Print Friendly, PDF & Email

Il grande gioco ai tempi della Rete

Intervista a Massimiliano Guareschi

Per capire qualcosa in più dopo il caso Snowden e l'emergere dell'entità dell'attività dell'Nsa, abbiamo rivolto alcune domande a Massimiliano Guareschi, docente all'università di Genova e già animatore della rivista «Conflitti Globali»

Prima di tutto una premessa, ovvia quanto necessaria. Non sono un esperto di intelligence e non dispongo di rivelazioni particolari, magari provenienti da fonti confidenziali, in grado di sciogliere gli arcani incomprensibili per i comuni mortali. Di conseguenza, mi limiterò ad avanzare alcune congetture a partire dall’idea che mi sono fatto circa le dinamiche istituzionali che caratterizzano quei mondi. Certo, il campo dell’intelligence presenta una serie di caratteristiche che lo rendono assai sfuggente. Del resto, i servizi segreti, se non operassero nel segreto, non sarebbero tali. Di conseguenza, su una serie di questioni, specie legate all’attualità più immediata, non si possono che formulare ipotesi. Tuttavia, non tutto è segreto e misterioso. Specie per quanto riguarda gli Stati uniti, non manca una certa trasparenza. Su vicende del passato si dispone di un’ampia messe di documenti declassificati, disponibili su siti come quello della Cia o della Nsa che peraltro consiglio a tutti di visitare. In essi si possono trovare tantissime cose interessanti: analisi di scenario, saggi storici, esperimenti futurologici, dibattiti su che cosa ha funzionato e che cosa no nel recente passato. Certo, chi cercasse rivelazioni sensazionali su complotti vari o la prova che gli extraterrestri sono fra noi non può che restare deluso. Diversamente, se uno vuole farsi un’idea circa le dinamiche istituzionali, le retoriche, le rappresentazioni e i conflitti che caratterizzano quei mondi il materiale offerto risulta decisamente utile. Per chi fosse interessato, poi, c’è anche un’apposita subdirectory per chiedere lavoro: si può scegliere fra varie tipologie di impiego, dall’analista all’agente sotto copertura…


Il terrorismo, come realtà e come pretesto, in che modo ha modificato il modo di operare dei vari servizi segreti statunitensi, sia all'interno che nel loro rapporto con gli alleati europei?

In primo luogo, si potrebbe dire, niente di nuovo sotto il sole. Basti pensare alla vicenda Echelon, scoppiata più di una decina di anni fa. In quel caso si scoprì l’esistenza di un capillare sistema di intercettazione, che faceva capo agli Stati uniti e implicava una condivisione dei pieces of intelligence, con i partner anglo della cerchia più ristretta (Gran Bretagna, Australia, Canada, Nuova Zelanda) che avevano per obiettivo anche e soprattutto paesi alleati. Con ogni evidenza, lo scopo era non solo quello di acquisire informazioni di carattere politico-militare (in fondo si sta tutti insieme nello stesso dispositivo militare) ma anche e forse soprattutto lo spionaggio “economico”, riguardante segreti industriali, gare di appalto, brevetti, dati sensibili dal punto di vista finanziario ecc. La vicinanza fra élites militari, governative, politiche e industriali è particolarmente forte in ambito statunitense. Il sistema delle “porte girevoli” implica una notevole circolazione di personale fra tali ambiti. Per non parlare dei sistemi di subappalto, che interessano anche il modo dell’intelligence, con aziende private che si vedono affidata l’esecuzione di determinate mansioni e possono trarre vantaggio dall’acquisizione di informazioni riservate, magari da girare ad altri clienti…

Per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti degli alleati, le dinamiche relative alle attività di spionaggio e controspionaggio non si ricalcano certo fedelmente sulle mappe degli accordi politici ufficiali. In proposito basti pensare alla funzione svolta nel dopoguerra dai servizi segreti inglesi e americani in Italia. Anche in tempi recenti, per fare un altro esempio, gli Stati uniti, sono arrivati più volte ai ferri corti con il superalleato israeliano per le operazioni compiute dai servizi segreti dello stato ebraico sul suolo statunitense, riguardanti soprattutto lo spionaggio industriale e il tentativo di influenzare la politica americana attraverso forme di “lobbismo” poco ortodosse.


