Siria, un altro tassello del mosaico
Antiper
Per sviluppare una riflessione sulla situazione siriana è necessario collocarla all’interno del tentativo di ristrutturazione dell’egemonia nord-americana ed europea in atto da anni in Medio Oriente. Dobbiamo legare il particolare contesto siriano con il più generale quadro internazionale che si caratterizza, da un lato, per le cosiddette “rivolte arabe” e per i loro discutibili esiti attuali [1] e, dall'altro, per la crisi economica di lunga durata del modo di produzione capitalistico, vera forza motrice di questi avvenimenti.
Lungo la “linea immaginaria” che collega il Marocco al Pakistan (quello che alcuni hanno definito il “Grande Medio Oriente”), negli ultimi 20 anni si sono succedute senza soluzione di continuità guerre civili, guerre di aggressione imperialista o combinazioni di entrambe. Dalla guerra civile algerina a quella siriana, dalla guerra contro l'Iraq del 1991 a quella libica del 2011, è il conflitto permanente per la ristrutturazione delle sfere di egemonia dopo il crollo dell'URSS ciò che ha contraddistinto quest'area (come del resto anche altre aree).
Quella “linea immaginaria” pone idealmente l'uno di fronte all'altro l'imperialismo “atlantico”, egemone negli ultimi secoli, e le cosiddette “aree emergenti”. È una linea, si potrebbe dire, che divide il vecchio assetto otto-novecentesco guidato prima dall'impero inglese e poi da quello nord-americano dall'assetto che verrà, ancora il larga misura in pectore; è la linea di scontro tra il passato che non vuole morire e il futuro che cerca di nascere. E non è affatto scontato che da questo scontro debba uscire un solo vincitore. È anzi probabile che, almeno nel medio termine, possa determinarsi un equilibrio di tipo multipolare, ciò che gli USA stanno tentando in tutti i modi di scongiurare ricorrendo al principale “vantaggio competitivo” del quale dispongono: la potenza militare.
In questo scenario la Siria rappresenta effettivamente un elemento di grande importanza. Non è un caso che USA ed Europa, assieme ai propri alleati regionali (la Turchia su tutti, ma anche l’Arabia Saudita, Israele, il Qatar...), stiano tentando da oltre un anno di far implodere l’equilibrio del paese utilizzando forze mercenarie adeguatamente equipaggiate. E non è un caso che parte di queste forze mercenarie provengano, come composizione di uomini ed armi, da quelle che hanno operato in Libia.
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La situazione siriana ha subito un'ulteriore recrudescenza nelle ultime settimane con il tentativo di dare la spallata finale ad Assad, al momento senza riuscirci; i paesi che operano per cogliere questo obbiettivo - gli USA, anzitutto - continuano a ritenere l'opzione militare “diretta” possibile, anche se al momento sembrano preferire ancora l'appoggio esterno per consentire all'insorgenza interna di realizzare la destabilizzazione del paese e la costruzione di un nuovo equilibrio. É in questo senso che va la costruzione dell’Esercito di Liberazione Siriano (ELS), autore di numerosi massacri a danno delle popolazioni civili che i media occidentali ed arabi hanno venduto all’opinione pubblica mondiale come opera del governo siriano, con l'obbiettivo di alimentare l'indignazione dell'“opinione pubblica” internazionale e dunque di preparare il terreno, ove ve ne fosse la necessità, di un intervento militare diretto oppure, come già avviene da tempo, consentire ai paesi imperialisti di sostenere manifestamente i “ribelli” [2]. Il risultato è una drammatica guerra civile che l’imperialismo nord-americano ed europeo alimenta e che ha, come principale vittima, il popolo siriano.
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Prima della guerra civile, la società siriana era certo una società ricca di contraddizioni, anche a causa del suo tessuto culturale multi-etnico e multi-religioso entro cui convivevano 40 diverse confessioni; una società che ricordava, per alcuni aspetti, la federazione jugoslava prima dello smembramento operato dalla NATO.La Siria è stata negli anni fonte di sostegno politico ed organizzativo per diversi movimenti di liberazione e di resistenza anti-imperialista e anti-sionista fra cui quello palestinese e quello libanese, così come lo era stata la Libia della prima Jamahiriya. Anche questo è un aspetto che va ricordato. E, sopratutto, la Siria rappresenta un pilastro dell'assetto che, con l'Iran, costituisce il principale bastione di resistenza agli interessi geo-strategici nord-americani ed europei nella regione.
Proprio a Teheran si è tenuta, il 9 agosto scorso, una riunione alla quale hanno partecipato delegazioni di 30 paesi chiamate ad affrontare la “questione siriana” da un punto di vista ben diverso da quello USA-UE. La risoluzione finale, per esempio, propone un “cessate il fuoco” di 3 mesi e l’avvio di un dialogo tra il governo siriano e quella parte dell'opposizione che non si è resa responsabile di azioni terroristiche; si tratta, dunque, di una posizione sostanzialmente favorevole al governo Assad. Il Ministro degli Esteri iraniano Salehi ha riassunto chiaramente la posta in gioco: “È necessario usare tutte le capacità esistenti per salvaguardare la sicurezza e la stabilità regionale ed opporsi ai nemici della regione del Medioriente” [3].Ma quello che colpisce maggiormente è che nel “gruppo di Teheran” vi siano una serie di “potenze energetiche” molto importanti (Iran, Iraq, Venezuela, Russia...) che possono prefigurare un'“alternativa energetica” globale, disastrosa per gli interessi degli USA che hanno sempre fatto del controllo delle fonti di approvvigionamento energetico uno dei capisaldi della propria egemonia globale [4].
