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Ciclone Duterte nelle Filippine

Lotta alla droga, rottura con gli USA e bombe dell’ISIS

di Federico Dezzani

Philippines Duterte U InteIl vento tempestoso del populismo soffia a tutte le longitudini e non risparmia neppure l’Asia, dove il candidato anti-establishment, Rodrigo Duterte, ha conquistato lo scorso maggio la presidenza delle Filippine: con la forza di un ciclone Duterte ha sradicato interessi ed assetti da tempo consolidati. La lotta senza quartiere al narcotraffico è coincisa in politica estera con la clamorosa “separazione” dagli USA e col parallelo avvicinamento alla Cina. Per Barack Obama, fautore del “pivot to Asia”, è l’ennesimo smacco in politica estera. La repentina comparsa dell’ISIS e gli attentati con cui si è cercato di eliminare Duterte non sono casuali: la riconquistata sovranità delle Filippine ed il giro di vite sul traffico di stupefacenti sono duri colpi per l’establishment atlantico.

* * * *

Il “pivot to Asia” cade a pezzi. Tra le bombe dell’ISIS

Non poteva concludersi nel mondo peggiore la permanenza di Barack Hussein Obama alla Casa Bianca: il fallimento negli ultimi mesi di mandato dell’unica strategia estera dichiarata, “il pivot to Asia”, ossia il disimpegno dal Medio Oriente e dall’Europa, per una maggiore focalizzazione sul Pacifico e sui Paesi asiatici in tumultuosa crescita.

Si può definire l’unica strategia “dichiarata” perché l’amministrazione democratica ne ha perseguite in realtà molteplici negli ultimi otto anni, ma tutte inconfessabili: fomentare la guerra tra sciiti e sunniti, ad esempio, così da lasciarsi alle spalle un Medio Oriente in fiamme e fuori controllo, oppure esacerbare al massimo i rapporti tra Russia ed Europa Occidentale, così da scongiurare qualsiasi integrazione tra le due aree ed il temutissimo asse tra Mosca ed una o più cancellerie europee. Il “pivot to Asia” era invece la meta dichiarata di Obama dal lontano 2011, l’obiettivo strategico decantato da diplomatici, analisti e commentatori: aumentare la cooperazione militare ed economica con i Paesi del sud-est asiatico, così da ostacolare l’avanzata della Cina, creandole tutt’attorno un cordone di contenimento, proprio come fece l’impero britannico con la Germania guglielmina.

Per l’attuazione di questa strategia Washigton faceva affidamento sui soliti alleati anglosassoni (Australia e Nuova Zelanda), sugli storici alleati-occupati asiatici (Giappone, Sud Corea e Filippine) e su alcuni nuovi acquisti (di dubbia fedeltà), tra cui si contavano il Vietnam e la Birmania.

Il progetto avanza a stento per anni, concentrata com’è Washington sul Medio Oriente, dove la determinazione russa ostacola il processo di balcanizzazione della regione: “Losing its rebalance” scrive The Economist nel febbraio del 2014, commentano le difficoltà statunitensi a sganciarsi dal Medio Oriente per focalizzarsi sul Pacifico. Nel febbraio 2016 Barack Obama può brindare alla stipulazione del Trans-Pacific Partnership, la zona di libero scambio che raggruppa alcuni Paesi asiatici a discapito della Cina, ma il bottino in termini di “alleati” è piuttosto magro: Giappone, Australia, Brunei, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam.

A decretare il crollo dell’architettura così faticosamente costruita, e veniamo così alla cronaca di questi ultimi mesi, è nel maggio 2016 l’elezione di Rodrigo Duterte a presidente delle Filippine: il “Donald Trump asiatico” che si abbatte come un tifone sui piani statunitensi, sradicando Manila dall’orbita di Washington e proiettandola verso la Repubblica popolare cinese.

