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Cosa sta succedendo in Medio Oriente?

di Pierluigi Fagan

petrolio medio orientePer cercar di mettere ordine nella comprensione dei fatti che stanno accadendo in Medio Oriente, nel mondo arabo e nella penisola arabica, si possono usare varie lenti. Si potrebbe partire dallo Yemen o dagli attentati in Tunisia o dallo Stato islamico e dalla guerra civile siriana. Noi però scegliamo di puntare la lente sull’interesse e sulla strategia del player più importante non solo di quell’area ma del mondo intero: gli Stati Uniti d’America.

Chi scrive ritiene che la strategia generale della geopolitica obamiana sia quella dichiarata e che non vi sia una sottostante contro-strategia “segreta” o un ripensamento della stessa. La strategia omamiana dichiarata è quella che individua il principale problema in Asia, in Cina, da cui consegue una complessa strategia del Pacifico e un auspicato accerchiamento dello spazio di manovra cinese. Il secondo punto, oggi il primo intermini di impegno e di attualità, è la Russia, ovvero tentare un regime-change a Mosca e comunque, prioritariamente, separare Europa e Russia in ogni modo. Questo per il doppio obiettivo di impedire la formazione di un sistema euro-asiatico che taglierebbe fuori l’isola americana  e di contro, creare un solido legame sistemico-esclusivo con l’Europa nella formazione di un sistema occidentale, unico e compatto, ancora in grado di pesare e condizionare gli eventi planetari in termini economici, finanziari, militari e quindi politici.

Conseguenza di questa strategia in due punti (1. Cina; 2. Russia – Europa), la dichiarata volontà di assentarsi dal Medio Oriente, buco nero praticamente irrisolvibile come si dimostra dalla storia degli ultimi non anni ma decenni, buco che risucchia attenzioni, forze militari quindi soldi. Soldi che da una parte sono sempre meno stante il corso dell’economia e della finanza pubblica americana e dall’altra servono in misura sempre maggiore. Servono soldi infatti sia per far funzionare l’eventuale rete di alleanze del Pacifico (TPP), sia per far funzionare l’eventuale trattato trans-atlantico (TTIP) che dovrebbe legare gli europei a doppio filo con il destino nord americano ma servono anche a sostenere l’economia interna americana, cioè l’occupazione ed il welfare e per finanziare le tensioni contro i russi oggi, contro i cinesi domani. Quanto ai trattati gemelli, il TPP pacifico e il TTIP atlantico (ma si ricordi che ve ne è uno addirittura più temibile, il TISA) si tenga conto che non sono trattati naturali nel senso che forzano a costruire una rete verso cui c’è un forte interesse politico da una parte (USA) ed uno scarso interesse economico dall’altro (partner del Pacifico ed europei). Costeranno nel senso che dovranno in qualche modo funzionare, ovvero distribuire un qualche dividendo ai contraenti pena la loro polverizzazione subito dopo la loro istituzione. Per trovare questi “dividendi” al netto delle pressioni, delle minacce, dei condizionamenti sofisticati che senz’altro sono in atto, gli americani dovranno prevedere un costo indiretto, qualcosa da concedere per mantenere il prezzo della fedeltà. Per gli americani, prevedere anche una presenza attiva in grado di stabilizzare l’instabile Medio Oriente, a questo punto, sarebbe un insostenibile costo in più per operazioni che non sono né di primaria, né di secondaria importanza strategica per gli interessi americani.

Quali sono allora le ragioni per credere che sia effettivamente questa la strategia americana?

