Print Friendly, PDF & Email

lantidiplomatico

Decisioni complicate attendono Donald Trump

di Federico Pieraccini

trump 700x350La vittoria di Donald Trump è stata colta con sorpresa, infondendo insperato entusiasmo agli osservatori internazionali. Coloro che si occupano di politica estera hanno immediatamente preso nota delle grandi promesse fatte durante la campagna elettorale. Durante i 18 mesi di rincorsa alla presidenza, Trump ha evocato numerose politiche internazionali di distensione e cooperazione. Rimangono di primaria importanza regioni come Europa, Medio Oriente ed Asia, storicamente rilevanti per Washington. Quale potrebbe essere, realisticamente, una dottrina credibile in politica estera per Donald Trump?

Donald Trump è stato eletto contro il volere di tutto l’apparato statale, mediatico, militare, spionistico, ma la vera battaglia inizia adesso. Il primo passo per il presidente eletto coinvolge la nomina del suo staff.

E’ un compito difficile e complicato che potrebbe modellare il futuro atteggiamento dell’amministrazione Trump. Il giusto mix imporrebbe al neo presidente un’assegnazione nei ruoli chiave dell'amministrazione di persone ritenute adatte, ma anche in linea con le aspettative dell’establishment. Trump si ritiene una persona di successo soprattutto grazie alla sua capacità di negoziazione, lo ha ribadito ripetutamente durante tutta la campagna elettorale. Ha affermato di voler cambiare la nazione e i trattati internazionali con una profonda revisione di norme ed accordi, ribadendo che con lui presidente gli Stati Uniti tornerebbero a ‘vincere, vincere, vincere’.

La prima sfida è già iniziata, appena una manciata di giorni dopo le elezioni. La nomina di figure chiave nella sua amministrazione sembra scontentare tutti, dai vertici Repubblicani alla base di sostenitori più fedeli. Sembra infatti che il magnate newyorkese abbia intenzione di nominare nei ruoli di consiglieri o in materia di sicurezza nazionale personalità estranee a Washington, mentre per il ruolo di segretario di stato avanza la candidatura di Bolton, falco dell’era Bush. Senza speculare eccessivamente in merito alle candidature, per nulla certe, sembra però di assistere ad una tipica trattativa in cui entrambe le parti vengono accontentate fino ad un certo punto.

L’obiettivo è trovare una soluzione conciliante con le élite di Washington, senza tradire la base elettorale, unico suo prezioso alleato. Trump ha già contro tre quarti della nazione, dovesse alienarsi anche i suoi elettori la presidenza diventerebbe automaticamente un incubo.

E’ possibile che in base alle nomine del suo staff si possa comprendere meglio la direzione che intende prendere Trump, soprattutto in politica estera. Con un Segretario di Stato come Bolton, ci sono due ipotesi: tradimento del mandato degli elettori, ripudio completo della base repubblicana, popolarità ai minimi storici e il viatico perfetto per un impeachment in cui nessuno avrebbe interesse nel difenderlo. L’alternativa è una strategia più profonda. La nomina di un falco come Bolton potrebbe servire semplicemente come copertura per rassicurare conglomerati di potere quali neoconservatori, blocco NATO e alleati Asiatici. Una mera questione di immagine, senza alcun riflesso esecutivo sulle linee di condotta di politica estera. Un modo semplice ma efficace per accontentare, a parole, i più entusiastici sostenitori del sistema unipolare americano.

In fin dei conti ci sono solo tre ipotesi in merito alla politica estera di Trump. Interventista, simile alla precedente amministrazione. Indecisa, fatta di non-scelte, di isolazionismo e del costante disinteresse per gli eventi in giro per il mondo. Oppure la terza opzione, sicuramente la più rivoluzionaria. Una politica estera completamente diversa rispetto al ruolo degli Stati Uniti negli ultimi 70 anni. Certamente Trump dovrà stare molto attento in ognuna di queste situazioni. Nel primo caso finirebbe per tradire il mandato con gli elettori, come Obama, precipitando verso l’impopolarità. La seconda ipotesi, di fatto un disinteresse calcolato, finirebbe per ledere pesantemente agli interessi americani. Trump può anche adottare un atteggiamento di disincanto, disinteresse e non aggressività, ma necessariamente ha bisogno di una strategia condivisa e negoziata con gli alleati regionali in Europa, Medio Oriente ed Asia. Nel caso in cui rinunciasse al dialogo, spingendo per un isolazionismo estremo, le conseguenze porterebbero ad un attivismo senza precedenti degli alleati. Nazioni tradite in qualche modo dalla mancanza di protezione di Washington finirebbe per esacerbare tensioni e rivalità con avversari geopolitici con conseguenze nefaste.

