un regime tirannico e sanguinario. L'11 settembre ha dimostrato che gli Stati Uniti non sarebbero in grado di garantire al loro interno la pace sociale e l'affermazione dei valori democratici se non adottassero una politica estera imperiale.

Anche autori italiani, pur senza una specifica finalità teorico-politica, hanno sostenuto tesi analoghe a quelle di Ignatieff, dando loro tuttavia una valenza politica opposta, fortemente critica nei confronti dell'egemonia imperiale degli Stati Uniti (26). Personalmente, sia pure con qualche cautela terminologica e teorico-politica, ritengo che sia corretto usare l'espressione "impero" (e "impero globale') a proposito della crescente egemonia economica, politica e soprattutto militare della superpotenza statunitense.

Nel proporre questa tesi ho presente, senza tuttavia assumerlo direttamente come premessa teorica, il realismo e l'antinormativismo della filosofia del diritto internazionale di Carl Schmitt, così come essa è stata esposta in testi quali Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, del 1933, e Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, del 1939, e come è stata poi riformulata, nel 1950, in Der Nomos der Erde (27). Della teoria dell'impero di Schmitt penso che sia da accogliere, come un importante contributo storico-teorico, la critica della proiezione universalistica della "dottrina Monroe" da parte degli Stati Uniti. Secondo Schmitt, dall'idea originaria di un Grossraum panamericano, particolaristico e difensivo, le strategie statunitensi sono via via passate a forme di intervento espansionistico ben oltre l'area caraibica e sud-americana. Questa proiezione universalistica e globalistica - imperiale - della dottrina Monroe ha trovato la sua massima espressione nell'idealismo wilsoniano e ha fortemente influenzato in senso universalistico e globalistico la struttura della Società delle Nazioni. Lo sviluppo planetario, ha scritto Schmitt in Der Nomos der Erde,

ha condotto a un netto dilemma fra universo e pluriverso, tra monopolio e polipolio, e cioè al problema se il pianeta sia maturo per il monopolio globale di un'unica potenza o sia invece un pluralismo di grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di civiltà a determinare il nuovo diritto internazionale della terra (28).

In secondo luogo non si può negare che Schmitt sia stato un analista penetrante nel denunciare, assieme alla dimensione globale e polimorfa dell'impero statunitense, la sua tendenza ad attribuire alla guerra dimensioni altrettanto globali e finalità di annientamento del nemico che erano state proprie delle guerre di religione. Senza dubbio gli Stati Uniti sono riusciti a imporre al mondo, assieme alla loro egemonia economica e politica, anche il monopolio della loro visione del mondo, del loro stesso linguaggio e vocabolario concettuale: Caesar dominus et supra grammaticam (29). Ma, la superpotenza americana si è imposta come un impero globale soprattutto grazie alla sua assoluta supremazia militare che le ha consentito di ergersi a garante dell'ordine mondiale, a "gendarme del mondo". Se la forza militare di uno Stato, sostiene Schmitt, è soverchiante, la nozione stessa di guerra si trasforma: il conflitto ha come finalità lo sterminio del nemico e l'ostilità diviene così aspra da non poter essere sottoposta ad alcuna limitazione o regolazione (30). Solo chi si trova in condizioni di irrimediabile inferiorità si appella, senza successo, al diritto internazionale contro lo strapotere dell'avversario. Chi invece gode di una completa supremazia militare fa della sua invincibilità il fondamento della sua justa causa belli e tratta il nemico, sul piano morale come su quello giudiziario, come un bandito e un criminale:

La discriminazione del nemico come criminale e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca l'abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distuttiva. [...] Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elelmenti nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così indotti a spingere la discriminazione dell'avversario in dimensioni abissali (31).