La prima è che essa sembra oggettiva. Cooperare con la Cina significherebbe finanziare la sua crescita esponenziale, crescita che scalzerebbe gli USA da molti mercati e scenari geo-politici rappresentando il primo perno fondamentale della multi-polarizzazione del nuovo mondo complesso, cosa che per altro sta già avvenendo. Assistere impotenti alla creazione dell’asse euro-asiatico significherebbe rafforzare il corso multi-polare del mondo e lasciarsi confinare in una periferia blindata da due oceani. Il tutto retroagirebbe sul dollaro, sul controllo militare, sulla rete di interessi e di poteri che sostiene il tenore di vita americano. Tenore che ad ogni scalino di decrescita entrerebbe in crisi generando crisi, ponendo sempre più il problema di come reagirebbe la giovane e fragile società americana (si vedano le sempre maggiori tensioni razziali e non solo) ad un diminuzione violenta della condizioni di possibilità del suo sostentamento. Quindi è logico che il primo problema è la Cina ed il secondo è la Russia e il possibile asse Europa-Russia.

La seconda ragione sono gli atti conseguenti. Effettivamente gli USA hanno e stanno provando a stendere la propria rete del Pacifico, per altro con risultati da modesti a nulli. Effettivamente hanno messo in piedi una sceneggiata in Ucraina che ha reso improvvisamente d’attualità una cosa che neanche due anni fa sarebbe sembrata folle: il ritorno dell’orso russo, imperialista, minaccioso, aggressivo (?). Questa sceneggiata ha rotto provvisoriamente la rete degli interessi che stavano sempre più legando l’Europa (Germania in testa) alla Russia. Sta mettendo in seria crisi il potere russo al governo della federazione. Sta mobilitando la Nuova Europa (dell’Est) contro gli stessi interessi e leadership storica della Vecchia Europa (divide et impera). Ha rivitalizzato la NATO (il primo e più importate dei vari trattati). Ha aumentato la domanda di forniture militari della cui produzione gli americani sono leader mondiali.

Impedendo all’Europa di andare ad Est, l’Europa dovrebbe andare ad Ovest. Ed ecco pronto il TTIP, il trattato che più che rappresentare una invincibile rete di interessi economico-finanziari con cui legarsi a doppia corda (USA ed Europa sono economie per lo più omologhe ed il primo principio che fa funzionare il sistema capitalistico di scambio è invece la differenza) rappresenta una stretta rete di legami giuridici che tra l’altro sono molto meno reversibili ed assai più condizionanti. Ma passano i mesi ed il trattato di cui per altro molto poco si sa, non si chiude, così come è arenato il TPP, le cui trattative sono partite molto prima. Non solo. Hollande e Merkel prendono l’aereo e vanno da Putin a dirsi chissà cosa. Fino a gli ultimi eventi clamorosi dell’entrata nel pacchetto dei fondatori della prima ora della nuova banca di investimenti cinesi, non solo dei principali paesi europei ma anche di molti candidati alla nuova rete del Pacifico.

Insomma, Obama ci sta provando, sta facendo ciò che è nella sua strategia annunciata e pare che gli americani non possano far altro ma questa strategia sembra contenere più volontà di potenza che non realismo. Sembra che gli interessi oggettivi del mondo nelle sue varie componenti, vadano dall’altra parte. Il dogma del tenore di vita americano spinge gli stessi a negare ostinatamente il complesso corso naturale dell’intero pianeta, a nuotare controcorrente, ad accarezzare contropelo il manto sensibile dei principali soggetti planetari. Non sempre ciò che si deve e si vorrebbe fare è ciò che è oggettivamente possibile fare. L’Impero romano, le orde mongole, la Francia napoleonica, l’Impero britannico, la Germania nazista sono tutti casi in cui determinati sistemi umani fortemente espansi non sono stati in grado di fermasi al limite e retroagire sulla propria costituzione interna per adattarsi appunto al raggiunto limite. Sono tutti andati avanti per come erano soliti fare, per ciò che aveva costituito il loro successo,  ignari del fatto che ciò che è possibile anche per lungo tempo, ad un certo invisibile punto non lo è più e quando non lo è più, non c’è proprio nulla da fare se non adattarsi.  Una specie animale o vegetale che non si adatta al divenire ambientale si estingue, così i sistemi umani spariscono dalla storia dopo averla lungamente scritta da protagonisti.  E’ la poco conosciuta legge delle “condizioni di possibilità”, poco conosciuta soprattutto da noi occidentali che quanto a volontà di potenza abbiamo un invidiabile e longeva tradizione di origine indoeuropea.