Tra gli Stati Uniti e Filippine esiste un rapporto tormentato, perché il Paese asiatico è stata l’unica colonia ufficiale di Washington (quelle controllate informalmente non si contano), conquistata dopo la guerra ispanico-americana del 1898: il neo-presidente Duterte rinfaccia ancora oggi agli USA l’uccisione di 600.000 filippini mussulmani nella “guerra di pacificazione” che seguì all’occupazione americana1. Ottenuta l’indipendenza formale nel 1946, le Filippine, come molti altri Paesi asiatici, videro l’instaurazione di “presidenti a vita” benedetti dagli USA: è il caso di Ferdinand Marcos che governò senza opposizioni tra il 1965 ed il 1986. Sotto la dittatura di Ferdinand Marcos si formò quella ristretta cerchia di oligarchi che conserva il potere anche con l’avvento della “democrazia”: è lo stesso fenomeno riscontrabile in Brasile, Argentina o Cile. I Marcos rimangono infatti al centro della scena politica, tanto che il figlio di Ferdinand, Marcos Junior, tenta senza successo di correre come vicepresidente tra le file del partito liberale in vista delle elezioni del maggio 2016.

Già, il partito liberale: il nome stesso ha un sapore di establishment anglosassone e sono proprio i liberali cui Washington si affida per la gestione degli affari correnti nelle Filippine, delegando il potere a magnati e notabili locali educati negli Stati Uniti e formati nelle più rinomate società americane. Il partito liberale è alla guida del Paese dal 2010, da quando cioè il rampollo di un’altra potente famiglia, Benigno Aquino III (figlio della presidentessa Corazon Aquino, che ha governato le Filippine tra il 1986 ed 1992), si è insediato come presidente. Aquino III è un docile strumento nella mani degli americani: quando la priorità di Washington diventa il contenimento della Cina nei mari del sud-est asiatico, è facile convincere il presidente filippino a trascinare Pechino davanti alla Corte permanente di arbitrato dell’Aja, per una disputa su alcune barriere coralline (Scarborough Shoal), distanti 185 miglia dalle coste filippine e reclamate dalla Cina come una “parte inalienabile del suo territorio”2. Sotto la presidenza di Aquino le Filippine si trasformano così in un avamposto degli USA in chiave anti-cinese: l’accordo militare siglato nel 2014 prevede il pieno accesso americano alle strutture militari di Manila3ed il libero dispiegamento di soldati.

È in questo quadro di totale sudditanza a Washington e di opprimente immobilismo politico, è in questo desolante panorama, dove un pugno di famiglie governano le Filippine da mezzo secolo col placet statunitense, che emerge il “populista” Rodrigo Duterte: 71 anni, più volte sindaco della città di Davao come esponente del partito democratico filippino, il candidato anti-establishment si proclama socialista (ed in effetti coopterà nel governo i comunisti, mettendo fine all’insurrezione a bassa intensità in alcune zone del Paese), ma è allo stesso attraversato da forti venature nazionaliste, che potrebbero fare di lui un peronista in salsa asiatica. Di carattere parecchio schietto, abituato a parlare senza peli sulla lingua e ad agire in maniera altrettanto decisa, Duterte imposta la campagna per le presidenziali sulla lotta alla criminalità, la repressione del narcotraffico ed una politica economica flessibile, che spazia dalle zone economiche speciali all’abolizione della contrattazione aziendale. Per Duterte è un successo: con il 39% delle preferenze si aggiudica le elezioni del 9 maggio.

L’insediamento di Duterte è un vero terremoto per gli equilibri regionali: per la prima volta siede a Manila un candidato che non appartiene alla cricca dei Marcos e degli Aquino, e non accetta che le Filippine siano trasformate in un bastione americano in chiave anti-cinese, con tutti i rischi conseguenti: anzi, da vero “populista”, cioè da “homo novus”, Duterte ha capito che gli equilibri mondiali stanno velocemente cambiando. Perché avvelenare i rapporti con la Cina per un atollo nel Pacifico, quando Pechino, a differenza di Washington, può investire miliardi in infrastrutture ed aziende? Il “pivot to Asia” trema…

Ora, un brevissimo excursus sulla storia delle Filippine: circa il 5% della popolazione è mussulmana (i cosiddetti “mori”, un termine spagnoleggiante) e sin dagli anni ’70 la zona del Sud del Paese è teatro di una guerriglia a bassa intensità tra le forze di Manila ed i secessionisti mussulmani: è, insomma, un Paese (come la Cecenia, la Nigeria o l’India) dove gli angloamericani possono attivare all’occorrenza il terrorismo islamico per i loro fini geopolitici.