In terzo luogo ritengo che la filosofia del diritto internazionale di Schmitt meriti attenzione quando sostiene che una riduzione della conflittualità internazionale e della distruttività della guerra moderna potrà difficilmente essere ottenuta attraverso istituzioni universalistiche e "despazializzate", come la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite, impegnate in una radicale criminalizzazione giuridica della guerra. Secondo Schmitt un progetto di pacificazione del mondo richiede piuttosto un recupero neo-regionalistico dell'idea di Grossraum e un rilancio della negoziazione multilaterale fra gli Stati come fonte normativa e legittimazione dei processi di integrazione regionale, da opporre all'imperialismo statunitense.

Entro la cornice di questa filosofia del diritto e delle relazioni internazionali, l'antinormativismo e l'antiuniversalismo schmittiano converge con le posizioni anticosmopolitiche di teorici "neo-groziani" delle relazioni internazionali come Martin Wight e Hedley Bull (32). Bull, in particolare, ha insistito sulla necessità di recuperare categorie normative meno ispirate ad una concezione illuministica e giacobina dell'ordinamento internazionale. Contro la filosofia kelseniana del "primato del diritto internazionale" (33) Bull ha riproposto con forza idee come l'equilibrio fra le grandi potenze, la diplomazia preventiva, la negoziazione multilaterale fra gli Stati, lo jus gentium, inteso quale complesso di consuetudini internazionali affermatesi lentamente nel tempo, capaci, se non certo di sopprimere la guerra, almeno di renderla meno discriminante e distruttiva (34).

Quanto alla giustizia penale internazionale, inaugurata dai Tribunale di Norimberga e di Tokyo, Bull è stato fra i primi a denunciarne i limiti giuridici e le velleità pacifiste. In The Anarchical Society Bull ha sottolineato il carattere selettivo ed "esemplare" della giustizia dei vincitori. Queste caratteristiche violavano a suo parere il principio dell'uguaglianza formale delle persone di fronte alla legge e attribuivano alla giurisdizione dei due Tribunali internazionali un'arcaica e sinistra funzione sacrificale. La repressione penale era stata infatti applicata, ricorrendo largamente alla pena di morte, soltanto nei confronti di soggetti ritenuti, sulla base di valutazioni altamente discrezionali, come i più responsabili sul piano politico o come i più coinvolti in attività delittuose (35).


6. Conclusione

Sulla base delle argomentazioni sin qui svolte si può sostenere che il potere degli Stati Uniti è un potere "imperiale", in un significato complesso e in parte nuovo rispetto all'"archetipo romanistico": un significato che deve ovviamente tener conto delle novità che i processi di globalizzazione e le conseguenti trasformazioni in senso globale della guerra hanno introdotto nelle relazioni politiche internazionali.

Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anzitutto in un senso strategico, trattandosi di una potenza che, grazie alla sua assoluta superiorità militare, può operare in una prospettiva universalistica, avvolgendo il pianeta con la fitta trama delle sue basi militari e la rete informatica dello spionaggio satellitare. Nei documenti più autorevoli del Pentagono e della Casa Bianca gli Stati Uniti si dichiarano, in quanto global power, il solo paese in grado di "proiettare potenza" su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere e rafforzare l'America's global leadership role, e cioè la loro supremazia nel modellare i processi globali di allocazione della ricchezza e del potere, nel far prevalere la propria visione del mondo e nel dettare le regole per realizzarla (36).

Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anche in un senso normativo, perché tende a ignorare sistematicamente i principi e le regole del diritto internazionale. La superpotenza americana si sottrae sia al divieto della guerra di aggressione stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite - il caso dell'aggressione all'Iraq è un esempio conclamato -, sia alle norme del diritto di guerra, sviluppate dall'ordinamento internazionale moderno, in particolare dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, a tutela delle popolazioni civili e dei prigionieri di guerra. Mazar-i-Sharif, Guantánamo, Abu Ghraib, Bagram, Fallujah sono i nomi tristemente famosi che ricordano i crimini di cui le massime autorità politiche e militari degli Stati Uniti si sono macchiate in questi anni. Gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi e la maggiore fonte di inquinamento atmosferico del mondo e nello stesso tempo si rifutano di ratificare Convenzioni e Trattati intesi a ridurre le stragi di vite umane e la devastazione industriale dell'ambiente, come la "Convenzione sulle armi disumane", che vieta la produzione e l'uso delle mine antiuomo, e gli accordi di Kyoto sul controllo del clima. E non solo si sono rifiutati di ratificare il Trattato di Roma che nel 1998 ha approvato lo Statuto della Corte penale internazionale, ma sono attivi nel contrastarne le attività.