Se le intenzioni di Donald Trump sono una distensione delle relazioni internazionali, dovrà lottare per ottenerlo. Occorrerà trattare con amici e nemici, sporcarsi le mani e scendere nell’arena politica internazionale, tenendo sempre in mente l’enorme opposizione interna con cui troverà a confrontarsi. Se il neo presidente eletto vorrà davvero rivoluzionare la propria politica domestica per fare di nuovo grande gli Stati Uniti, dovrà trovare un accordo internazionale mediando tra grandi potenze per tracciare una strada per i prossimi anni. Occorrerà un atteggiamento positivo, di dialogo e cooperazione.

E’ questa la base con cui proseguire in questa approfondita analisi. Oltre ad ipotizzare sfide e strategie future di Trump, l’intenzione è di porre l’accento su come dovrebbe svilupparsi una linea di politica estera coerente con le intenzioni espresse dal presidente neoeletto.

La nozione più importante che rimane impressa dopo l'elezione di Donald Trump riguarda le intenzioni positive di dialogo con la Federazione Russa. Per mesi siamo rimasti in un limbo pericoloso con la concreta possibilità di uno scontro diretto tra Washington e Mosca in Siria. Per settimane il mondo ha atteso, con il fiato sospeso, qualche segnale di distensione. Pochi giorni dopo, con Trump eletto, il 14 Novembre è finalmente giunta la tanto auspicata telefonata tra i due leader. Un atteso e molto anticipato scambio di cortesie ed auguri da cui traspare una voglia inedita per i due inquilini di limare contraddizioni ed attriti tra potenze nucleari inaugurando un nuovo corso per le relazioni USA-Russia, con importanti riflessi per tutto l’ordine mondiale.

Naturalmente bisogna considerare anche l’ambiente da cui prendono vita tali relazioni. La situazione di Trump, presidente degli Stati Uniti con il partito Repubblicano, presuppone una certa difficoltà nell’implementare questa strategia. Il GOP, partito che ha dato alla luce i neoconservatori e da cui è stata forgiata la politica di egemonia globale non depone certamente a favore degli intenti positivi del prossimo presidente eletto. Detto francamente, sembra tutto tranne che il partito ideale con cui compiere una rivoluzione in nome della cooperazione reciproca.

Donald Trump però è stato eletto soprattutto per due motivi: focalizzare l’attenzione sulle dinamiche interne al fine di rivitalizzare l’economia domestica ed evitare agli Stati Uniti di essere coinvolti in delicate situazioni internazionali che finirebbero per erodere le priorità nazionali. E’ scontato affermare che intenzioni e volontà devono conciliarsi obbligatoriamente con i poteri forti nel governo, nelle agenzie di spionaggio, nel reparto militare, nei media e nelle corporazioni. Sarà necessaria una grande opera di diplomazia interna alla stessa amministrazione per non incorrere in un fuoco incrociato di opposizione e sbarramento. In tal senso la nomina di figure molto discutibili all’interno dello Staff di Trump dovrebbe far riflettere. Con in mente il grande generale Sun Tzu e il suo famoso motto “Tieni i tuoi amici vicino, ma ancora più vicino tieni i tuoi nemici”, Trump sembra voler adottare un approccio morbido con l’ala più guerrafondaia dell’establishment. Al contempo però, in appena sei giorni da presidente-eletto, Trump ha già intrattenuto una telefonata storica con Putin per imbastire ben più di una semplice cooperazione. L’intenzione comune è di risolvere questioni annose e dare il via ad un importante ridimensionamento delle tensioni internazionali.