Quale utilità specifica, nella presunta lotta al terrorismo, ha la raccolta di un così alto numero di metadati sul traffico telefonico e telematico?

Beh, ovviamente nessuna. In termini generali, l’eccesso di informazione crea ovviamente un effetto “rumore”. Inoltre, in seno alla stessa comunità dell’intelligence statunitense nell’ultimo decennio si sono levate non poche voci critiche che attribuiscono i ripetuti fallimenti sul campo, dall’11 settembre alla scriteriata conduzione della guerra in Iraq (spesso derivante da deficit informativi), all’eccesso di tecnofeticismo (e all’ossessione quantitativa) che sarebbe andato a scapito dell’intelligence umana sul campo. In sintesi, seguendo le vicende della guerra in Iraq lo scenario è più da Austin Power che da James Bond, si intercetta di tutto, nella maniera più sofisticata, ma poi mancano i traduttori affidabili, perché si dispone di poca gente che sa l’arabo o si assumono esperti che sanno l’arabo classico e non capiscono come parlano i locali.

Certo la lotta al terrorismo ha rappresentato una straordinaria risorsa per le agenzie di intelligence, che in nome di quell’emergenza hanno potuto legittimare crescenti richieste di risorse e un allentamento dei vincoli alle loro attività. Per quanto riguarda il sistema di intercettazioni a 360 gradi emerso in queste settimane è oggi assai difficile stabilire una verità, diciamo così, evenemenziale, fornendo una risposta documentata a domande riguardanti chi ha deciso, chi ha autorizzato, chi ha preso l’iniziativa, chi sapeva e chi ha finto di non sapere. Diversamente, per iniziare a comprendere il senso di quanto accaduto è forse opportuno porre l’attenzione, sfatando alcuni miti consolidati, su certe dinamiche strutturali che caratterizzano negli Stati uniti, e anche altrove, il mondo dei servizi. In primo luogo abbiamo lo scarto con la politica. Banalizzando, i politici passano, stanno lì per quattro o otto anni e poi via, mentre i quadri dirigenti dell’intelligence sono più inerziali, possono contare su una diversa temporalità. Ciò determina sia una relativa posizione di forza (lasciando da parte il potere di ricatto derivante dal possesso di determinate informazioni) sia il perseguimento di strategie di più lungo periodo. In termini generali, i grands commis dell’intelligence sono soliti autorappresentarsi come i veri depositari dell’interesse nazionale, perseguito in un conformità a una logica non contingente che deve essere talvolta difesa contro i dilettanti allo sbaraglio della politica addicted di consenso e visibilità. È facile comprendere come in un simile contesto possano maturare tendenze alla “discrezionalità” e all’interpretazione estensiva del proprio mandato. Sarebbe fuorviante, quindi, interpretare la relazione fra servizi e responsabili politici in termini di pura catena gerarchica in cui ai primi spetta attuare le decisioni dei secondi. In realtà, il mondo dei servizi segreti dovrebbe essere analizzato, per esempio, attraverso il modello bourdiesiano del campo, in cui le diverse prese di posizione degli attori coinvolti corrispondono a uno spazio delle posizioni, in cui la definizione legittima della minaccia e dei modi per affrontarla è una posta in gioco fondamentale nel conflitto per la spartizione delle risorse e dell’influenza. In quel campo vediamo coinvolte una pluralità di agenzie che entrano in complesse relazioni di concorrenza e alleanza, in cui spesso la destra non sa che cosa fa la sinistra, ma anche soggetti trasversali, per esempio cordate politico-imprenditoriali che hanno tutto l’interesse a orientare le attività in una direzione o nell’altra. Detto per inciso, è facile immaginare, per esempio, quali possono essere state le ricadute economiche della proliferazione delle intercettazione a scala planetaria per i fornitori di beni e servizi di quel settore o, quantomeno, per coloro che si sono garantiti gli appalti più succulenti. Oppure, si potrebbe immaginare una fiction del tipo The Wire ambientata nel mondo dei servizi segreti. Il telefilm di David Simon mostra come l’agire dei poliziotti di Baltimore derivi non dall’astratto obiettivo di combattere il crimine ma da poste in gioco molto più concrete che andavano dalle ossessioni personali alle ambizioni di carriera, dalla volontà di arrivare tranquilli alla pensione o di gratificare una determinata autorità politica a quella di scaricare sugli altri gli insuccessi o i casi difficili. Lo stesso, mutatis mutandis, si potrebbe fare per i vari livelli gerarchici di un’agenzia di intelligence, vista come campo in sé e come campo in interazione con altri spazi, come quelli della politica, del militare e dell’economia. Tutto questo per i mettersi alle spalle luoghi comuni iperefficentisti in stile Spectre e approcciare invece l’intelligence come un contesto burocratico, seppur sui generis, che risponde a logiche tipiche di un’organizzazione burocratica pur con tutte le cratteristiche derivanti dalla specificità della sua mission e dai problemi di accountability che essa comporta. A quel punto, le questioni riguardanti chi c’è dietro o quella decisione assumono un significato più ampio e articolato.