Detto, fatto: nel mese di giugno, a distanza di un mese dall’elezione di Duterte, l’agenzia Reuteurs scrive (Southeast Asian Islamic State unit being formed in southern Philippines: officials4) che l’ISIS ha scelto il suo capo nelle Filippine, tale Abu Abdullah, ed ha impartito l’ordine di non raggiungere più la Siria, ma di intensificare l’attività nel Paese. Trascorrono pochi giorni ed anche il SITE dell’israeliana Rita Katz emette il suo verdetto: le Filippine sono nel mirino del Califfato, ossia della triade CIA-MI6-Mossad.

C’è un motivo se il Califfato issa così in fretta la sua bandiera nelle Filippine: Duterte non ha perso tempo e si è attivato con Pechino per il grande salto di Manila fuori dall’orbita americana. Come si legge nell’articolo “Duterte: China offering to build Manila-Clark railway in 2 years5 la Repubblica popolare cinese è pronta ad investimenti miliardari nel settore ferroviario filippino, costruendo quelle infrastrutture di cui Manila ha bisogno come l’ossigeno per sostenere la crescita economica. La contropartita? Una maggiore flessibilità per quanto concerne le isole contese: in sostanza, Pechino invita a pensare più al portafoglio e meno agli interessi americani. I rapporti tra gli Stati Uniti e Rodrigo Duterte si deteriorano quindi in fretta: il neo-presidente non è una persona che somatizzi la rabbia ed il 5 agosto, davanti ad una platea di militari, etichetta l’ambasciatore statunitense Philip Goldberg come “omosessuale figlio di puttana”6. La situazione precipita.

Il primo settembre l’arresto di un trafficante d’armi, attivo tra le Filippine e gli Stati Uniti, porta a galla la preparazione di un attentato per eliminare Duterte7; l’indomani c’è il salto di qualità: una bomba esplode al mercato di Davao, la città di cui Duterte è stato per anni sindaco e dove è in visita quel giorno, lasciando ipotizzare che l’obiettivo dell’ordigno sia proprio lui. Muoiono 14 persone, ma Duterte è trasferito incolume in una stazione di polizia8. A rivendicare l’attentato è, ovviamente, un gruppo islamista vicino all’ISIS9 che, destrutturata la narrazione, significa i servizi atlantici. La temperatura sale ulteriormente ed il 5 agosto, durante il vertice dell’ASEAN, Duterte sferra un attacco frontale, prendendo come spunto le critiche americane alla lotta senza quartiere al narcotraffico: “Obama, figlio di puttana, te la farò pagare”. L’incontro bilaterale tra i due, previsto a margine del vertice, ovviamente salta.

Il ritmo si fa incalzante: il 29 settembre, ospite del governo vietnamita, Duterte annuncia che le imminenti esercitazioni congiunte tra Filippine e Stati Uniti saranno le ultime, nonostante il trattato di difesa siglato nel 1951 rimanga per il momento valido10. Si, ma per quanto tempo ancora? Non trascorre nemmeno un mese ed il vulcanico Duterte vola a Pechino, dove, siglati diversi accordi commerciali con il presidente cinese Xi Jinping, annuncia la clamorosa “separazione” dagli USA ed il riallineamento delle Filippine alla Cina ed alla Russia:

“I’ve realigned myself in your [China] ideological flow and maybe I will also go to Russia to talk to Putin and tell him that there are three of us against the world – China, Philippines and Russia. It’s the only way”.

