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Parole parole parole

di Piero Pagliani

[seguito da un commento di Franco Romanò]

“Vi è in Italia un quarto Partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l'aumento dei prezzi o le campagne scandalistiche. L'esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l'Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell'altra, i rappresentanti di questo quarto Partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica.
(Alcide De Gasperi, consiglio dei ministri aprile 1947; cit. in E. Sereni, Il Mezzogiorno all'opposizione, Torino 1948)

1. Per giustificare le guerre dopo l’11/9 Condoleezza Rice affermò che si era come all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Dal punto di vista statunitense non aveva tutti i torti dato che, come Harry Truman, Bush Jr si era assunto il compito di condurre un mondo in preda a forze centrifughe in una struttura gerarchica di stati a guida USA.

Con il dovuto assestamento tattico da parte di Obama, gli Stati Uniti stanno continuando coerentemente in quella direzione. Sarà proprio questa strategia che condurrà alla Terza Guerra Mondiale? E’ un evento da scongiurare con ogni mezzo, non ineluttabile ma non impossibile.

Nel frattempo anche gli economisti e i movimenti di sinistra fanno analisi e lanciano proposte come se si fosse nel secondo dopoguerra.

Da un lato, ciò non è una stravaganza, dato che la finanziarizzazione degli ultimi quarant’anni connessa all’impossibilità di far ripartire, in Occidente, uno sviluppo materiale adeguato alle società dei centri capitalistici storici, ha lasciato uno strascico di distruzioni materiali, sociali, culturali, politiche e antropologiche che ancora deve arrivare al culmine.

Dall’altro lato, invece, le condizioni sistemiche sono totalmente cambiate. Il mondo non è uscito da un prolungato periodo di distruzioni materiali, atto finale di una lunghissima crisi sistemica, e una ripresa materiale di grandi dimensioni in Occidente è ipotecata dall’emergere di enormi competitori internazionali che chiudono gli immensi spazi esterni che furono da noi sfruttati decenni fa e si pongono come concorrenti rispetto a quelli rimasti, come l’Africa. La crisi ecologica chiude ulteriormente gli spazi esterni ad una grande ripresa materiale capitalistica, situandosi ad un livello meta-statale che tuttavia interviene nelle vicende sociali degli uomini attraverso, ovviamente, le loro organizzazioni sociali (in primo luogo gli stati, cioè la suddivisione giurisdizionale delle risorse di Gea). Gran parte della risposta sistemica al perché delle continue guerre sta qui.


2.
Quest’ultimo è un lato del problema raramente toccato dagli estensori delle proposte, dei progetti, degli incanti che vengono ormai ripetutamente offerti a vari e disordinati soggetti in cerca di autori e di speranze: anziani delusi dalla fu sinistra, giovani giustamente preoccupati per il proprio futuro, lavoratori di ogni tipo esasperati per il proprio presente.

Proposte, progetti e incanti che nascono quindi monocoli. E questo difetto si nota.

La mancanza di visione stereoscopica si riversa nella difficoltà di connettere sistemicamente in un solo quadro tutti i problemi. Qui la democrazia, là il lavoro; di qua l’ecologia, di là il welfare. Da una parte la finanziarizzazione, dall’altra parte la crescita oppure lo “sviluppo sostenibile”. Non ho detto “mettere in un solo quadro” (questo si fa agevolmente), bensì “connettere sistemicamente in un solo quadro”. Se non si connette ciò che deve essere connesso i rischi non sono da poco.

Un solo esempio: si propone spesso l’utilizzo di tecnologie “verdi” dimenticandosi che esse oggi possono essere sviluppate attraverso tecnologie non verdi e utilizzando le ricadute civili di ricerche di carattere militare. E’ un problema non tecnico ma politico. Cosa intendo infatti dire con questo esempio? Intendo dire che anche le proposte più condivisibili passano attraverso le forche caudine di un elemento scomodo: il potere. Anche se non fosse in “nostro” potere (perché vogliamo magari la democrazia diretta eccetera), si tratta del “loro” potere.


3.
Il secondo dopoguerra fu caratterizzato in Italia da ampi dibattiti riguardo la struttura da imporre alla nostra economia. Furono fatte proposte a volte molto progressive, a volte solo ragionevoli, riguardanti ad esempio la necessità di una patrimoniale o l’intervento pubblico nel Mezzogiorno, riguardo il mercato e il suo controllo politico, riguardo l’inflazione, la stabilità monetaria, i conti con l’estero, l’indebitamento pubblico. E infine riguardo l’occupazione.