Siria ed Ucraina sono in cima alla lista delle priorità per il Cremlino e la casa Bianca. Trump e Putin partono da amministrazioni e politiche molto differenti, anche se le parole del presidente-eletto sono certamente di buon auspicio. Nella pratica è molto difficile intuire come Stati Uniti e Russia riusciranno a cooperare nella lotta al terrorismo. Ricordiamoci che Washington, da anni, utilizza direttamente ed indirettamente grazie agli alleati regionali svariati strumenti di destabilizzazione come il terrorismo. Al Nusra, Al Qaeda, Daesh e altre organizzazioni attive in Siria ed Iraq hanno perlomeno beneficiato di una certa indulgenza delle forze USA, se non di un’assistenza diretta. E’ evidente come buona parte dell’amministrazione di Trump sia fortemente contaminata ed influenzata dai soldi e dagli interessi condivisi con le élite dei paesi sostenitori del terrorismo internazionale. E’ pertanto molto difficile che il neo eletto presidente possa trovare agevolmente un terreno comune in queste condizioni.

Come spesso accade in vicende così intricate, esistono però dei margini di trattativa e punti di contatto. Prendiamo la Turchia ad esempio. Da sempre strenua sostenitrice dei terroristi in Siria, in futuro potrebbe doversi accontentare di rimanere in possesso della fascia di territorio Siriano occupato illegalmente con l’operazione militare euphrates shield. La priorità per Ankara è la divisione del territorio Curdo, con questa soluzione raggiungerebbero tale obiettivo senza reiterare in uno scontro dannoso con Washington. Senza dimenticare il jolly dell’estradizione di Gülen che Trump potrebbe giocarsi in ogni momento per convincere Erdogan della bontà delle sue intenzioni.  

Con i Sauditi la situazione è molto più complicata. Il presidente eletto necessita di una forte arma di persuasione per obbligare Riyadh a cessare la sua opera di assistenza ai terroristi in Siria. Come sempre, i ricatti politici offrono la giusta soluzione e prospettiva. La vendita di 60 miliardi di dollari di armamenti al regno potrebbe subire un rallentamento, l’assistenza nella guerra disumana in Yemen essere interrotta e le possibili rivelazioni sull’11 Settembre rappresentare un altro incentivo importante per convincere Riyadh a collaborare. Washington deve comunque prestare molta attenzione al rapporto con la famiglia reale Saudita, Pechino è sempre pronta, dietro l’angolo, ad approfittare di ogni crepa in questa relazione strategica. Il pericolo non più remoto di un passaggio dal sistema del petrodollaro al Petroyuan minaccerebbe la stessa esistenza degli Stati Uniti e rappresenta un punto di attenzione speciale. In tal senso, i reali Sauditi avranno una forte capacità di negoziazione con la nuova amministrazione e un accordo quadro andrà trovato tenendo conto, oltre a Siria e Medio Oriente, delle altre dinamiche in atto. Senza dubbio, uno dei maggiori ostacoli da superare per l’amministrazione Trump riguarda la vicenda Saudita e tutti gli interessi ramificati correlati.

Ancor più difficile risulta ipotizzare realisticamente come potrebbero evolversi i rapporti tra Teheran e Washington. In campagna elettorale Trump è stato molto deciso in merito alla retorica anti-iraniana. Da comprendere se queste affermazioni fossero essenzialmente mirate alla base repubblicana oppure celassero intenzioni realmente ostili. Certamente però, sia Teheran che l’amministrazione del presidente neo-eletto hanno dimostrato importanti capacità di negoziazione. Attualmente il problema principale per l’Iran è rappresentato dall’impossibilità di lavorare con banche private a causa delle pressioni americane, nonostante l’accordo sul nucleare. E’ nell’interesse di Trump avere un buon rapporto con l’Iran se intende davvero bilanciare indirettamente l’asse Sauditi-Qatar-Turchia nella regione. Non è esagerato immaginare che possano esserci margini sufficienti per imbastire una trattativa con Teheran, dopotutto, è anche nell’interesse della Repubblica Islamica tornare ad essere protagonista sul mercato mondiale petrolifero.

A proposito di buone intenzioni, interessante notare le voci intorno ad una nuova negoziazione tra Israele e Palestina da imbastire grazie al contributo dell’amministrazione Trump. Un’altra vicenda di alto profilo che richiede sforzi importanti da parte di tutti i componenti. Una trattativa che aprirebbe la strada ad un miglioramento delle relazioni tra Stati Uniti, Israele e paesi del golfo (sostenitori economici dell’autorità palestinese). Un altro tassello da incastrare in questa caotica situazione mediorientale.