Manila, Pechino e Mosca contro il resto del mondo: non solo il “pivot to Asia” di Barack Obama è andato in fumo, ma crolla addirittura l’intera impalcatura geopolitica su cui si basa l’egemonia statunitense sul sud-est asiatico da oltre settantanni. Il 2016, dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, si profila come un vero “annus horribilis” per il sistema atlantico. C’è poi il concreto rischio che la linea adottata da Manila abbia un effetto valanga e sia imitata dagli altri alleati-occupati statunitensi, che assistono incerti all’ascesa della potenza cinese ed al conclamato declino del loro protettore. È infatti a Tokyo che Rodrigo Duterte fa la mossa successiva: il 26 ottobre, il presidente annuncia che gli accordi militari siglati dal precedessore sono da considerarsi nulli e tutte le truppe americane dovranno ritirarsi dalla Filippine entro due anni. La dichiarazione di Duterte è diretta solo a Washington, oppure anche ai milioni di giapponesi stanchi delle basi militari statunitensi?

La Casa Bianca è paralizzata dalle imminenti elezioni presidenziali e le opzioni per reagire alla politica di Duterte, a parte il solito stragismo “islamico” e qualche operazione sporca della CIA, limitate: toccherà al successore di Barack Obama scegliere se assecondare il disimpegno filippino (sarebbe il caso di Donald Trump) o tentare di rovesciare Duterte (e sarebbe il caso di Hillary Clinton). La posta in gioco è di natura prevalentemente geopolitica, il collocamento di Manila nell’orbita angloamericana o in quella russo-cinese, ma, come accade sempre in questi casi, ci sono anche importanti ricadute economiche. Arriviamo, così, alla “sanguinosa” lotta alla droga lanciata da Rodrigo Duterte.

katz filippine

 

Narcotraffic, my love!

La guerra al narcotraffico condotta col pugno di ferro è, allo stesso tempo, l’origine dell’enorme popolarità di cui Duterte gode tra i filippini e causa delle dure accuse che gli sono rinfacciate dagli USA, dall’Unione Europea e dalle solite organizzazioni non governative angloamericane. Le cifre parlano di 2.500-3.000 morti in circa quattro mesi di operazioni anti-droga, su una popolazione vicina ai cento milioni di persone: numeri che permettono ad Amnesty International, la ong preferita da Londra e Washington per l’attuazione dalla loro agenda geopolitica (come ha insegnato il caso Regeni), di scrivere: “Philippines: Duterte’s 100 days of carnage”, “Filippine: i cento giorni della carneficina di Duterte”. Violazione dei diritti umani, impunità delle forze dell’ordine, squadroni della morte, dure accuse a politici, parlamentari ed alti ufficiali dell’esercito, sono i concetti su cui fanno leva i detrattori del “Donald Trump asiatico”.

L’intento di screditare Duterte, così da punirlo per la sua “separazione” dagli USA, è evidente. Ma c’è anche dell’altro. Bisogna chiedersi perché la guerra al narcotraffico sia stata lanciata da un candidato anti-sistema, socialista e populista come Rodrigo Duterte: per quale ragione i Marcos e gli Aquino, i fedeli alleati degli USA che militano nel partito liberale, hanno lasciato scivolare le Filippine verso la condizione di un “narco-Stato”, per usare la definizione del neo-presidente? Forse l’establishment filo-atlantico aveva interesse che lo spaccio della droga prosperasse?

Apriamo un argomento che esula dalle cosiddette “teorie del complotto”, appartenendo da decenni ai libri di storia: il legame, cioè, tra l’impero angloamericano ed il narcotraffico.

Tutto comincia nell’Ottocento quando l’impero britannico, consolidato il dominio sull’India, si pone il problema della penetrazione economica e politica della Cina, chiusa ermeticamente a qualsiasi contatto con il “mondo barbaro”. Cosa vendere ai cinesi che negano alla navi inglesi l’accesso nei porti e disprezzano qualsiasi prodotto occidentale? La soluzione, escogitata dalle grandi famiglie ebraiche dell’India come i Sassoon, è l’oppio: la droga dilaga in Cina, assuefa ricchi e plebei, drena metalli preziosi dalle casse del Celeste Impero a vantaggio di Londra. Quando le autorità, constato il degrado sociale prodotto dall’oppio, dichiarano guerra al narcotraffico, gli inglesi rispondono con le cannoniere (1839-1842), espugnando i porti cinesi, installandosi ad Hong Kong ed inondando il mercato di stupefacenti.