Questi comportamenti mostrano come il potere esercitato dagli Stati Uniti è legibus solutus, al di fuori e al di sopra del diritto internazionale. Un Imperatore decide di volta in volta sui singoli casi, ma non fissa principi normativi di carattere assoluto, né si impegna al rispetto di regole generali. Il potere imperiale è incompatibile sia con il carattere generale della legge, sia con l'eguaglianza giuridica dei soggetti dell'ordinamento internazionale. In questo senso gli Stati Uniti sono fonte sovrana di un nuovo diritto internazionale - di un nuovo "Nomos della terra" - in una situazione che la minaccia del global terrorism consente loro di presentare come uno "stato di eccezione" globale e permanente. L'autorità imperiale degli Stati Uniti amministra la giustizia globale, definisce i torti e le ragioni dei sudditi, pone le condizioni dell'inclusione degli Stati nel novero dei vassalli fedeli o, invece, dei rogue states, svolge funzioni di polizia internazionale contro il terrorismo, appiana le differenze e gestisce le controversie locali (persino la contesa mediterranea fra Spagna e Marocco per l'"isoletta del prezzemolo"!). In poche parole: gli Stati Uniti operano per la pace e la giustizia internazionale. Il loro potere imperiale è addirittura invocato dai sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale, e cioè imparziale e lungimirante.

Ed è altrettanto significativo che oggi venga riproposta nella cultura angloamericana la dottrina del bellum justum. Si tratta di una dottrina medievale, tipicamente imperiale, che suppone l'esistenza di un potere e di un'autorità al di sopra di ogni altra autorità. Esemplare in questo senso è il documento dei sessanta intellettuali statunitensi che ha tempestivamente sponsorizzato come just war la guerra degli Stati Uniti contro l'"asse del male". Riemerge così l'antica credenza ebraico-cristiana per la quale lo spargimento del sangue dei nemici può essere moralmente raccomandato, se non addirittura esaltato perché voluto da Dio. L'attività di polizia internazionale che la potenza imperiale svolge usando mezzi di distruzione di massa richiede un potenziamento della persuasione comunicativa fondata su argomenti teologici ed etici, non semplicemente politici. La guerra viene giustificata di un punto di vista superiore e imparziale, in nome di valori che si ritengono condivisi dall'umanità intera. La guerra è presentata come lo strumento principe della tutela dei diritti dell'uomo, dell'espansione della libertà, della democratizzazione del mondo, della sicurezza e del benessere di tutti i popoli. La guerra globale ha come scopo ultimo la promozione di una pace globale. La pax imperialis è per definizione una pace perpetua e universale.