Per vari versi non era una discussione molto distante da quella odierna. Diciamo che era più raffinata. I dibattiti erano condotti da persone molto preparate, vuoi di fede marxista vuoi di fede liberale e si trovano pubblicati in vari resoconti. Ma la differenza non è nella preparazione in sé, bensì sta nel fatto che allora si dibatteva tra reali decisori potenziali che si sentivano sulla coscienza il peso delle conseguenze delle proprie eventuali scelte.

Erano dibattiti e proposte che vertevano su temi vitali e i cui protagonisti erano scienziati economici, politici e sociali di gran caratura e con uno spiccato senso di responsabilità sociale (quella vera, non quella massmediatica oggi sbandierata anche dalle aziende più irresponsabili).

Eppure, se si guarda alla reale storia economica del nostro Paese, quella ad esempio che va dalla fine delle ostilità al 1973, un lasso di tempo visto oggi con crescente interesse e a cui idealmente potrebbero essere ricondotte alcune attuali proposte antiliberiste, ad esempio quelle sul lavoro o più in generale sul cosiddetto “nuovo modello di sviluppo” (comunque lo si voglia intendere, dal decrescitismo al keynesismo verde), si noterà che mentre da una parte si dibatteva e si proponeva, magari col sostegno di parte dell’opinione pubblica, alla fine erano i rapporti di forza sul campo, nazionali e internazionali, che decidevano.

A volte con sorprendenti risvolti politici.

Ad esempio come quando nell’estate del 1947 Luigi Einaudi da ministro del Bilancio ribaltò la politica di laissez-faire riguardo la finanza privata che aveva sostenuto come governatore della Banca d’Italia; o come quando nel 1967 fu approvato dal Parlamento il primo Piano quinquennale di sviluppo economico per rimanere in sostanza lettera morta. Parimenti, il famoso Piano Vanoni per il decennio 1955-1964, che prevedeva la creazione di 4 milioni di posti di lavoro, il pareggio della bilancia dei pagamenti e l’eliminazione del divario Nord-Sud, raggiunse in breve tempo i primi due risultati non grazie a sue procedure attuative bensì grazie al “naturale” sviluppo postbellico. Tanto è vero che il terzo obiettivo, capitalisticamente “innaturale”, non fu raggiunto.

Sul lato delle conquiste dei lavoratori i dibattiti e i progetti avrebbero infatti dovuto lasciare il passo alla conflittualità operaia che in due tornate drammatiche, quella del 1962 (113 milioni di ore di lavoro perdute a causa della lotta) e quella del 1969 (200 milioni di ore perdute) strappò miglioramenti salariali e lavorativi, alla fine sanzionati nello Statuto dei Lavoratori del 1970, che si estesero alla società (salute, casa e istruzione).

Non è stato quindi, e non sarà mai, una questione di un modello migliore di un altro. La storia sociale si fa beffe di un modello dietro l'altro. E se ne fa beffe con violenza lasciando gli “esperti” nella loro confusione: Nixon Shock? E chi se l’aspettava. Terapia Volcker? E chi se l'aspettava? Crisi dell’America Latina? E chi se l’aspettava. Crisi delle Tigri Asiatiche? E chi se l’aspettava. Crisi della “New Economy”? E chi se l’aspettava. Crisi dei subprime? E chi se l’aspettava. Crisi del debito pubblico? E chi se l’aspettava. Tranne ovviamente quei quattro o cinque che ne hanno prevista una oppure l’altra, quasi mai entro un ragionamento sistemico che coinvolgesse economia, finanza, politica, geopolitica, geografia, ecologia, antropologia, politica culturale, politica istituzionale.


4.
Abbiamo fatto cenno a cosa accadeva durante il “ventennio d’oro”che era caratterizzato da una domanda globale in espansione e da un movimento dei lavoratori forte ma fortemente contrastato. Ora, in una situazione invertita, tranne il forte contrasto padronale, sembra che si sia ritornati ai puri dibattiti senza conflittualità sociale.

In realtà gli estensori delle varie proposte sembrano consapevoli del problema di coagulare un fronte di consenso o un fronte di conflitto. I due elementi, tuttavia, non appaiano insieme all’orizzonte. Così ad esempio l’ALBA fa leva sulla democrazia sia interna (critica alla “forma-partito”), sia esterna (“democrazia dal basso”) come veicolo per rendere credibili le sue istanze di aggregazione e di rinnovamento sociale democratico ed ecologico. Ma in mancanza di conflitto sociale il rischio è che tutto si tramuti in un’opinione, per quanto sottoscrivibile, e alla fine in una petizione al Principe (che qualcuno immancabilmente sarà tentato di tradurre in termini elettoralistici).