La terza ragione per cui crediamo alla verità della strategia annunciata è data dalla sequenza degli atti compiuti dagli americani nel quadrante arabo-mediorientale. Gli USA non si sono mossi in prima linea sull’affare libico che è stato per lo più un’azione franco-britannica. Mossi da probabili tensioni e ricatti interni hanno mostrato un iniziale atteggiamento sovversivo nei confronti di Assad in Siria. Poi sono stati fermati (almeno questo noi vediamo pubblicamente ma non è detto sia andata veramente così) da Putin e da allora sembrano aver depotenziato il loro impegno in loco permettendo uno stato di fatto di coesistenza con Assad che recentemente è apparso nei commenti delle principali cancellerie come realtà da accettare, con cui venire a patti, soprattutto dopo che si è dimostrato quale verminaio in libera uscita sottostà la rimozione di personaggi come Saddam o Gheddafi.  Poi si sono dichiarati favorevoli alla via democratica all’islamizzazione dei Fratelli musulmani in Egitto rimanendo spiazzati dal colpo di stato dell’esercito di Al Sisi coadiuvato dalle monarchie arabe (ad eccezione ovviamente del Qatar che promuove la linea salafita contro quella wahhabita). Infine, hanno appoggiato in qualche modo il governo iracheno (per lo più sciita) ed i curdi nell’azione di resistenza e contrattacco contro lo Stato islamico. Hanno poi  sommato altri due fatti che hanno scontentato non poco i due principali alleati locali: Israele ed Arabia Saudita.

Il primo è la tornata in ordine sparso di governi europei che hanno votato mozioni parlamentari (per quanto non vincolanti) in favore del riconoscimento di una entità politico-statuale palestinese. Tali pronunciamenti sembrano oggettivamente in accordo con l’annunciata strategia americana per la stabilizzazione dell’area e poiché sulla libera iniziativa europea in termini di politica internazionale è lecito dubitare, è anche lecito supporre che gli USA abbiano sollecitato questi pronunciamenti . La seconda è la recentemente annunciata volontà di firmare il famoso accordo che riporterebbe l’Iran nella comunità internazionale, con conseguente sconcerto e furia di Israele e sauditi. Con Netanyahu sono volati stracci con l’israeliano che visita il Congresso non invitato da Obama, che dichiara il suo mai al “due popoli-due stati” con cui vince le elezioni per poi far finta di ripensarci nel mentre Obama rilascia interviste che tengono il punto ed avvertono Israele che così è e così prima o poi si farà.

La mossa Iran ha le sue fondate ragioni. La prima è quella di risolvere l’irrisolvibile problema dell’instabilità medio-orientale con un “mexican stand off” ovvero una situazione (si veda le Iene di Tarantino) in cui alcuni elementi si bloccano a vicenda realizzando così una sorta di blocco stabilizzato e stabilizzante. Turchia, Egitto, Arabia Saudita ed Iran sarebbero i quattro lati di questo sistema auto-bloccato. Ognuno di essi sarebbe pronto ad allearsi con altri per impedire che uno di loro possa rompere il blocco. Turchia ed Arabia Saudita condividono interessi nel progetto neo-califfale? Ecco che gli egiziani irritati dalle minacce dello Stato islamico al confine libico e preoccupati in quanto laici militari dell’affermazione di un format politico-religioso potrebbero diventare oggettivamente alleati degli sciiti iraniani più di qualunque altro inquietati dal disegno sunnita tradizionalista. Così se i Turchi dovessero esagerare le loro pulsioni neo-ottomane o gli egiziani inventarsi un improbabile neo-pan arabismo, stante che i tre sunniti sono comunque sempre vigili contro l’unico sciita del gruppo come si vede oggi in Yemen. Non è detto che funzioni ma è comunque un’idea, stante che poi non ce ne sono molte altre.