Perché i servizi italiani negano ostinatamente l'esistenza di intercettazioni in Italia (si parla di 46.000 contatti, ovvero 23.000 telefonate o mail)? Perché invece si è scatenata la Germania?

La risposta potrebbe essere molto semplice, forse basta forse dare un’occhiata al profilo politico dei due paesi. Il riferimento a qualche recente vicenda può dare l’idea di quali siano le relazioni transatlantiche: Letta che, per tenere in piedi il suo esangue governo, ostenta la legittimazione fornitagli da Obama durante il loro incontro. Qualche mese fa, il ministro Mauro, spalleggiato da re Giorgio, che dichiara incompetente il Parlamento sulla questione dell’acquisto degli F35. Andando indietro, ricordiamo il sequestro di Abu Omar: i nostri servizi non sapevano nulla… Poi non dimentichiamo chi è l’attuale sottosegretario con delega alle informazioni sulla sicurezza, nientemeno che Marco Minniti (l’ultimo dei naziskin di occhettiana memoria rimasto sulla cresta dell’onda politica). Basta dare un’occhiata al sito del think thank che fino a poco tempo fa presiedeva, la Fondazione Icsa, per capire molte cose…

Per concludere, ci terrei a sottolineare un punto. Una nota massima recita che, se in un film compare una pistola, prima o poi sparerà. Questo per dire che chi dispone della possibilità di operare intercettazioni o di acquisire dati in altro modo, prima o poi lo farà. Sarebbe ingenuo pensare che lo si possa impedire imponendo vincoli e limiti di tipo normativo, vista la discrezionalità di cui dispongono agenzie di intelligence e polizie varie, per non parlare poi dei soggetti privati interessati ad attività di spionaggio. Questo non significa che gli interventi legislativi a favore della privacy siano inutili. Ma non bastano. Diversamente, è necessario muoversi a partire dallo stesso medium, diffondendo le pratiche volte a ostacolare l’accesso ai propri dati personali o collettivi. Penso in primo luogo alle tecniche di criptazione o ai server che garantiscono elevati livelli di sicurezza. La sensibilità per la riservatezza, l’anonimato e la tutela dei propri dati, molto forte agli inizi della cybercultura, si è in seguito fortemente diluita, fino a farsi marginale nell’era del narcisismo di massa veicolato dai social network. Ma è da lì che si deve ripartire.

Add comment

Submit