Altri “consorzi” politici, come il Comitato No Debito, benemerito per aver per primo superato il falso dualismo berlusconismo-antiberlusconismo (e il suo strascico politico) e aver puntato il dito su contraddizioni e problemi strutturali, individua al contrario proprio nel conflitto sociale la forza propulsiva. E ciò è giusto. Si muove sulla base di cinque proposte di alto livello assolutamente condivisibili e da conseguenti azioni di resistenza. Ma è carente sul piano propositivo, lasciando di fatto le proposte di merito alle singole componenti.

Infine, il Movimento Cinque Stelle coniuga a proposte semplici, immediate e derivate da un’analisi che tutto è tranne che sistemica, una capacità di mobilitazione per ora essenzialmente virtuale. Riuscirà a reggere l’impatto del suo proprio successo con queste modalità? Glielo auguro, ma temo di no.


5.
Se l’egemonia del capitale come modo di produzione in Occidente sembra in crisi, essa non lo è come sistema culturale. Così il capitale riesce a reimporre se stesso come orizzonte sociale pur non avendo più nulla da offrire in termini economici. Da qui la difficoltà a reinventare qualcos'altro in termini politici e un movimento che lo sostenga.

In altri termini la crisi della politica ottocento-novecentesca non è solo dei nostri avversari, è anche nostra. Il grosso problema è che dietro questa crisi i nostri avversari hanno organizzato sistemi decisionali di differente livello. Qualcuno, intuendolo, tira in ballo le consorterie tipo Bilderberg oppure i massoni o gli ebrei. Scemenze (anche decisamente sgradevoli): questi sistemi decisionali non sono conferenze di élite, non sono club misterici e meno che meno sono stirpi. Sono in realtà precipitati di processi sociali (seppur di livello differente da quello in cui noi, non-decisori, agiamo); e quindi sono instabili, conflittuali, a geometria variabile.

Inoltre non sono impermeabili ai processi sociali che si svolgono al livello che pretendono di controllare e dirigere. Ma come irrompere in quei processi decisionali?

Le proposte, giuste o sbagliate, che da tempo saltano fuori come funghi, sembrano dire: “Dato che le decisioni e i processi decisionali dei dominanti non ci piacciono, ce ne facciamo degli altri”.

Bene. Ma dove? Di lato? Di sopra? Di sotto? Su un altro pianeta?

Con la pretesa assurda che i dominanti o spariranno da soli o capiranno. Il che è un’evidente follia. Quelli sono pronti a fare guerre atomiche e noi pensiamo veramente, tanto per fare un esempio, che gli infischi più di tanto del C02? Stanno preparando i campi d’internamento per chi romperà le scatole e noi pensiamo veramente, sempre per fare un altro esempio, che si impressionino con la democrazia diretta?


6.
Per queste ragioni penso che occorra insistere sul fatto che la prima domanda che ci dobbiamo porre è: “Abbiamo proposte mobilitanti socialmente (quali, dove, come, quali forze sociali mobilitano)?” La seconda è: “Abbiamo proposte conseguibili in tempi politici e con quali forze sociali?” La terza: “Come manteniamo le posizioni eventualmente acquisite?”

E mi fermo qui con le domande.

Insomma, da una parte c’è tutto un florilegio di “che cosa” e di “perché”, know what e know why (che però a volte fanno a cazzotti tra loro), ma un’assenza preoccupante di “come”, know how, mentre altri si focalizzano sul know how e know why, ma essendo carenti sul know what il loro know how diventa un’altra forma di “Saprei come fare, vorrei tanto, ma non ci riesco”. Per lasciar perdere quelli per cui il movimento è tutto e il fine è niente.

Invece occorrono due buone gambe e una buona vista. Altrimenti non si va da nessuna parte.


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Sei questioni riguardanti l’azione politica

Un commento all'articolo "Parole parole parole" di Piero Pagliani

di Franco Romanò*


Prima questione

Tutte le lotte attualmente esistenti contro la globalizzazione non sono espressione di soggetti sociali, ma di una aggregazione generica basata sull'indignazione altrettanto generica che non riesce a radicarsi in un programma perché esprime istanze assolute, non mediabili fra loro e quindi difficilmente aggregabili intorno a qualcosa: sono espressioni di una solitudine di gruppo e di massa, anche quando vanno a colpire gli obiettivi giusti come per esempio la sede della Bce a Francoforte o la Borsa di Milano.