La seconda è quella di provare a sottrarre l’Iran dalla doppia salda e ben fondata amicizia con russi e cinesi che, ricordiamolo, sono i nemici principali degli USA. Diversamente, sarebbe questione inevitabile che gli iraniani effettivamente si dotassero dell’atomica generando una effetto a catena da cui ci scampi iddio. Ma poi, se gli Usa rimanessero confinati dalla parte sionista-sunnita, oltre a favorire la costituzione di un polo opposto iraniano/sciita-russi-cinesi (tutti assai concordi nel combattere il fondamentalismo terroristico integralmente di matrice ultra-sunnita), sarebbero senza scampo trascinati in una quadrante di tensioni gravi da cui gli americani non trarrebbero nessun beneficio ed anzi molte possibile insidie oltreché impegni e costi da evitare.

La terza ragione per l’accordo con l’iran ha a che fare con la non dichiarata ma agita guerra che ha una componente sunniti vs sunniti ed una sunniti vs sciiti.  Tale guerra scaturisce da un probabile e più vasto piano egemonico-sub imperiale varato da un soggetto sino ad oggi considerato una mera propaggine degli interessi americani: l’Arabia Saudita. Furono i sauditi a sbraitare per l’invasione del Kuwait di Saddam e furono i sauditi anche se non da soli a fomentare la ribellione a Gheddafi. E di nuovo, furono i sauditi i primi a riconoscere il diritto dei militari egiziani a far il colpo di stato contro il fratello musulmano Morsi. Sempre i sauditi sono la forza che più si è spesa a finanziare ed organizzare i ribelli anti Assad ed in molti li considerano (tra cui scrive) non solo gli occasionali finanziatori dell’Isis-Stato islamico ma i veri  e propri manovratori di una formazione che si muove organicamente su gli stessi presupposti wahhabiti che fondano lo stesso stato e  monarchia saudita già alla sua fondazione. Sempre lo Stato islamico si muove per ottenere una egemonia nella guerra civile libica, è probabilmente dietro l’attentato di Tunisi e più in generale, le azioni ribelli-terroristiche da al-Qa’da nel Maghreb, dello stesso Boko Haram così come in Afghanistan e le continue azioni in Pakistan oltreché le minacce che vanno dai Balcani alla Cecenia al Xinjang cinese mostrano una regia che si fa fatica a non addebitare all’ideologia wahhabita ed ai più prosaici interessi sauditi. E’ questo un tentativo di egemonia del sunnismo da parte della sua componente storica più conservatrice, una sorta di pan-islamismo hanbalita. Così l’intervento fuori dai propri confini per reprimere a suo tempo la primavera del Bahrein promossa dalla maggioranza sciita della popolazione  e l’attuale sconfinamento in Yemen contro la fazione sciita degli houti. E’ chiaro che oltre ad essere chiamati in causa  in quanto sciiti dai fatti del Bahrein o quelli dell’Afghanistan o quelli attuali dello Yemen, oltre ad esser direttamente chiamati in causa dal conflitto in Iraq, l’Iran  è l’unico autentico nemico naturale del disegno saudita-sunnita. Si segnala che a questo punto, se si sdogana l’Iran e si scende a patti con Assad, stante il peso di Hizb’allah in Libano e l’allineamento del governo iracheno ormai interamente sciita, inclusi i turbamenti che gli sciiti possono creare in Yemen, Bahrein ed Afghanistan, questo contro-potere d’area può contare su un certo peso di non disprezzabile competitività bilanciando quello sunnita a guida saudita. Altresì se i sunniti debbono bilanciare gli sciiti debbono unirsi e così la smettono di infastidirsi reciprocamente. Oltre infatti al piano sub-imperiale arabo-saudita si deve segnalare anche l’asse qatariota-turco più favorevole al salafismo dei Fratelli Musulmani, asse che ad esempio in Libia è aperto conflitto armato con quello Stato islamico – monarchie del Golfo, attrito già manifestatosi in Siria ed Egitto.