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Per ogni paese capitalistico, la cosiddetta “bolletta energetica” è un elemento fondamentale nel calcolo del saggio di profitto. Bolletta troppo cara significa spese in capitale costante troppo alte e saggi di profitto troppo bassi.Controllare direttamente le fonti energetiche significa dunque, per i capitalisti, diminuire i costi di produzione e agire in controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto che è uno degli elementi cardine che caratterizzano la dinamica del modo di produzione capitalistico. Insomma, si potrebbe sintetizzare, è un modo, se non proprio per superare, quanto meno per alleviare la crisi.
È palese che in Siria, come in tutto il “Grande Medio Oriente”, non sono in gioco i “diritti umani” o altre amenità care anche ad ampi settori del cosiddetto “movimento”, ma qualcosa di molto più concreto e vitale per gli interessi dal grande capitale. Dobbiamo saper cogliere lo scontro di interessi geo-politici che si gioca in Medio Oriente, nella cosiddetta “primavera araba” e anche nella “questione siriana” che ne rappresenta, come detto, un anello specifico.
Da questo punto di vista è interessante il modo in cui Henry Kissinger affronta la questione siriana
“Il sistema di Westfalia non fu mai applicato integralmente al Medio Oriente. Solo tre stati della regione araba avevano una base storica: Turchia, Egitto e Iran. I confini degli altri riflettevano la spartizione delle spoglie del defunto Impero Ottomano tra i vincitori della Prima Guerra Mondiale, con attenzioni minime alle divisione etniche e settarie. Questi confini furono conseguentemente soggetti a ripetute dispute, spesso militari” [6]
Il ragionamento di Kissinger è semplice: si intervenga pure - o per ragioni “umanitarie” o per ragioni “strategiche”, poco importa -, ma solo a condizione che sia certo, stabile e amico lo scenario che viene a sostituire quello su cui si interviene. Ed aggiunge che forse, da questo punto di vista, la situazione siriana non è così favorevole.Questo passaggio può anche essere letto come una critica all'impostazione Bush che con il suo attacco all'Iraq nel 2003 ha, sì, detronizzato Saddam Hussein ma ha anche creato, soprattutto grazie alla Resistenza, una situazione di ingovernabilità che ha reso necessario un sostanziale accordo con il nemico iraniano ed i suoi alleati (la comunità sciita irachena) nonché, successivamente, con una parte del vecchio establishment sunnita post-baathista.
In altra parte del suo intervento Kissinger fa riferimento anche al timore che Cina e Russia avrebbero di veder applicata la dottrina dell'“intervento umanitario” al proprio territorio come motivazione dell'atteggiamento recalcitrante a schierarsi a fianco dei “volenterosi” nord-americani ed europei. Quello che Kissinger finge di non sapere è che il reiterato posizionamento di Cina e Russia contro risoluzioni ONU che possano aprire la strada all'azione militare diretta contro la Siria è dovuto a ben altro che al timore di essere a propria volta aggredite da un intervento “umanitario” (cosa, al momento, assai improbabile), quanto piuttosto dal timore di vedersi gradualmente ridimensionate dal punto di vista economico internazionale.
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Siamo di fronte ad un quadro di scontro globale che per il momento si gioca ancora solo su un terreno di carattere indiretto, regionale, e dove le scintille “dirette” avvengono prevalentemente negli ambiti meno “drammatici” della “cyberwarfare” [10] o della diplomazia internazionale. Ma si tratta - e, con l'approfondirsi della crisi, sempre di più si tratterà - di uno scontro all’ultimo sangue per accaparrarsi risorse energetiche, umane, mercati di sbocco, zone di influenza...
Sono l’approfondimento della crisi ed il manifestarsi di sempre maggiori contraddizioni gli elementi chiave del quadro generale che va colto anche nella vicenda siriana e nella più generale “rivolta araba”; il quadro di uno scontro tra le potenze imperialiste storiche e di queste con nuove potenze emergenti, per ridefinire i reciproci rapporti di forza. Anche per questo, mentre sosteniamo il popolo siriano martoriato da una guerra voluta, condotta e diretta dall’imperialismo nord-americano ed europeo, auspichiamo la rivolta dei popoli arabi contro l’imperialismo e per il socialismo, rifiutando di diventare - consapevolmente o meno - la truppa di appoggio di una o dell’altra frazione in lotta anche se, ovviamente, non siamo indifferenti agli esiti dello scontro.
E poiché “internazionalismo” non vuol dire tifare per l'una o l'altra squadra, ma combattere, in primo luogo, l’imperialismo di casa propria, sapendo distinguere tra una lotta consapevolmente antimperialista ed una lotta o una resistenza che si colloca oggettivamente contro i piani dell’imperialismo, non è mai inutile ribadire il fatto
È del tutto evidente che il quadro internazionale che abbiamo di fronte non è quello degli '60-'70
Se ne esistessero le condizioni la parola d'ordine non potrebbe essere che quella di “trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria”, anche in Siria; invece, ci si deve accontentare di qualcosa più cauto, ma comunque impegnativo e dire che contro la guerra imperialista si sta dalla parte dei popoli, sempre e comunque; e in Siria, come in Iraq o in Libia, dentro lo scenario globale che abbiamo tratteggiato, c'è sempre un ben preciso tipo di scontro, lo scontro tra gli interessi delle varie frazioni dell'imperialismo comunque collocate e quelli delle masse popolari: come possano questi due interessi coniugarsi, sia pure all'insegna della deposizione dei “rais”, è un vero mistero.
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