Seconda questione

La classe operaia rimane la sola anche in occidente che talvolta, intuisce dove bisogna andare a colpire, ma lo fa non in nome di un disegno complessivo e di un orizzonte di società diverso, ma per risolvere a proprio favore vertenze sindacali: è il caso per esempio degli operai di Termini Imerese che vanno a occupare la sede di Unicredit. 


Terza questione

Chi è portatore di buone pratiche (penso alle banche del tempo, al consumo a chilometro zero, filiera corta, ecc. oppure alla socializzazione del lavoro di cura, il coworking ecc.) sembra escludere la politica dal proprio orizzonte, accontentandosi di gestire la propria buona pratica anche in rapporto con le istituzioni ma rifiutando di vedere in essa un pezzo di alternativa che dovrebbe legarsi ad altri ecc. ecc.


Quarta questione

La totale inservibilità di quanto residua della nomenclatura della cosiddetta sinistra radicale,di cui è auspicabile una loro riconversione gestaltica in modo da poter liberare il loro elettorato e i loro militanti da un identitarismo e un settarismo controproducenti. Il problema dell’elettorato esiste naturalmente anche per chi vota Pd e Sel ed è assai più complesso.


Quinta questione

I grillini che meritano una analisi a parte che cercherò di fare ma su cui è utile dire subito una cosa. Secondo me chi ipotizza un aumento indiscriminato della loro percentuale di voto nei sondaggi e la scambia per quello che accadrà realmente il prossimo anno alle elezioni, si sbaglia completamente per almeno due buone ragioni: primo l'eterogeneità del movimento e la mancanza di organizzazione sarà da questo momento in poi un limite e non più una forza; in secondo luogo proprio per questo sarà facile portare la divisone al loro interno anche con iniziative da intelligence probabilmente bipartisan, alle quali i grillini sono poco attrezzati a resistere e a comprendere. Mi aspetto anche qualche scandalo intorno a Grillo stesso.


Sesta questione

Da che cosa cominciare per fare un passo avanti. Secondo me bisogna partire da quelle agitazioni e buone pratiche che, pur nella loro spontaneità e limiti già indicati, rivelano maggiore e tenuta e anche hanno messo in scacco in qualche momento il potere e capire perché hanno avuto tale impatto. In Italia secondo me sono questi:

1) Il movimento No Tav.

2) Il referendum sull'acqua e la nascita da esso (più che non Alba stessa), della rete dei beni comuni che costituisce anche in alcuni casi una cerniera virtuosa fra istituzioni locali e movimento.

3) L'occupazione del teatro Valle a Roma e della Torre Galfa a Milano, nonché altre iniziative di autogestione e socializzazione delle risorse o se vogliamo dei mezzi di produzione e servizi, da parte di gruppi associati e omogenei (i lavoratori della cultura e dello spettacolo oppure i giovani che si aggregano nel coworking).

Cosa unifica queste esperienze al di là della consapevolezza immediata che ne possono avere i soggetti coinvolti? Per rispondere a questa domanda faccio un passo indietro. Perché erano dirompenti ed efficaci lo sciopero generale politico oppure l'occupazione del fabbriche per il capitalismo otto-novecentesco? Perché erano sequestri di fatto del capitale fisso da parte del capitale variabile. La domanda da porsi rispetto a oggi è: cosa costituisce il capitale fisso per il capitalismo finanziario post-industriale globalizzato? Senza gerarchie fra di loro io li vedo in tre elementi:

  1. Il territorio e le sue infrastrutture (le merci devono pur sempre arrivare da un luogo a un altro).
  2. La sede fisica degli istituti di credito e della borsa.
  3. La rete virtuale su cui corrono le transazioni.

Ebbene, io credo che le lotte indicate prima, hanno avuto maggiore impatto e tenuta perché in un modo più o meno vistoso andavano a colpire questi nodi nevralgici, a parte le banche almeno per ora, sfiorate solo da manifestazioni generiche di opinione. Credo che su questo dovremmo ragionare proprio per poter elaborare strumenti di generalizzazione che diventino contagiosi, ma occorre parlarne con calma in altra occasione.


* Scrittore ed intellettuale, condirettore della rivista di narrativa, critica letteraria e cultura Il cavallo di Cavalcanti; redattore della rivista online Overleft. Cofondatore della Società di Psicanalisi Critica, è coautore del volume "L'ideologia del denaro".
 

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