Ecco allora plausibile l’idea di costruire un pianoforte a quattro tasti, Egitto, Arabia Saudita, Iran, Turchia, che possa permettere alle potenze regionali, se sono in grado di agire in concerto tra loro, se non lo fossero di permettere al concertista statunitense di pigiare ora questo ora quel tasto per coprire la stonatura di chi prende ad agire per conto proprio, creando nuovo potenziale disordine. Tale “piano” otterrebbe il massimo risultato col minimo sforzo in termini di costi ed attenzioni da concentrare altrove.

Qual è infine l’atteggiamento degli USA verso la questione del supposto piano sub imperiale saudita e più nello specifico dell’intera partita assai complessa ed intricata che si sta giocando in questo quadrante?

Qui bisogna chiarire un fatto. Gli USA, nella loro configurazione attuale, risultano un ente parzialmente diviso. E’ un fatto che l’amministrazione Obama sia stata la più ferocemente odiata e la più decisamente avversata dalla parte repubblicana. Altre amministrazioni hanno goduto del favore di un establishment che sebbene elettoralmente diviso, nei fatti convergeva su alcune posizioni comuni. L’amministrazione Clinton, ad esempio, era una di queste. Obama ha favorito l’industria privata informatica ma con la riforma sanitaria ha dato un duro colpo al comparto sanitario-farmaceutico privato, la lobby più importante negli States. La strategia di smaterializzazione della geopolitica ovvero utilizzo dei servizi, dello spionaggio informatico, ong travestite da super-partes in luogo di truppe (i famosi “scarponi” sul terreno) e contractors privati, ha certo preoccupato l’altra grande industria, quella militare. Né le operazioni di polizia anti-terrorismo operata da droni hanno più di tanto compensato le perdite di bilancio dei produttori di armamenti  viziate dal public spending Cheney-Bush. La conversione a cui ha obbligato l’industria petrolifera che abituata a vivere della rendita medio-orientale e comunque del greggio liquido ha dovuto riciclare tecnici e tecnologie nel progetto shale nazionale ha creato un terzo attrito. Unitamente ai malumori ideologici di un po’ più stato ed un po’ meno mercato almeno nella sanità (per non parlare dei vari tentativi di legge come quelli di alzare il salario minimo, tutti naufragati al Congresso a maggioranza repubblicana), l’irritazione di Israele ma anche dell’Arabia Saudita, la partita cinese condotta secondo i repubblicani con un po’ troppo di delicatezza, l’idea di lasciare il Medio Oriente a se stesso, il tutto appena compensato dal nuovo impegno di fornitura di armi all’Europa, soprattutto dell’est, ha creato nei fatti una contrapposizione netta ed agita anche forse al di la di quanto ci è dato sapere e vedere. Ci riferiamo all’ambigua presenza del senatore McCain in Siria, l’ambigua presenza-non presenza accanto/contro lo Stato islamico che qualche volta trova depositi di armi americane lasciate lì dalle truppe che si ritirano, qualche altra volta come a Kobane viene bombardato con decisione per impedirne l’azione militare. Non v’è dubbio che gli USA non abbiano usato tutte le loro capacità per osteggiare lo Stato islamico e che, a volte, si siano mostrati direttamente o indirettamente conniventi ma occorre capire meglio il perché.