Il punto centrale è che Trump avrà bisogno di tutto il sostegno possibile per portare avanti trattative così complicate. L’ostacolo maggiore è rappresentato da politici, militari, agenzie di spionaggio, intellettuali, media e potenze straniere.

Presumibilmente, ognuno di questi conglomerati di potere avrà da obiettare in merito alle finalità delle trattative di Washington. Facile concludere che molte delle azioni di Trump in Medio Oriente riguardano offerte di cooperazione commerciali privilegiate (petrolio, gas, vendita di armi). In cambio occorrerà che le nazioni più ostili verso Damasco e Mosca rivedano le loro priorità in politica estera. Nel caso in cui anche questo tentativo dovesse fallire, è più che probabile che Trump decida di passare ad una politica estera mediorientale di inattività. Semplicemente decidendo di non-decidere. Le conseguenze porterebbero ad impatti enormi per lo sviluppo dell'alleanza tra Iran, Russia e Cina. Con il campo libero dall’interferenza americana, otterrebbero le condizioni necessarie per rimodellare il Medio Oriente. E’ questa l’alternativa e la tattica di negoziazione che Trump imposterà internamente, brandendo la non-interferenza come minaccia rivolta ai detrattori domestici. Non ci sono alternative, se Trump verrà sabotato nel suo tentativo di conciliazione, gli Stati Uniti smetteranno di prestare assistenza a Riyadh, Doha, Ankara e Tel Aviv con conseguenze nefaste per quest’ultimi.

In termini di marketing è un’operazione molto semplice. Trump, da diciotto mesi, afferma di voler cooperare con tutti. Dovesse incontrare ostilità, è probabile che riveli tutto, denunciando le politiche incendiarie di alcuni paesi medio orientali alleati degli USA e gli intralci interni alla sua amministrazione o al congresso. La sua giustificazione seguirà una linea di comunicazione già ascoltata in questi mesi, rimanendo coerente con i suoi propositi. Ripeterà fino alla nausea che è arrivato il momento per Washington di smetterla di assistere nazioni che non avanzano gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

In fin dei conti sia Israele che Turchia, pur avendo interessi contrastanti in Siria ed Iran, hanno tutte le intenzioni di sviluppare buoni rapporti con Mosca. In questo scenario, una buona prospettiva di dialogo tra Washington e Mosca imporrebbe dei vincoli importanti su paesi come Turchia, Israele, Iran e Siria. Solo un’intesa tra Russia e Stati Uniti beneficerebbe praticamente tutte le nazioni mediorientali, se sapranno approfittare dell’occasione. Persino i Sauditi potrebbe ottenere la massima ricompensa possibile con un nuovo rialzo dei prezzi del petrolio se i paesi OPEC, Russia e industria dello Shale Gas e fracking USA riusciranno a trovare un accordo per omogeneizzare le estrazioni e le politiche economiche sul greggio.

Trump non parte sicuramente con i favori del pronostico in Medio Oriente, vista la notoria difficoltà nel giungere ad un accordo tra nazioni così conflittuali. E’ soprattutto per questo motivo che necessita di tutto l’appoggio possibile dalla Federazione Russa. Nessuno però, più di Mosca, intende sfruttare questa situazione per normalizzare le relazioni con Washington, annullare le sanzioni e tornare ad un dialogo costruttivo con l’occidente, soprattutto l’Europa.