Sboccia quell’amore, tra potenze anglosassoni e narcotraffico, destinato a durare sino ai nostri giorni. Restringendo l’analisi al solo sud-est asiatico, come non ricordare che l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek, sostenuto dagli USA contro i comunisti di Mao Tse Tung, traeva il suo sostentamento dal traffico di droga? O come non citare l’Air America, la compagna area gestita dalla CIA ed operante nel triangolo d’oro dell’oppio (Birmania, Laos, Thailandia e Vietnam), che tra gli anni ’60 e ’70 gestì il contrabbando di stupefacenti per contenere “l’espansionismo comunista”? Già, la CIA, il controspionaggio statunitense sempre attento che anche il ricco mercato domestico sia sempre ben rifornito. Uno degli aeroporti preferiti dall’agenzia per questo genere di affari è negli anni ’80 il Mena Intermountain Regional Airport, nello Stato dell’Arkansas11. Chi è il governatore dell’epoca? Ma ovviamente Bill Clinton: marito dell’attuale candidata democratica Hillary Clinton, dietro cui si è raccolto l’intero establishment americano.

Certamente il narcotraffico assicura guadagni miliardari alle oligarchie nazionali e transazionali che lo gestiscono ed è il mezzo più facile per creare quei fondi neri con cui la CIA, l’MI6 ed il Mossad finanziano le loro amate attività: putsch militari, assassini politici, rivoluzioni colorate, terrorismo islamico, sabotaggi, etc. etc. Ma c’è anche un’altra finalità, di carattere più geopolitico, già riscontrabile nella guerra dell’oppio anglo-cinese: la volontà di destabilizzare e soggiogare i Paesi terzi. Il narcotraffico incancrenisce la società, incattivisce le strade, sottrae vitalità, penetra nell’apparato di sicurezza, corrompe la politica, rende ricattabile la classe dirigente: la droga sfibra lo Stato, rendendolo più debole e facilmente controllabile dall’esterno.

Ecco quindi spiegato perché è stato il candidato anti-establishement ed anti-americano, il populista Rodrigo Duterte, a lanciare la crociata contro la droga e contro la deriva delle Filippine verso la condizione di “narco-Stato”: sovranità non significa solo la chiusura delle basi militari straniere, ma anche la liberazione dal traffico degli stupefacenti controllato dall’oligarchia atlantica.


Note 

1 http://globalnation.inquirer.net/143883/duterte-to-obama-dont-lecture-me-on-rights-ph-not-a-us-colony

2 http://www.nytimes.com/2016/05/20/world/asia/benigno-aquino-philippines-south-china-sea.html

3 http://thediplomat.com/2016/03/a-big-deal-us-philippines-agree-first-bases-under-new-defense-pact/

4 http://www.reuters.com/article/us-philippines-militants-idUSKCN0Z91C5

5 http://www.rappler.com/nation/137177-duterte-china-build-manila-clark-railway

6 https://www.theguardian.com/world/video/2016/aug/10/president-philippines-insults-us-ambassador-sparking-diplomatic-row-rodrigo-duterte-video

7 http://www.philstar.com/2016/09/01/1619406/duterte-assassination-plot

8 http://www.repubblica.it/esteri/2016/09/02/news/esplosione_davao_filippine-147073366/

9 https://www.washingtonpost.com/world/philippines-blames-isis-related-group-for-deadly-bombing/2016/09/03/b6981394-71ff-11e6-b786-19d0cb1ed06c_story.html

10 http://www.reuters.com/article/us-philippines-duterte-idUSKCN11Y1ZI

11 http://www.wsj.com/articles/SB854491476811028000
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