Molti nell’area della contro-informazione, hanno interpretato questo come un avvallo al progetto fondamentalista, uno spregiudicato uso del terrorismo da parte dell’”Impero del caos”. E c’è chi si è spinto a semplificare il tutto con un “Isis è una creatura americana” come se CIA a vari apparati del gigante imperiale avessero varato una sofisticata covert-operation al fine di creare il supremo disordine su cui imperare.  La Teoria del caos è assai fascinosa e sofisticata ma se la si studia si scoprirà che per porsi come attrattore nello spazio delle fasi, occorre che il caos non degeneri, sia esso stesso contenuto e controllato, sia anche se in modo complesso, “deterministico”. Far scoppiare una improbabile primavera ad Hong Kong è caos controllato, la tensione ucraina è caos controllato, dare ogni tanto una scrollatina a gli spread è caos controllato. Inventare una creatura islamista hanbalita-wahhabita armata, nel centro del quadrante medio orientale (al di là dell’assoluta mancanza di realismo di una ipotesi che non conosce neanche i fondamentali della storia islamica e rimane chiusa nell’occidentalismo più vetero anche se di segno “alternativo”)  è tutt’altro che caos controllato e comunque andrebbe in direzione opposta a quella strategia che prima abbiamo detto di esser chiara, comprensibile e credibile per fondati motivi più razionali che non l’avventura di creare ordine dal disordine. Un Impero che produce caos generalizzato è più semplicemente un impero che non fa bene il suo mestiere, perché non è capace o perché le sue ambizioni imperiali sono sproporzionate alle condizioni di possibilità del mondo su cui si vorrebbe imperare. Può anche essere che l’ostinazione con la quale manipola realtà complesse porti a degenerazioni ma non sembra realistico ipotizzare una intenzionalità caotica. L’ambiguità americana si fa prima a giustificarla con una non perfetta chiarezza degli intendimenti ma anche con un non perfetto dominio della catena di comando e con l’azione non ufficiale di interessi americani non governativi che agiscono per sé e spesso, contro quelli governativi. Insomma gli americani marciano divisi e colpiscono divisi, il che in un mondo complesso è garanzia di più disordine di quanto già non ce ne sia spontaneamente.

Come si colloca in questo scenario, l’inattesa e spregiudicata azione di dumping sul prezzo del petrolio esercitata dall’Arabia Saudita? I sauditi, assieme a gli israeliani, assieme all’industria della armi e quella del petrolio americana, non vede certo di buon occhio il possibile disimpegno americano dal Medio Oriente. I sauditi sono molto vulnerabili. Innanzitutto il paese è tutt’altro che unito, spaccato com’è tra le varie tradizioni tribali (delle aree Hasa, Najd, ‘Asir, Hijiaz) e tra il fondo ultra conservatore ed ultra tradizionalista wahhabita e le nuove élite che hanno studiato all’estero ed aspirano ad una modernità se non occidentale, almeno turco-egiziana. Il problema più urgente però è quello demografico, i sauditi sono solo 28 milioni (tra cui molti immigrati) in un territorio immenso (gli iraniani ad esempio, sono tre volte tanto) e l’ingente acquisto di armi protratto da vari anni non ha comunque formato un esercito particolarmente efficiente e moderno. Gli impianti petroliferi che sono il cuore della potenza saudita e che tra l’altro vedono molta mano d’opera saudita di minoranza sciita, sono concentrati nella zona nord-orientale facilmente raggiungibile dall’Iraq (oggi sciita) ed ancor più esposti sono gli importanti giacimenti off shore. Quanto petrolio ancora c’è nel sottosuolo saudita rimane un mistero anche se c’è chi ha già da tempo avanzato previsioni di oltre-passamento del picco di produzione.  La stessa legittimità della monarchia assoluta dei al-Saud non ha né l’attualità della modernità, né il fondamento della tradizione islamica, né il fondamento tribale-etnico essendo il cuore della penisola, storicamente, posto tra Mecca e Medina nell’Hijaz e non certo a Riyad nel Najd. La stessa idea debba esistere un unico e vasto regno unito nella penisola è discutibile vista la lunga tradizione e larga presenza di semplici emirati. L’affollamento dell’offerta energetica tra il gas russo ed i nuovi giacimenti venezuelani, nigeriani e sud americani preme contro quella che una volta era una esclusività della penisola e dei sauditi in primis.  Il tutto, tra l’altro, mentre la domanda mondiale va in contrazione per la stagnazione della crescita. Una cosa è certa. L’idea obamiana di disimpegnarsi in Medio Oriente attraverso la raggiunta autonomia interna tramite lo shale non piace ai sauditi tre volte. Non piace l’esser lasciati soli, non piace perdere una chiave di ricatto sul gigante americano, non piace che sul mercato arrivi una nuova fonte energetica la cui tecnologia potrebbe poi esser utilizzata da altri dando una certa prospettiva alle fonti dei gas di scisto che hanno forse una geografia ben più ampia di quella del petrolio in quanto tale.