Probabilmente non esiste ancora una grand-strategy (strategia globale) di Donald Trump, è troppo presto. Intanto però, oltre al Medio Oriente, si riesce ad intuire come potrebbe rapportarsi con i paesi baltici e l’Ucraina, da sempre grandi sponsor di un inasprimento dell’atteggiamento occidentale con la Russia. In questo contesto, più che una collaborazione diretta con Kiev, è più facile immaginare un lento ma inesorabile silenzio di Washington con l’obiettivo di congelare la situazione nell’est del paese. Washington già 2 anni fa si dimostrò riluttante nell’aiutare eccessivamente Poroshenko a massacrare civili nell’est del paese. Due anni dopo, con una nazione ancor più divisa ed in difficoltà economica, è probabile che Kiev non abbia alcuna possibilità di protestare l’atteggiamento di indifferenza della Casa Bianca. Prima o poi l’Ucraina sarà costretta a riconoscere che senza una cooperazione logica e razionale con Mosca, è destinata a dissolversi e scomparire. Senza gli USA e con l'UE troppo preoccupata e distratta dalle prossime elezioni interne e dal vento populista che spira, non resta più nessuno dell'establishment per dedicarsi a Kiev. Anche le nazioni baltiche vivono una situazione analoga piangendo miseria economica. Se insisteranno nelle loro denunce contro Mosca e provocazioni contro la Federazione Russa, rischiano di scatenare una reazione di Trump in linea con le accuse di “passaggi gratuiti” (free-riders) per i componenti della NATO. Oltre a qualche lamento, è probabile che Riga e compagnia restino in un profondo silenzio durante l’amministrazione Trump, troppo impauriti dalle minacce di mettere fine alla NATO.

Per il resto dell’Europa si apre una fase nuova in cui la priorità principale riguarda la sopravvivenza della classe politica attuale con un vento di cambiamento che spira da est a ovest in nome di Trump e da Nord a Sud in nome della Brexit. In questa situazione, è facile immaginare che le sanzioni alla Russia diventeranno un argomento di forte discussione dell'UE con paesi come Italia, Francia, Grecia e Austria fortemente opposte, mentre Germania e alcuni paesi del Nord Europa vorranno adottare una linea politica, di fatto più ostile verso Mosca di quanto non sia Washington. Paradossi dell’essere storicamente una colonia. Le relazioni economiche come TTIP vedranno un rapido declino, obbligando i paesi Europei ad uno sguardo ad est se vorranno continuare ad esistere e resistere. La poca furbizia residua dei leader europei dovrebbe portarli ad una collaborazione primaria con la Repubblica Popolare Cinese e Federazione Russa su argomenti come la Via della Seta e il mercato Eurasiatico. Ne saranno capaci?

In Asia, centro economico globale, la situazione è più intricata ma certamente meno militarizzata di altri luoghi come il Medio Oriente. Innanzitutto va subito ribadito un concetto: Donald Trump ha dichiarato in più occasioni di non credere che i conflitti siano il viatico ideale alla risoluzione di crisi o problematiche. In Corea del Sud gli Stati Uniti potrebbero perdere uno dei maggiori alleati di Washington, fondamentale per le politiche americane nella regione, a causa di scandalo di corruzione che ha portato in piazza milioni di cittadini pretendendo le dimissioni dell’attuale premier Park Geun-hye. Una notizia che sembra di buon auspicio per Trump che intende negoziare tra Nord e Sud Corea un accordo di qualche genere. L’attuale governo di Seoul è lontano anni luce dall’ipotesi di avere un atteggiamento di cooperazione con il Nord del paese. Provocazioni, esercitazioni militari e lamenti isterici sono l’unica nota che fuoriesce da Seoul in questi anni.

Come più volte ribadito dal presidente neo-eletto, l’arroganza militare sembra estranea alla sua dottrina politica. In questo senso, dissensi sulla vicenda del mar Cinese Meridionale sono stati taciuti durante la campagna elettorale. Un aspetto critico, certamente apprezzato da parte di Pechino. Xi Jinping e Donald Trump hanno una forte necessità di collaborare, sono coloro che detengono effettivamente le leve del potere economico globale. Una notizia positiva riguarda lo scambio telefonico, molto cordiale, avvenuto tra i due pochi giorni fa. Ancora una volta è difficile ipotizzare quale potrebbe essere l’atteggiamento di Washington nei confronti dell’area di maggior interesse al mondo, ma le prospettive sembrano incoraggianti. Dopo 8 anni di Obama, la regione Asiatica è in una condizione particolare con Cambogia, Laos e Filippine che dopo anni nell’orbita americana, lentamente traslocano nell’area di influenza Cinese. Per Phnom Penh, Vientiane e Manila la vittoria di Trump rappresenta un’occasione unica per proporre nuove basi di contrattazioni con gli Stati Uniti. Dal punto di vista di Washington, questa mossa verrebbe vista come un interessante sviluppo, ansiosi di recuperare gli alleati regionali.