Note
*. Rielaborazione del saggio "L'uso contemporaneo della nozione di 'impero'", apparso sulla rivista Filosofia politica, 3, 2004.
1. Su questi temi mi permetto di rinviare al mio Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, Laterza, 2004.
2. Si veda R. Owen, B. Sutcliff, Studi sulla teoria dell'imperialismo. Dall'analisi marxista alle questioni dell'imperialismo contemporaneo, Torino, Einaudi, 1977.
3. Cfr. A.W. Doyle, Empires, Cornell University Press, Ithaca (NY), 1986.
4. Cfr. R.O. Keohane, After Hegemony. Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton, Princeton University Press, 1984, pp. 31 ss., 49-64, 83-4; R.O. Keohane, Neorealism and Its Critics, New York, Columbia University Press, 1986; K.N. Waltz, Theory of International Politics, New York, Newbery Award Records, 1979, trad. it. Bologna, il Mulino, 1987; R. Gilpin, War and Change in World Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, trad. it. Bologna, il Mulino, 1989. Sull'alternativa fra le nozioni di "egemonia" e di "impero" cfr. V.E. Parsi, L'impero come fato? Gli Stati Uniti e l'ordine globale, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 87, 92-3.
5. Cfr. D. Lieven, Empire. The Russian Empire and Its Rivals, London, John Murray, 2000, p. 9.
6. Si veda: C. Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, "Auslandsstudien", 8 (1933), ora in C. Schmitt, Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar, Genf, Versailles 1923-1939, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1940; C. Schmitt, Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte. Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht, "Schriften des Instituts für Politik und Internationales Recht an der Universität Kiel", n. 7, 1939, ora in C. Schmitt, Staat, Grossraum, Nomos, a cura di G. Maschke, Berlin, Duncker & Humblot, 1995, trad. it. Roma, Settimo Sigillo, 1996; C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker und Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991. Sulla teoria schmittiana dell'imperialismo e sulla connessa idea di Grossraumordnung, cfr. P.P. Portinaro, La crisi dello Jus Publicum Europaeum, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, pp. 188-202.
7. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950), Berlin, Duncker und Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991.
8. Il termine millet denotava una comunità religiosa che svolgeva il ruolo di unità amministrativa decentrata dell'Impero; cfr. G. Prévélakis, Les Balkans. Cultures et géopolitique, Paris, Nathan, 1994, trad. it. Bologna, il Mulino, 1997, pp. 81-5. Sul tema mi permetto di rinviare al primo capitolo (Imperial mapping and Balkan nationalism) del mio Invoking Humanity. War, Law and Global Order, London-New York, Continuum International, 2002, pp. 7-36.
9. Si veda: G. Poma, L'impero romano: ideologia e prassi, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 5-35; C.M. Wells, The Roman Empire, London, Fontana Press, 1992, trad. it. Bologna, il Mulino, 1995; P. Veyne, The Roman Empire, Cambridge (Mass.), Belknap Press, 1997.
10. Si veda: E. Bussi, Il diritto pubblico del Sacro romano impero alla fine dell'VIII secolo, voll. 2, Milano, Giuffrè, 1957-59; G. Ostrogorski, Geschichte des byzantinischen Staates, München, Beck, 1940, trad. it. Storia dell'impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993; D. Kitsikis, L'Empire ottoman, Paris, Presses Universitaires de France, 1985; A. Musi, L'impero spagnolo, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 37-61; F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'lépoque de Philippe II, Paris, Colin, 1982, trad. it. Torino, Einaudi, 2002 (voll. 2).
11. Si veda E. Di Rienzo, L'impero-nazione di Napoleone Bonaparte, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 63-82.
12. Si veda W.J. Mommsen, Das Zeitalter des Imperialismus, Frankfurt a.M., Fisher Bücherei, 1969, trad. it. L'età dell'imperialismo, Milano, Feltrinelli, 1989; R.F. Betts, The False Dawn: European Imperialism in the Nineteenth Century, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1975, trad. it. Bologna, il Mulino, 1986.
13. Si vedano, fra i molti altri: P. Bourdieu, Contre-feux 2, Paris, Liber, 2001; L. Boltanski, E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalism, Paris, Gallimard, 1999; A. Callinicos, et al., Marxism and the New Imperialism, London, Bookmark, 1994; U. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La strategia dell'Impero, S. Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1992.