Certo l’azione di dumping sul prezzo del greggio operata dall’Arabia Saudita che col suo peso controlla anche l’OPEC, impatta sulle economie iraniana, venezuelana e soprattutto russa ma anche su quella saudita. Soprattutto però, mette del tutto fuori gioco lo shale che ha costi di produzione molto alti. Poiché i sauditi hanno già annunciato che condurranno l’operazione per parecchio tempo (ufficialmente, per difendere la propria quota mercato) si deve ipotizzare che dopo qualche mese di secco nel business energetico americano, le compagnie statunitensi tornerebbero in ogni modo ed a qualsiasi condizione a reclamare appoggio per garantirsi nuove trivellazioni in giro per il mondo e con esse il ripristino dell’azione militare che le rende possibili. Sarebbe la fine del disimpegno obamiano costretto a quel punto a rimanere vicino al “fornitore” e certo che a quel punto, addio riabilitazione iraniana.

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Come si vede la situazione è tutt’altro che lineare. A nostro avviso la strategia obamiana rimane in essere però registra i negativi sia dell’inerzia nell’area pacifica (ed anche del vivace attivismo cinese), sia di quella atlantica dove i vecchi europei assentono formalmente tanto all’operazione ucraina, quanto ai trattati commerciali ma assai poco convintamente e comunque pronti a saltare in blocco nella nuova banca cinese perché le chiacchiere stanno a zero e 50 miliardi di dollari messi nel progetto dai cinesi non sono chiacchiere, quindi non sono zero. Quanto al Medio Oriente, il nuovo protagonista assoluto è senz’altro l’Arabia Saudita ma tale protagonismo muove dai propri stretti interessi che, come nel caso europeo, cominciano oggettivamente a divergere da quelli americani o almeno da quelli interpretati da questa amministrazione.

L’idea del quartetto medio-orientale è l’unica strategia di stabilizzazione sul campo, campo che però è attraversato anche dalla contrapposizione sciiti-sunniti, da quella monarchie vs repubbliche con i regimi militari come terzo incluso, da quella sunniti moderati vs islamisti armati e da quella Qatar-Arabia Saudita sul tipo di salafismo da promuovere. Il tutto con Israele sempre più fondamentalista, le élite petrolifero-militari americane sempre pronte a tornare in pista e con loro i neo-con repubblicani (mai davvero spariti dalle stanze di comando a Washington), i contributi al disordine portati dai britannici e dai francesi ed ultimamente anche dai turchi nonché il possibile rientro nella geopolitica d’area di una Russia già in contatto con l’Egitto e storicamente amica di Siria ed Iran. Il gas ed il petrolio che sono incerte certezze ed un comandante in capo alla potenza suprema che non ha maggioranza parlamentare e scade tra venti mesi.

Il disordine che vediamo è dunque il risultato di una concorrenza senza chiara prevalenza di differenti idee sul nuovo ordine da dare all’area.

(Fine)

Com’è noto sin dai primi passi della disciplina geopolitica ai primi del secolo scorso dove l’isola a rischio di isolamento era la Gran Bretagna, il continuum euro-asiatico farebbe di inglesi ed americani, quello che sono geograficamente, due isole e le isole sono soggette ad isolamento o comunque a divenire periferie. E’ per prevenire e contrastare questo evento, per reazione, che gli ultimi imperi (britannico, giapponese, americano) provengono tutti da isole.

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