Questo non significa automaticamente che queste o altre nazioni vogliano mutare atteggiamento favorendo più Pechino o Washington. Come ribadito da Duterte in alcuni discorsi pubblici: l’obiettivo di un mondo multipolare è offrire scelte diversificate grazie a cui far fruttare nella migliore maniera possibile i propri interessi nazionali. Trump dovrà essere capace di dialogare con queste nazioni, senza dare l’impressione troppo sfrontata di voler contenere la Repubblica Popolare Cinese, a patto che sia questa la strategia da perseguire. Fino ad ora, a parte qualche esagerazione in merito ai dazi doganali, non è stato esplorato fino in fondo l’atteggiamento che Trump vorrà intraprendere con Pechino. Una cosa però è certa: Stati Uniti e Cina hanno un disperato bisogno di dialogo visto l’interdipendenza tra le due economie.

A sorpresa, ma fino ad un certo punto, a beneficiarne maggiormente di questo nuovo equilibrio nel rapporto triangolare tra Cina, Russia e Stati Uniti sarà Mosca. La Federazione Russa godrà di una posizione di privilegio che consentirà di bilanciare le sue relazioni di dipendenza con Pechino, nate dopo l’aggressione occidentale, grazie ad una rinata partnership con Washington. Allo stesso modo, per Stati Uniti risulta difficile ipotizzare qualunque tattica nei confronti di Pechino, senza il consenso della Russia. Infine, Pechino avrà ancor più bisogno del suo alleato Moscovita per resistere alle pressioni americane, accelerando l’integrazione Eurasiatica. E’ un enorme riallineamento tettonico tra superpotenze nell’ottica di accelerare cooperazione e sviluppo, invece di guerre e caos.

Potrebbe persino essere questa la grande illusione che Trump getterà in pasto ad oppositori interni ed esterni. Vendere ai liberal e ai neoconservatori l’idea di un approccio strategico che porti ad un contenimento della Cina. Riesumare l’alleanza con Mosca in ottica di un contenimento Cinese. Una bella favola che giustificherebbe l’atteggiamento di Washington con la Federazione Russa in Medio Oriente ed in Europa. Una falsa speranza per l'establishment americano, un ottimo tranello con cui mettersi al riparo dalla preoccupazioni di un sabotaggio interno da parte dei liberali o neoconservatori.

Il punto di focale della politica estera di Donald Trump pare ruotare intorno al concetto secondo cui troppo tempo e troppi soldi sono stati spesi per occuparsi di guerre, conflitti e strategie. Con l’opinione pubblica lontana dalla politica estera e focalizzata sulle politiche domestiche, ricostruire gli Stati Uniti, creare posti di lavoro e rilanciare l'economia dovrebbe essere più semplice.

Per riuscirci avrà bisogno di tre alleati: l’Iran in Medio Oriente, la Russia in Europa per rinvigorire la cooperazione economica e la Cina per rinegoziare alcuni trattati commerciali in Asia. In Medio Oriente Washington ha la necessità impellente con Iran e Russia di arginare il trio composto da Arabia Saudita, Turchia e Qatar. In Europa gli Stati Uniti hanno nuovamente bisogno di Mosca per rivitalizzare alleati in forte depressione economica. Senza un’Europa forte, persino gli Stati Uniti risultano in sofferenza. In Asia, onde evitare pressioni dei neoconservatori sul Mar Cinese Meridionale, è fondamentale per Pechino e Washington trovare qualche genere di compromesso commerciale.

In ognuno di questi scenari ci sono svariate possibilità di cooperazione reciproca. E’ questa valutazione dei vantaggi e degli svantaggi che in fin dei conti deciderà quale sarà l’epilogo dei prossimi mesi nelle relazioni internazionali.

Più che un rialzo dei tassi della FED, considerata l’arma nucleare economica per sabotare Trump distruggendo l’economia USA, è più probabile immaginare un’oggettiva difficoltà ad incastrare i pezzi di questo puzzle così complicato. La sensazione comune è di essere di fronte ad un tentativo di conciliazione globale, forse l’ultimo possibile. In ballo c’è il futuro dell’umanità e la fine di un periodo di turbolenze che ha portato morte, distruzione e miseria in tutti gli angoli del pianeta. Giusto augurarci per il bene di tutti che Trump, Putin, Xi e Rohani abbiano successo.

Add comment

Submit