14. Si veda N. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo (1917), Roma, Editori Riuniti, 1964; R. Luxemburg,L'accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1968.
15. Si veda P.A. Baran, P.M. Sweezy, Monopoly Capital: An Essay on the American Economic and Social Order, New York, Monthly Review Press, 1966, trad. it. Torino, Einaudi, 1969; A.G. Frank, Capitalism and Under-development in Latin America, New York, Monthly Review Press, 1969; I. Wallerstein, The Modern World System, New York, Academic Press, 1974; I. Wallerstein, The Capitalist World Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1979.
16. Cfr. P.A. Baran, P.M. Sweezy, Monopoly Capital, trad. it. cit., pp. 150-5, 180-3.
17. Cfr. R. Gilpin, The Political Economy of International Relations, Princeton, Princeton University Press, 1987, trad. it. Bologna, il Mulino, 1990, pp. 34-43, 65-72, 270-3; J.E. Stiglitz, Globalisation and Its Discontents, New York, W.W. Norton & Company, 2002, trad. it. Torino, Einaudi, 2002, pp. 219-56.
18. Si veda A. De Benoist, L'Impero interiore. Mito, autorità, potere nell'Europa moderna e contemporanea, Firenze, Ponte alle Grazie,1996; P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite. Jalons d'une analyse critique, Paris, Descartes & Cie, 1994, trad. it. Firenze, Vallecchi, 2004, passim.
19. Cfr. P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite, trad. it. cit., p. 150.
20. Su questo punto mi permetto di rinviare alla mia introduzione all'edizione italiana, citata, di P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droit (pp. 13-4).
21. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, Cambridge (Mass.), Harvard College, 2000, trad. it. Milano, Rizzoli, 2002, passim.
22. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, trad. it. cit., p. 15.
23. Su questa discussione si può vedere A. Negri, D. Zolo, L'Impero e la moltitudine. Un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione, "Reset", 73 (2002), pp. 8-19, ora anche in A. Negri, Guide. Cinque lezioni su Impero e dintorni, Milano, Raffaello Cortina, 2003, pp. 11-33. Una versione integrale in lingua inglese, più ampia rispetto a quella originariamente pubblicata da "Reset", è apparsa, a cura di A. Bove e M. Mandarini, in "Radical Philosophy", 120 (2003), pp. 23-37.
24. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, trad. it. cit., pp. 56, 208.
25. Cfr. M. Ignatieff, The Burden, "New York Times Magazine", 5 gennaio 2003.
26. Si veda ad esempio: M. Cacciari, Digressioni su Impero e tre Rome, "Micromega", (2001), 5; G. Chiesa, La guerra infinita, Milano, Feltrinelli, 2002.
27. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., pp. 231-3, 311-12.
28. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. Cit., p. 311.
29. Sulla tendenza del dominio imperiale statunitense a imporre il proprio vocabolario, la propria terminologia e i propri concetti ai popoli egemonizzati, cfr. C. Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, cit., pp. 179-80.
30. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., pp. 429-30.
31. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., p. 430.
32. Si veda: M. Wigth, Why is there no International Theory?, in H. Butterfield, M. Wight (a cura di), Diplomatic Investigations, London, George Allen and Unwin Lmt, 1969; H. Bull, The Anarchical Society, London, Macmillan, 1977.
33. Sul tema mi permetto di rinviare al mio Hans Kelsen: International Peace through International Law, "European Journal of International Law", 9 (1998), 2.
34. Si veda H. Bull, The Anarchical Society, cit., passim; H. Bull, Hans Kelsen and International Law, in J.J.L. Tur, W. Twining (a cura di), Essays on Kelsen, Oxford, Oxford University Press, 1986; sul tema si veda inoltre A. Colombo, La società anarchica fra continuità e crisi, "Rassegna italiana di sociologia", 2 (2003), pp. 237-55.
35. Cfr. H. Bull, The Anarchical Society, cit., p. 89.
36. Si vedano: Department of Defense, Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre 2001; The White House, National Security Strategy of the United States of America, 17 settembre 2002.
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